Questo pezzo è apparso originariamente su ZYZZYVA n.114, inverno 2018

I doposbronza del padre svanirono alla nascita del figlio. Beveva meno, ma c’erano notti in cui la vita lo attaccava alle spalle con la sua indistinta rabbia trascinandolo a terra, e allora ecco che il padre afferrava la bella bottiglia verde di Jameson e tracannava uno dietro l’altro cinque bicchieri sempre più pieni, l’ultimo colmo fino all’orlo, crollando in un sonno sconnesso interrotto solo dal pianto del figlio nel bel mezzo della notte. E poi, la mattina, si svegliava a mente lucida e con rinnovata energia, pensando, È un dono, una ricompensa, un premio. Una gioia. Il padre era sempre stato un gran bevitore, sempre avuti postumi della sbronza, anche quando, maturando, aveva ridotto il consumo di alcol, limitandosi ai cinque bicchieri di Jameson ogni dieci, quindici giorni, e ogni volta finiva per dormire male e svegliarsi il giorno dopo con un cerchio alla testa, rintontito, alle volte colto da nausee improvvise, magari con la sorpresa di una macchia di sangue nel water, e non riusciva a sentirsi meglio o capace di ingoiare del cibo prima del tardo pomeriggio o addirittura la sera. Ma ora ecco che dormiva «come un bimbo», così si diceva, solo che il bimbo non dormiva bene, aveva il sonno leggero e disturbato, si svegliava di continuo, spesso con fastidi di stomaco, e i suoi pianti sembravano giungere da un profondo pozzo di insoddisfazione e dolore che il padre proprio non riusciva a placare né comprendere.
Quell’inverno, un mese dopo l’altro, il bambino aveva sempre la febbre. Piangeva senza sosta. La madre pensava che avesse le coliche. Scrisse la parola su Google, «coliche», e provò tutti i rimedi consigliati – farmaci antimeteorici, lunghe camminate, lunghi giri in macchina, stringerlo in fasce, cullarlo, un ambiente più umido – e poi chiese aiuto al medico. Lui disse che esistevano solo due farmaci: uno non aveva controindicazioni ma era poco efficace, l’altro era efficace ma pieno di controindicazioni. Tutto quel piangere faceva sentire il padre in trappola, impazziva. Riprese a bere, e la mattina si destava con il dono di una mente limpida, la pancia rilassata, al punto da riuscire a rimanere calmo e pragmatico nel bel mezzo dei pianti incessanti e instancabili del bambino.

Il figlio si svegliò urlando da un tranquillo pisolino. La madre lo cullò per casa, il padre lo cullò per casa, tra dondolii e sussurri, ma lui era inconsolabile, e quando la madre gli sfilò le fasce per controllare il pannolino il mignolo del piede scivolò a terra, una nocciolina rosa e contusa con un accenno di osso a un’estremità. Una crosticina sul piede, meno sangue di quanto si possa pensare. Si chiesero: era forse entrato un animale nella culla, una creatura dalla grande meticolosità e denti affilati? Solo più tardi, quella sera, mentre il padre giaceva sdraiato di fianco alla moglie ricordò che si era colpito il piede con un’ascia. Era nel cortile sul retro, a tagliare ciocchi di legno in ciocchi più piccoli, e quando gli era sfuggita, l’ascia era rimbalzata sul piede tanto che, sulle prime, aveva avuto paura di guardare in preda a terribili presentimenti sulla dinamica dell’accaduto, e fu sorpreso di constatare che non c’era neanche un segno sul piede sotto lo squarcio nella punta dello stivale.

