Questo pezzo è apparso originariamente su Hobart il 30 marzo 2019

 

Connie Wheeler aveva scoperto, di nuovo, quasi senza rendersene conto, che era vero quel che si diceva sempre, in un certo senso, cioè, nel senso in cui quel che si diceva sempre era di solito vero.

Incontrava il postino sulla porta dell’appartamento e lo trascinava in una conversazione, di solito con qualcosa come una lunga occhiata all’ammasso di pacchi Amazon che teneva sotto il braccio, le sopracciglia alzate, un’espressione meravigliata e un’osservazione del tipo, «Non dev’essere divertente, trasportarli tutti».

La conversazione serpeggiava tra le solite risposte del postino (e faceva provare a Connie un disagio che non aveva cura di spiegarsi) finché lei non le dava una piega tutta personale: si lamentava.

«Le mani, la schiena» oppure «È così dura trovare qualcosa da mangiare che vada bene per una donna anziana».

Della seconda si lamentava più spesso che della prima. Non era mai stata lei la cuoca, e la sua fantasia si era esaurita più di dieci anni prima, quando il cuoco aveva lasciato la loro cucina e lasciato lei ad arrendersi per sempre.

Aveva ceduto la cucina insieme alla casa. Era stato «troppo da gestire» per Connie.

«Sto invecchiando» aveva detto allora durante una telefonata al figlio, a quattromila chilometri di distanza.

Negli ultimi anni aveva finito per crederci, lo diceva apertamente, mentre un tempo era stato solo uno scherzo tra loro. La rattristava un po’, ma in fin dei conti era semplicemente la verità. Il genere di verità, quella delle sue mani, della schiena, che non poteva essere negata. Era un bene accettarla, che anche gli altri la riconoscessero e l’accettassero. Una volta accettata, quasi come se non fosse reale, poteva passare in secondo piano. Dopo un po’.

L’unica compagnia vivente nell’appartamento era un cactus che aveva comprato trent’anni prima, un impassibile cumulo di ovali spinosi. Se ne stava pacifico nella veranda dell’appartamento, leggermente decentrato.

Il cactus si scuoteva solo una volta l’anno, spingendo fuori in primavera, settimana dopo settimana, uno scettro vegetale che per ventiquattr’ore rimaneva ornato da un minuscolo fiore bianco, delicatamente tinto di rosa alle estremità, di verde nel cuore a imbuto.

Connie aveva l’abitudine di lasciare aperta la porta della veranda, per l’aria fresca. Nel pomeriggio si avventurava lì fuori per immergersi nel calore del sole.

Connie si divertiva a vederlo crescere, usciva giorno dopo giorno e lo studiava come una cactologa che lavori a una monografia. Mandava al figlio una foto del nuovo fiore ogni anno, proprio come gli mandava i biglietti d’auguri per il Ringraziamento, Capodanno, Natale, per il compleanno e per Pasqua.

Ogni anno inviava meno biglietti, poiché sempre meno ne riceveva in cambio. Ma suo figlio li ricambiava sempre, tutti quanti. Sapeva che per lei non avevano un gran significato, glielo aveva detto una volta che si era seduta a tavola per scriverli, ma il fatto che lui li trattasse come cose importanti aveva significato tanto quanto avrebbero potuto averne loro – se solo avessero avuto significato.

Suo figlio continuava a dirle di prendere un cane. Lei rispondeva qualcosa del tipo: «Sto bene così. Indipendente. Non ho bisogno di grandi entusiasmi. E poi, tutto quel camminare, la schiena».

Il suggerimento veniva lasciato cadere.

Non si lamentava con il figlio del problema legato al cibo. Credeva che lui l’avrebbe fatta più grande del dovuto.