Quando il bambino compì tre anni, lo iscrissero a una scuola materna fedele ai metodi pedagogici di un’educatrice italiana, i cui motti erano tracciati a lettere pompose sulle pareti. Ai piccoli venivano dati materiali artistici e piena libertà, e spesso il bambino tornava a casa coperto di pittura. Piangeva quando lo accompagnavano la mattina, e piangeva quando doveva lasciare gli insegnanti nel pomeriggio. A un mese dall’inizio della scuola, tornò a casa con il naso incrostato e gocciolante. La mattina seguente, si svegliò tossendo e con la fronte calda, così la madre chiese un permesso per restare a casa con lui. La notte il bambino continuò ad avere la febbre, così fu il padre a prendere una giornata libera. Il terzo giorno sembrava che il bambino stesse meglio, non aveva più la febbre, così lo riportarono a scuola. La notte stessa fu la madre a sentirsi la fronte calda e un fastidio alla gola.
Fai attenzione o potresti essere il prossimo, disse al marito. Bevi tante spremute. Fai i gargarismi con l’acqua salata.
Probabilmente è troppo tardi, disse, pensando al giorno passato con il bambino, abbracciati sotto le coperte sul divano a guardare la TV. Il bambino aveva tossito sul braccio del padre, e lui si era pulito il braccio con una mano che poi si era passato sulla faccia, stando ben attento a toccare bocca e narici. Aveva fatto la stessa cosa con i fazzoletti usati del figlio. Cercava di ricordare se fosse mai stato malato, anche solo una volta, dalla nascita del bambino, ma non gli sovvenne nulla. Non riusciva a capacitarsi di ciò che aveva intuito. Mentre il bambino dormiva, il padre si mise faccia a faccia con lui, riempiendosi i polmoni del suo alito caldo e infetto.
La moglie stava sempre peggio, finché non migliorò.
E il figlio si ammalò di nuovo.

Passarono gli anni. Il bambino e la madre prendevano ciclicamente il raffreddore. Il padre iniziò a bere sempre più spesso, sempre di più ogni volta, e capitava di frequente che la mattina il bambino fosse rallentato e pallido. Osservando suo figlio dal tavolo della colazione, il padre si sentiva in colpa di essere così in forma e lucido, e si ripromise di smetterla di bere, ma non lo fece. Iniziò a fingere malanni. Quando la moglie o il bambino venivano colpiti dall’ennesimo raffreddore, lui imitava i loro sintomi a un paio di giorni di distanza, tossendo, starnutendo, fingendo di soffiarsi il naso al bagno. A volte prendeva dei giorni di malattia, ma senza riuscire a goderseli, girava per le stanze, annoiato, ansioso per ciò che stava accadendo. Che cosa stava accadendo? Lo sapeva, cosa stava accadendo. L’aveva capito dall’incidente del mignolo, o giù di lì, e ne aveva avuto conferma con i doposbronza, poi con la prima di una lunga serie di malattie: il bambino tornava a casa da scuola con un virus, si ammalava, lo attaccava alla madre e poi si ammalava di nuovo.
Quella ricaduta, il padre lo sapeva, doveva essere il suo turno.

Quando il ragazzo aveva tredici anni, un pomeriggio guardava la televisione con la madre mentre il padre era impegnato a preparare la cena. In cucina, l’uomo per sbaglio posò la mano su una pentola di ghisa in cui stava cuocendo uno stufato. La ritrasse con un grido, la donna gli chiese cosa fosse successo, se stava bene, e lui la mise sotto un getto d’acqua fredda – anche se il suo timore su quanto sarebbe successo prendeva forma mentre sentiva il calore abbandonare del tutto la sua pelle – e disse che sì, stava bene, non si era bruciato, alla fine, ma solo spaventato, e la moglie rispose spaventato per cosa, e fu allora che il ragazzo entrò in cucina dicendo, Guardate un po’ qua, non so come me lo sono fatto. Aveva una piccola bruciatura ovale, rosa e bianca con una vescica a un’estremità. La madre non la smetteva di fare commenti sulla strana coincidenza, medicando la ferita mentre il padre googlava «bruciature» per capire se fosse il caso di portarlo al pronto soccorso, e infine concordarono che lo era. In auto, la madre ripeteva, Che roba strana, ragazzi, finché il padre non esplose in un, Abbiamo capito!

Il padre decise che avrebbe condotto una vita per quanto possibile sana. Era un po’ in sovrappeso, e si ripromise di perdere chili. Si ripromise di mangiare cibo sano e fare più movimento. Lasciar perdere l’alcol. Ridurre gli zuccheri e assumere solo grassi buoni. Valutò se darsi al veganismo. Dichiarò che avrebbe iniziato a correre. O a nuotare. O a usare l’ellittica. Si ripromise tutte queste cose, in preda allo stupore e all’ansia per quel che stava capitando al figlio, e poi quelle promesse le rimandò tutte, giorno dopo giorno, si poteva sempre iniziare domani, avrebbe iniziato di certo, avrebbe preso a fare quel che serviva per il bene del figlio, sarebbe diventato un padre esemplare. L’indomani sarebbe cambiato, e fino ad allora avrebbe remato nella direzione opposta – hamburger, pizza, formaggi, vino e superalcolici. Fumava di nascosto, pensando: È l’ultima. È l’ultima.