Negli anni uno alla volta tutti i suoi piatti forti l’avevano abbandonata. Il pollo al limone e burro era diventato troppo pesante per il suo stomaco, si bloccava in un argine e seguiva un’inondazione. La pasta al ragù, con il goccio di vino rosso o bianco abbinato alla carne, le dava acidità, le si ripresentava come una preoccupazione, mille volte, e la teneva sveglia tutta la notte. Le cose semplici erano cambiate – il risultato, forse, del passaggio dal fare la spesa con due stipendi al farla con i soldi della previdenza sociale e i risparmi. Ciò la spingeva ad acquistare in formati convenienza e a conservare gli alimenti in frigo molto più a lungo del dovuto. E poi aveva smesso di andare al ristorante, fatta eccezione per le sporadiche soste al bar per una tisana e un cornetto. Il caffè non lo aveva mai sopportato.

Le cose più semplici le si rivoltavano contro, oppure qualcosa in lei si rivoltava contro di loro. Le uova assunsero uno strano sentore metallico, il sapore dei broccoli arrostiti le ricordava sempre più l’odore di un sigaro spento, e le verdure in generale tendevano a essere troppo dure o a trasformarsi sul suo fornello in un pasticcio insapore. Il sale non arricchiva il gusto, o iniziava a emergere in tutti i piatti come se vi fosse stato rovesciato sopra.

Pane tostato con la marmellata, porridge istantaneo, riso basmati, banane, zuppa in scatola di pollo al pomodoro diluita con acqua, yogurt bianco magro (non quello greco che ormai si trovava dappertutto) con pesche sciroppate, sandwich al formaggio con il soffice pane integrale a marchio del supermercato – erano diventati questi i suoi alimenti principali. Questi piatti essenziali avevano un sapore essenziale, dolce, agrodolce, salato, gusti semplici e consistenze semplici, erano vellutati, croccanti e liquidi. Non le davano fastidio, ecco cosa poteva dirne.

Mangiava queste cose in piccole quantità, due volte nel pomeriggio, a volte anche al mattino o la sera. A seconda che quel giorno fosse o meno «andata in giro».

«Andare in giro» voleva dire recarsi al supermercato, nel piccolo reparto cancelleria, a comprare biglietti d’auguri e carta goffrata o decorata su cui scriveva brevi lettere al figlio, ad amici e parenti, che il pensionamento e altri casi della vita avevano disseminato per tutto lo Stato. Scriveva a tutti quanti lettere simili, lettere con consigli buoni ma vaghi (spesso del tutto irrilevanti pur essendo vaghi), lettere che insistevano sulle sue abitudini e sul «meteo della California», lettere con un breve commento di circostanza alle ultime notizie, lettere affettuose.

Aveva provato a farsi qualche amico, ma non riusciva a capire dove questo genere di incontri avvenisse, alla sua età. Non poteva starsene seduta in un bar fino a conoscere tutti, cioè esattamente quel che aveva fatto a trent’anni quando si era trasferita a Los Angeles. Non poteva rimettersi a lavorare, tanto per fare qualcosa: non riusciva a immaginare chi l’avrebbe assunta, o per fare cosa. Si accontentava delle lettere, e ogni tanto di una telefonata. Ma le lettere erano meglio. Poteva aspettare ogni giorno, impaziente, il momento di controllare la cassetta della posta. E la busta avrebbe contenuto uno o due fogli, a volte con qualche dettaglio accattivante. La gente tendeva a dire di più per iscritto, più di quanto avrebbe detto ad alta voce, anche senza un interlocutore.

Andava all’ufficio postale a spedire le lettere e parlare con gli impiegati di come andavano la giornata e il lavoro. Andava in banca a incassare l’assegno, complimentandosi con gli impiegati per i loro completi eleganti, giovanili e professionali.

Una volta, un’impiegata giovane e carina le aveva detto con entusiasmo: «Questo abito ha addirittura le tasche», ci aveva infilato dentro le mani per dimostrarlo e le aveva rivoltate, esibendo la fodera rossa e lucida.

A volte andava al bar quando, dopo la banca o il supermercato, si sentiva ricca. Era un ambiente moderno, tutto legno chiaro e vetro, come Connie non ne aveva mai visti prima. Le bariste erano solo ragazze.