Il ragazzo iniziò a ingrassare. Il padre pensava che fosse perché lui mangiava male, perché non era riuscito a diventare un nuotatore vegano, e la notte si abbuffava di gelati e cioccolatini. A volte si preparava degli intrugli rivoltanti, frappè alcolici mandati giù con manciate di M&M’s fino a che non gli facevano male i denti, e tutto il tempo pensando che quella era l’ultima volta, l’addio al celibato prima di un lungo periodo di castità e fedeltà, pensando di essere sul serio il tipo di padre che avrebbe fatto tutto il possibile per il figlio, perché lo amava a tal punto, non era così?, era sicuro fosse così – e in tal modo passò un giorno dopo l’altro, sera dopo sera, anno dopo anno mentre il ragazzo continuava a ingrassare.

La maggior parte del tempo, il padre provava grande ansia per quel che stava accadendo. A volte, però, lo stuzzicava una curiosità clinica. Perché solo il dolore, e non il piacere? Perché il doposbronza, ma non lo sballo? Il suo senso di fallimento personale era profondo – lo percepiva fin dentro alle ossa. Ma a volte, a notte fonda, dopo essersi concesso un paio di bicchieri in più, sentiva qualcos’altro, un’aria di protezione, o assoluzione, perdono, o irriducibilità, e in quei momenti era grato che gli fosse stata concessa quella protezione, ed era una gratitudine feroce, la sua, difensiva, e perché mai non avrebbe dovuto esser grato per tutte le cose che cadevano dal verso giusto nella sua vita, gli aspetti positivi di quella fortuna? Non l’aveva deciso lui, dopotutto. Non era mica colpa sua.

L’inverno del diciassettesimo compleanno del ragazzo, la madre scivolò sul ghiaccio, batté il sedere scheggiandosi l’osso sacro e le prescrissero delle pastiglie azzurre con il numero 5 impresso sopra, il Percocet, contenute in un flacone marrone. Ne prese alcune, ma non le piaceva il modo in cui la facevano sentire, così le ripose nel retro dell’armadietto dei medicinali, dove il padre una notte le trovò cercando delle pinzette per togliersi qualche pelo dal naso. Prese la bottiglietta chiedendosi se non fosse proprio quello che gli serviva, quel che avrebbe abbattuto il muro di nonall’altezza su cui era andato a cozzare con tutto quel bere. Non molto dopo aver ingerito la pillola, si sentì invaso da un piacere liquido, un bagno di brividi, gioia effervescente, ed era appena cominciato quando la domanda sorse spontanea: Come averne di più?

Il ragazzo prendeva buoni voti. Suonava la grancassa nella banda. Aveva alcuni amici stretti, e passavano la maggior parte del tempo nella sua camera nel seminterrato, cuffie in testa e joypad in mano, seduti di fronte a un enorme televisore che il padre gli aveva comprato a Natale proprio per giocare – una stravaganza improvvisa, di cui non aveva avvisato la moglie. Durante l’ultimo anno di liceo il ragazzo fece domanda per diverse università, due delle quali nello Stato in cui abitava, due fuori e, tanto per provare, Harvard. Fu ammesso a entrambe le università locali e a una di quelle più lontane, quella in cui davvero voleva andare, e i genitori gli dissero che avrebbero coperto i costi pari alla retta statale, e che avrebbe dovuto mettere lui la differenza se voleva andare fuori. Cosa che decise di fare. L’estate prima di partire per il college, accettò un lavoro in un supermercato della zona, dove imbustava i prodotti e li sistemava sui ripiani. La gamba destra prese a dargli fastidio, dapprima solo un poco e poi in maniera sempre più accentuata. Si era gonfiata attorno al ginocchio, era morbida al tatto. Faceva sempre più male e lavorare per un turno intero stata diventando difficoltoso. Nella parte esterna del ginocchio si formò un piccolo nodulo, una noce fibrosa sottopelle. Quando andarono dal medico, era già progredita: osteosarcoma. Cancro alle ossa.

Il padre era sballato per la maggior parte del tempo. Aveva trovato, in un modo tortuoso che era iniziato chiedendo ai senzatetto vicino alla ferrovia, il suo uomo, come lo chiamava. Il tizio che procurava quello che gli serviva. La madre pensava che il padre fosse solo un po’ svanito, distratto. Pensava che magari l’innamoramento fosse finito, tutto qui, e quindi tenesse le proprie distanze, con egoismo. A volte si accorgeva che lui non percepiva affatto la sua presenza, che gli si muoveva attorno come un fantasma. Non riconosceva i segnali che erano chiari ad altri – gli occhi offuscati, le parole farfugliate sul finale – perché non aveva mai avuto a che fare con la droga, perché lei stessa non ne prendeva mai. Anche solo due bicchieri di vino la mettevano a disagio, le girava la testa. Il passatempo preferito del padre assieme al figlio era guardare film a luci spente, mostrargli le pellicole che amava di più, in uno spazio oscuro e caldo rischiarato dall’illusione. Di solito, il padre si addormentava.

La chemioterapia si portò via l’anima del ragazzo, lo trasformò in uno scheletro pallido. Almeno non è più tondo, pensò il padre. Il ragazzo vomitava fino a non poterne più, e i vani conati successivi sembravano al padre non finire mai. Di tanto in tanto, una volta terminato, il ragazzo si abbandonava a un debole pianto, e il padre pensava di uccidersi, cercava di capire se uccidersi avrebbe portato via un po’ del dolore dal figlio, se ne avrebbe avuto la forza pur sapendo di non averne, pur sapendo che il limite del proprio altruismo paterno era situato a un passo dal suicidio – ma comunque si chiedeva, tra i pianti di dolore del figlio e il suo stesso bruciore di stomaco, in fiamme come l’erba di agosto, se non sarebbero stati tutti meglio se solo si fosse ucciso. Ricominciava così a ogni ciclo di chemio, finché un giorno non fu colto da un’altra domanda: poteva uccidersi? Sarebbe stato lui a morire, se lo avesse fatto? Carezzò la testa pallida del figlio, ormai priva di capelli, gli disse che sarebbe tornato subito, andò in bagno, accese la ventola, tirò fuori la pipa di resina nera e vi introdusse un pizzico di roba, si mise in piedi sul water e aspirò piano, soffiando il fumo nella ventola, una piccola botta per calmare i pensieri, si disse, per appianare le cose senza stordirsi, poi tornò in camera del figlio, si infilò a letto di fianco a lui e si addormentò abbracciandolo.

Il cancro del figlio andò in remissione verso Natale e tornò in primavera, ancora prima che ricevesse risposta dalle università cui aveva inoltrato l’iscrizione. La madre disse al padre che avrebbe chiesto il divorzio, ma concordarono di aspettare che il figlio fosse autonomo prima di rendere la cosa ufficiale. Gli disse anche che era depresso e che doveva vedere qualcuno, iniziare a prendere qualche farmaco. Lui sorrise. Lei gli disse di aver scoperto dell’ipoteca sulla casa, che lui in segreto considerava il proprio fondo eroina. Gli chiese cosa ne aveva fatto, dei soldi, ma lui fissò ostinato un punto oltre la sua testa finché non se ne andò. I medici del figlio continuavano a ripetere che avrebbero cercato di evitare l’amputazione della gamba nel punto in cui si erano estese le metastasi, che stavano facendo del loro meglio, ma che il secondo ciclo di chemio non stava sortendo alcun effetto. Il ragazzo perse di nuovo i capelli, la sua camminata divenne un trascinarsi. Il padre ricominciò a credere in Dio, perché come poteva questa cosa succedere e basta? Come funzionava questa magia nera? Era opera di qualcuno, che lo faceva per punire lui, il padre pensava, e con la mente alla deriva, alla deriva pensava Ti odio, pensava Ti odio per quello che stai facendo, pensava Ti odio per quello che stai facendo a lui ma in realtà pensava Ti odio per quello che stai facendo a me. Questo era il tenore delle sue preghiere. Alla fine, i medici non furono in grado di salvare la gamba del ragazzo. La amputarono appena sopra il ginocchio. Al successivo incontro con il tizio, l’uomo che gli procurava la roba, chiese se non c’era qualcosa di più forte, o se c’era un modo per renderla più forte, e il tizio chiese se l’aveva mai presa dal naso.