Quando non erano troppo occupate, a volte chiacchierava con le giovani bariste, indaffarate dietro l’acciaio splendente e la lancia sibilante della macchina da caffè La Marzocco. Trovava che avessero un fascino particolare.

C’era qualcosa che l’attirava in quelle giovani, così prese dalle loro frenetiche mansioni, l’espressione accigliata. Parlava con loro delle università che frequentavano, dei loro sogni, di tutti i tipi di caffè che sembravano esistere ora, dei posti da cui il caffè arrivava e di cosa questo implicava per il sapore.

«Signora Wheeler» dicevano a volte, e lei si inteneriva.

Di solito ripeteva le stesse cose più e più volte alle stesse persone, e loro in genere davano le stesse risposte, senza mai spingersi molto più in là, e a nessuno sembrava dispiacere sul serio. A Connie non dispiaceva. Era rassicurante.

In passato, il percorso includeva un 7-Eleven. Lì comprava dei gratta-e-vinci e, quando il montepremi era alto, un biglietto per il Mega Millions. Ma una volta, durante una delle sue visite, aveva chiesto al figlio di fermarsi lì mentre la accompagnava a casa in macchina; lui le aveva domandato il perché e, sentendo il motivo, le aveva lanciato un’occhiata, dandole la sensazione che non si trattasse del divertimento economico e dignitoso che aveva creduto.

Gli eventi della giornata erano spesso migliori del cibo, l’esatto opposto di come era stato nel resto della sua vita, quando ogni giorno si recava in un ufficio. Un tempo aspettava con impazienza il pranzo, e dopo a volte era ansiosa di uscire a cena. Grigliate, ripiene, marinate, schiacciate, arrosto, sottaceto – tutte quelle cose che Connie aveva amato mangiare fuori, disperandosi perché la facevano ingrassare, cercando di limitarsi al pollo, di saltare la colazione per poter mangiare di più.

Ora c’era soltanto una cosa che Connie Wheeler desiderava mangiare. Nel grande supermercato di catena lungo la tratta dell’autobus che prendeva – la vista era peggiorata troppo, pensava, e guidare la metteva in agitazione, e poi un’auto era costosa da mantenere – c’era un reparto panetteria. Era illuminato da una luce così brillante da sembrare allucinogena per come rendeva nitida la scena. Valeva per tutto il negozio, anche se lì l’effetto era più intenso a causa del piccolo tubo al neon attaccato all’interno delle vetrine, allineate lungo la parete, dove erano esposte torte, crostate e pasticcini ripieni di crema.

Davanti alle vetrine c’erano due tavoli in legno ricoperti da alcuni classici – recipienti in plastica con croissant, al cioccolato, vuoti o alle mandorle, polacche decorate con un guizzo di limone, mirtillo o lampone, o con quel formaggio un po’ giallognolo, paste intrecciate decorate e luccicanti di glassa – e un assortimento in continua rotazione di altri dolci e pani.

Tutte quelle cose venivano tolte da una scatola e messe a scongelare, oppure assemblate da una manciata di ingredienti tolti da una scatola e messi a scongelare, spedite da un magazzino dell’entroterra situato a ottanta chilometri da lì, dove venivano assemblate a macchina e da operai in grembiule e retina per capelli che parlavano e ascoltavano musica in spagnolo.

Per i più si trattava nel migliore dei casi di un piacere mediocre, da aggiungere al carrello magari per accompagnare il caffè della colazione con qualcosa di buono e veloce.

Spesso sulla plastica c’erano etichette arancioni e gialle: «5$» oppure «offerta speciale!», «sconto 50%». Niente al reparto panetteria costava più di venticinque dollari, e per lo più le cose dal prezzo più alto erano grandi torte di compleanno.

La prelibatezza di Connie Wheeler faceva parte dell’assortimento a rotazione. Era il «pane alle mele e cannella». Era come un pane in cassetta, ma con una crosta burrosa, più morbida che croccante, e un po’ più piccolo e tozzo. 