Il cancro andò in remissione. La prima estate di pausa dal college, il ragazzo trascorse cinque settimane con la madre nella casa di famiglia e quattro con il padre, che stava in un appartamento in centro. A volte il padre dormiva fino a mezzogiorno, si alzava e vagava ore in vestaglia, a bere caffè e spostarsi fuori a fumare, poi tornava in camera e chiudeva la porta senza uscire più. Il figlio lavorava in un alimentari. Cercò di parlare alla madre della situazione, ma era chiaro che lei non capiva cosa stesse accadendo. Mamma, è un drogato, le aveva detto in preda all’esasperazione, e lei si era raddrizzata sulla sedia. Un drogato? No, aveva detto. Al figlio parve che il suo distacco fosse netto come quello del padre. Decise di parlare con l’uomo, ma non trovò il coraggio e tornò all’università per il secondo anno. Incontrò una ragazza, iniziarono a uscire e, man mano che il rapporto cresceva, lei lo aiutò a rendersi conto che doveva parlare con il padre, doveva, lei lo avrebbe aiutato, e quando concluso l’anno tornò di nuovo a casa lei andò con lui, sedettero insieme nel soggiorno del padre – un posto da tempo orfano della luce del giorno, dall’aria malsana e in putrefazione – e cercarono di scalfire il suo stordimento. Il padre negò tutto, disse che era depresso, che cercava solo di aggiustare il dosaggio dei medicinali, che nessuno capiva la sua malattia mentale, e il figlio provò a dirgli che non era più un bambino, che aveva capito cosa stava succedendo, che aveva bisogno che il padre si desse una ripulita. Disse che forse il padre non se ne rendeva conto, ma che ogni sua azione ricadeva su di lui. Se ne rendeva conto, chiese il figlio, si rendeva conto di quanto dolore era in grado di causargli? Una risata improvvisa, penetrante eruppe dalle viscere del padre. La fidanzata del figlio, che era rimasta seduta e stupefatta al suo fianco, trasalì come per scansare un proiettile.

Il padre fece quel che si fa in questi casi. Vendette ciò che aveva. Sottrasse il bancomat all’ex moglie. Il padrone di casa aveva lasciato una cassetta degli attrezzi nell’atrio, e il padre la portò dritta al banco dei pegni. Prima del matrimonio del figlio, si promise di restare lucido e così misurò una piccola dose da iniettarsi nel piede, e lasciò il kit a casa – la piccola pochette con dentro ago, cucchiaio, accendino e la roba. Al ricevimento, per trovare sollievo dalla voglia, bevve senza sosta, bevve birra finché ce n’era e poi bevve vino e poi prese a vagare tra i tavoli, inciampando ma per chissà quale motivo ancora a mente sobria, scolandosi tutti i resti dai bicchieri degli ospiti. Fu allora che voltò lo sguardo verso la pista da ballo, dove il figlio e gli amici del figlio e l’ex moglie e quel suo terribile secondo marito ballavano a braccia in aria, e incontrò lo sguardo del suocero del figlio, un uomo brizzolato con l’aria da banchiere – un patriarca, un padre vero – che logicamente lo stava guardando con disprezzo muoversi furtivo tra i tavoli e bere goccetti dai bicchieri degli altri. Il padre si sentì modificato sotto quello sguardo, giudicato e da esso plasmato in un animale, un rottame, oggetto di disprezzo. Tornò a casa e si fece, poi si svegliò il pomeriggio successivo e si fece ancora, finché non rimase più nulla, poi prese i suoi attrezzi e li portò al secchio della spazzatura in strada e buttò via tutto, tornando in casa ad aspettare l’arrivo della bufera.

Ma la bufera non arrivò mai. Lo sballo passò e, mentre si dissolveva, il padre si sentiva come ridestato da un lungo sonno, lucido e riposato, pronto a saltar su dal letto e abbracciare la vita. Stava alla grande, cazzo. Si recò a piedi al diner lungo la strada dove ordinò un’omelette da tre uova con bacon e pomodori, frittelle di patate e pane tostato, bevve caffè, succo d’arancia e acqua, e quando finì era così pieno da non riuscire a contenersi, quindi corse al bagno del ristorante, ma si sentiva in formissima comunque, da favola, di nuovo vivo, rinato. Rinato. Non si fermò a chiedersi perché, non nelle prime ore almeno; uscì dal ristorante e girò a piedi la città ragionando tra sé che doveva contattare il figlio, in luna di miele con la moglie in un hotel chissà dove, che doveva contattare l’ex moglie, che doveva contattare chiunque un tempo avesse mai amato. Riconnettersi. Andò a piedi al fiume che divideva in due la città. Osservò le correnti e le onde, osservò la gente che dava da mangiare il pane alle anatre di fianco a un cartello che intimava di non dar da mangiare il pane alle anatre, ascoltò le risate dei bambini sulle altalene, guardò le coppiette tenersi per mano, le coppiette baciarsi, la vita dappertutto. Passò un’altra mezz’ora di estasi prima che si fermasse a pensare a cosa stava davvero accadendo e a cosa non stava accadendo, prima di ricordarsi del figlio e del mignolo e della bruciatura e delle malattie e del cancro. Non riusciva a crederci. Non riusciva a credere di non essersi reso conto dell’accaduto, di cosa avrebbe dovuto fare.
Mandò un messaggio al tizio.

Nella camera d’albergo, la moglie del figlio, svegliata da un odore acre e dalla vibrazione violenta del letto, trovò il marito riverso su un fianco, sudaticcio, pallido, tremante, immerso nel suo stesso vomito. Gli chiese cos’avesse e lui con lo sguardo distante disse che non lo sapeva, doveva aver mangiato qualcosa di avariato e lei cercò di aiutarlo ad alzarsi cingendogli con le braccia il corpo fradicio, ma dopo pochi passi traballanti lui si accasciò portandosi una mano all’addome. Sto morendo, sussurrò, deve essere la fine. La moglie lo aiutò a salire sulla macchina presa a nolo, lo portò in ospedale accompagnandolo al pronto soccorso. Il corpo del figlio andava in arresto e si irrigidiva, come se una divinità o un cattivo dei fumetti lo stesse manovrando da lontano. All’accettazione l’infermiera chiese alla donna cos’avesse assunto il ragazzo, se faceva uso di stupefacenti, e lei rispose di no, certo che no, a malapena beveva visto che il padre era un drogato, e l’infermiera la guardò come se non credesse a una parola. In sala d’attesa, uno dei neon sul soffitto prese a lampeggiare e il figlio disse, Starò morendo, poi il neon si spense del tutto e il figlio disse, Voglio morire, e l’infermiera chiamò un altro nome, e la moglie del figlio gli disse che sarebbe andato tutto bene, che non sarebbe morto, che avrebbero avuto molti figli – perché era questo il loro desiderio, averne tanti e tirarli su bene, perché entrambi credevano di non esser stati tirati su bene per primi.
Poi la divinità o il cattivo dei fumetti smise di tormentare il figlio. Smise e basta.
I tremori scomparvero. Il mal di stomaco svanì. Una nuova luce gli invase la mente, e si sentì come risvegliato da un lungo sonno – riposato, affamato – e quando l’infermiera chiamò il suo nome le disse che non pensava di avere più bisogno di aiuto, ma la moglie insisté e così l’infermiera gli controllò il battito cardiaco, la pressione, esaminò le pupille e le orecchie sotto la luce e fece qualche domanda su cosa avesse mangiato e quali fossero i sintomi e su come erano scomparsi.
In un attimo, le disse. Come per magia.
L’infermiera non riusciva a capire cosa avesse. Ma non accadde mai più niente del genere.

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Titolo originale, Take the Water Prisoner, copyright @ Shawn Vestal, all rights reserved.
Il titolo del racconto è un verso della canzone «Lungs», di Townes Van Zandt.
Traduzione di Federica Principi.