Veniva avvolto in un cellophane più opaco rispetto a quello del pane normale. Appena sfiorato, si accartocciava. In mano era più pesante di qualsiasi altra pagnotta ai cereali o di lievito madre. Profumava quasi di mele cotte – qualcosa che aveva mangiato soltanto a casa di sua nonna.

Sapeva di sidro di mele – mela e qualcosa di aspro – e cannella, una cannella forte, riscaldante, zucchero di canna e, cosparso per tutto il pane, non indicato, un qualche frutto essiccato dal sapore blando, probabilmente uvetta, in parte reidratata dal processo di scongelamento. Aveva una consistenza unta all’esterno e friabile all’interno, al centro quasi secca. Connie lo masticava sempre con lentezza, mescolando le due consistenze, godendosi quel modo in cui si mescolavano e come nel farlo riaffermavano e riequilibravano i sapori degli ingredienti.

Il pane alle mele e cannella era sostanzioso: riusciva a mangiarne due fette ed essere sazia fino al pasto successivo. Ma nonostante fosse così ricco, non le scombussolava lo stomaco.

Ogni volta che lo mangiava, Connie rimpiangeva di riuscire ora a godersi così pochi altri cibi. Comprava un paio di filoni ogni volta che li trovava in sconto. Si mantenevano bene, e potevano essere congelati e scongelati senza grandi cambiamenti.

Erano passati due mesi dall’ultima volta che Connie aveva visto il pane sui tavoli, e tre mesi da quando l’aveva mangiato: non ne mangiava di continuo, né comprava una confezione ogni volta che andava, per paura di sciupare il piacere così come una volta si era fatta venire la nausea del gelato alla zuppa inglese mangiandone una pallina dopo cena per tre mesi.

La sua parsimonia le imponeva di comprarne ancora solo quando l’aveva finito.

Iniziava ad averne una gran voglia. Spinse il carrello, scarsamente riempito di acquisti immancabili, oltre il reparto panetteria e fino al banco della gastronomia.

Un uomo con un grembiule e i capelli molto corti ricevette da un giovane un ordine di circa due etti di prosciutto affumicato e altri due di cheddar. L’uomo con il grembiule prese il prosciutto dalla vetrina e lo mise sulla macchina, la spinse avanti e indietro e tagliò una fetta.

La offrì all’uomo, che la prese, se la mise in bocca, masticò, chiuse gli occhi, li riaprì, e mangiando disse: «Più sottile, magari».

L’uomo con il grembiule calibrò la macchina e accumulò alcune fette su un foglio di plastica. Prese la plastica, la pesò, quasi due etti esatti, e l’avvolse nella carta. Ripeté il processo con il formaggio. Connie era compiaciuta di questa sua abilità nel pesare carne e formaggio. Il giovane se li portò via.

L’uomo con il grembiule si avvicinò a lei. Tra loro, sul bancone, c’erano cumuli di olive e antipasti. Sfoderò il suo sorriso abituale, che sebbene abituale, automatico, non conteneva alcuna vena di cinismo, o risentimento verso Connie. «Come posso esserle d’aiuto, signora?» chiese. Connie fu lieta di essere chiamata signora. Gli sorrise.

«Volevo informazioni su una cosa del reparto panetteria, se può aiutarmi» disse.

«Mi dica». Qualcosa in quella risposta la fece innervosire.

«Cercavo il… penso sia un “pane”, alle mele e cannella».

«Di quello non so, devo chiamare il nostro addetto» disse. «Ha fretta? Potrebbe volerci un po’» chiese l’uomo con il grembiule. Prima che potesse rispondergli si voltò, andò nel retro e prese in mano un telefono. Connie sentì un nome risuonare dagli altoparlanti. Una, due volte. Poi l’uomo tornò fuori.

«Credo sia in pausa, signora. Mi dispiace».

«Posso tornare» disse lei, esitante. Aveva finito di fare la spesa. Prese il carrello e sferragliò via fino al reparto delle riviste. Ne prese in mano una e la sfogliò senza capire. Parlava di persone – immaginava fossero celebrità – di un’epoca successiva alla sua, con modi e scrupoli pensati per gente più giovane di lei. Perché doveva importarle di chi indossasse cosa? Se stavano per avere un bambino? Immaginava che per qualcuno fossero come i film che lei guardava tutto il giorno sulla Internet tv, che suo figlio le aveva installato l’anno prima verso Natale. Ma lei guardava commedie. Dov’era l’attrattiva in quelle sciocchezze?

Tornò al banco. L’uomo con il grembiule stava servendo un altro cliente. Quando ebbe finito, l’uomo la indicò, fece l’occhiolino e schioccò la lingua. Chiamò di nuovo l’addetto alla panetteria.

«Sta arrivando, signora» disse l’uomo con il grembiule. «Posso tentarla con dell’affettato, mentre aspetta?» chiese sollevando le sopracciglia. Connie ordinò un etto di prosciutto nazionale. Mangiò l’assaggio lentamente.

L’addetto alla panetteria, un uomo alto e magro con il grembiule e un’espressione corrucciata, si avvicinò al banco.

«Come posso aiutarla, signora?» Anche la sua voce era vivace.

«Speravo di trovare un po’ di pane alle mele e cannella» disse.

L’uomo rispose in fretta: «C’è lo spazio apposito sul tavolo ed è finito?».

Connie esitò. «No» rispose. «Manca da tempo».

«Esponiamo tutto quel che riceviamo dal nostro distributore» disse. Era una frase che ripeteva spesso. Ma era cortese. Dopo una breve pausa aggiunse: «Mi dispiace che non abbia trovato quel che cercava».

Connie esitò di nuovo. Si accorse che iniziava a irritarsi. «Per caso può controllare?» chiese.

«Posso vedere» disse lui muovendo appena la bocca. «Che cos’era, qualcosa alla cannella?»

«Pane alle mele e cannella».

«Ha il marchio del supermercato o…»

«Non ne sono sicura».

«Ok». L’addetto alla panetteria aggirò il banco e andò nel retro.

Dopo qualche minuto, tornò.

«Mi dispiace signora, è fuori produzione».

«Cosa?» disse Connie Wheeler, sorpresa di averlo detto, e con tanta rabbia, a voce così alta.

L’uomo con il grembiule le lanciò un’occhiata preoccupata.

«Mi dispiace signora» rispose. «Posso aiutarla con qualcos’altro?» Avrebbe potuto controllare nella cella frigorifera, ma nella cella frigorifera faceva freddo, era l’unico posto in cui lui, da bravo californiano, avesse mai provato una temperatura sotto lo zero, e aveva troppo da fare, e quella vecchia signora era brutta e acida e lo infastidiva soltanto per un pezzo di pane.

«No» disse Connie.

«Ma perché è andato fuori produzione?» gli chiese.

«Mi dispiace, signora» rispose lui. «Prendiamo quel che arriva dal distributore».

Si allontanò, e Connie pagò alla cassa. Si trascinò per il parcheggio con le due borse di tela, aspettò l’autobus e salì. Era triste e stanca.

Andò a casa. Mise via la spesa, piegò le borse e le ripose sotto il lavello – tutto aveva un suo posto, e tutto era dove doveva essere. Aprì la porta con una spinta, uscì in veranda e guardò il suo cactus.

C’era una leggera tumescenza sull’ovale in cima al cumulo. Presto il cactus avrebbe cominciato ad allungare un tentacolo peloso verso il sole, a raccogliere tutta la sua forza di volontà vegetale in un bocciolo e poi, in e per un solo giorno speciale, avrebbe schiuso il suo fiore inodore. 

*

Titolo originale, The Conquest of Bread, copyright @ Joshua Hebburn, all rights reserved
Traduzione di Camilla Barichello