Questo pezzo è apparso originariamente su Brick numero 102, inverno 2019

In quel periodo la figlia ricevette un’email dal vicino.

Le scriveva che il suo gatto era entrato in casa più di una volta, quella settimana. Aveva urinato nell’armadio, su vestiti, scarpe, tappeti e mobili. Aveva urinato anche sulla porta nel retro della casa, in cortile, sulle piante, eccetera.

Sta peggiorando, scriveva il vicino.

La figlia portò il gatto dal veterinario. Possibile che uno dei due testicoli non fosse sceso prima della castrazione? Ma non era quello il punto. Certi gatti sterilizzati continuano a marcare il territorio e il suo faceva parte, disgraziatamente, di quella piccola minoranza. La figlia sospettava che fosse quello il motivo per cui era stato abbandonato dal precedente proprietario. Tutti i gatti trovano la propria famiglia con percorsi tortuosi, e il suo non faceva eccezione: un amico l’aveva preso su Craigslist, per risolvere il problema dei topi che infestavano la casa in cui viveva. Il gatto, invece, si era nascosto dietro al gabinetto, immobile come una statua. Quando l’amico si era trasferito e non aveva potuto portarlo con sé, lei si era offerta di ospitarlo per un po’. Il gatto non se n’era più andato. 

La figlia aveva abitato con lui in due monolocali prima di andare a vivere dal proprio compagno, che aveva un cortile. Quando l’avevano lasciato libero in giardino, era emersa la sua vera natura: era un abile cacciatore, catturava ratti, topi e uccelli, un numero incalcolabile, e una volta persino uno scoiattolo. Ma sembrava che il cortile avesse attivato anche il suo senso del territorio: aveva preso l’abitudine di urinare. 

E ora, grazie a quella spiacevole necessità di lasciare un segno, il gatto aveva decretato il proprio destino. La rattristava il fatto che non sapesse di aver firmato la sua condanna comportandosi semplicemente come uno della propria specie. Per il resto dei suoi giorni non gli sarebbe stato più permesso vagabondare all’aperto. Non avrebbe più sorvegliato il proprio impero, attività che aveva svolto con una fierezza tale da far dimenticare tutti gli anni in cui la figlia lo aveva conosciuto come gatto da appartamento. Una creatura dagli occhi sporgenti che correva a nascondersi nell’armadio ogni volta che lo chiamava qualcuno diverso da lei. 

L’intera situazione le fece venire in mente suo padre, per quanto fosse sciocco e fuori luogo fare un confronto tra i due casi. Anche il padre viveva un’esistenza di reclusione in una casa di cura specializzata, in California. Anziché urinare, e di questo il gatto non aveva alcuna colpa, il padre beveva troppo. Stando a quello che ad oggi sappiamo sulla natura delle dipendenze, nemmeno l’alcolismo era del tutto colpa del padre, perlomeno non una volta che la situazione era degenerata. Eppure, sia l’urina che il bere erano un peso per gli altri e condannarono gatto e uomo allo stesso destino: la perdita della libertà. 

Il sociologo Erving Goffman definisce il luogo di reclusione un’istituzione totale – un posto in cui gli individui, «tagliati fuori dalla libera società per un considerevole periodo di tempo, trascorrono parte della propria vita in un regime chiuso e rigidamente regolato».

Una volta il padre aveva chiesto alla figlia con voce dimessa e malinconica se fosse possibile abbandonare la struttura e andare a vivere da qualche altra parte. Lei aveva trattenuto il respiro, temendo che avrebbe detto di volersi trasferire da lei o da sua sorella. Poi, però, era venuto fuori che il padre aveva in mente qualcosa di simile a dove, ricordava, era stata la sua anziana zia. Sai, aveva detto, uno di quei luoghi che un tempo chiamavamo «casa di riposo».

Ma tu ci sei già, proprio ora, aveva risposto la figlia con un’allegria nervosa.

Quell’affermazione era vera e non vera. All’inizio, prima che la demenza del padre peggiorasse, anche lei si era immaginata un ambiente piacevole in cui gli anziani conversavano durante i pasti, stavano seduti al sole in giardino, giocavano a Dama e Canasta. Ma da allora aveva visitato diverse case di cura e non aveva mai assistito a una singola partita a carte. Tutti i residenti erano posseduti dall’apatia, come se vivessero su un’isola in cui erano stati contagiati da una malattia del sonno. L’attività principale in quei luoghi sembrava essere, per quanto suoni triste, l’attesa della morte.

Anche se il gatto era costretto a vivere da recluso il resto della vita, pensava la figlia, perlomeno era ormai avanti con gli anni e il suo futuro non sarebbe stato lungo. In effetti, aveva quasi quindici anni – cioè ottanta anni umani, stando a Internet.

Anche il padre era vecchio. Tuttavia, nel suo caso, non era l’età il problema, ma i lobi frontali del cervello che stavano consumandosi come calotte di ghiaccio in time-lapse. 

Il problema dei luoghi di reclusione è che non si può avere il controllo sul comportamento degli altri inquilini. Il padre non voleva essere circondato da persone tristi con atteggiamenti strani, ma di fatto lui stesso era diventato una persona triste che si comportava in modo strano. 

Goffman ha scritto un libro intero sulle istituzioni totali, in parte basato sulla propria esperienza di lavoro in un reparto di psichiatria a Washington, quando era giovane. Questi luoghi di isolamento – case di cura, orfanotrofi, conventi, campi di internamento, rifugi per senzatetto, prigioni, centri di identificazione, campi profughi, centri di riabilitazione, Foxconn, Guantanamo – hanno alcune caratteristiche in comune: «Ogni fase dell’attività quotidiana del soggetto avviene nelle immediate vicinanze di un nutrito gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e a cui si richiede di svolgere insieme la stessa attività».

All’inizio della sua permanenza all’istituto il padre veniva portato almeno una volta al giorno in una sala comune, arredata con un pianoforte, un grande acquario e alcuni pannelli attaccati al muro da cui pendevano rubinetti, maniglie, interruttori della luce e altri dispositivi domestici. Quegli strumenti servivano ai pazienti per fare pratica e non perdere familiarità e dimestichezza con oggetti che ormai non avevano più alcuna utilità per loro.

Tutti i pazienti dell’istituto si riunivano in quella stanza verso l’ora di pranzo. La maggior parte di loro veniva portata in sedia a rotelle; alcuni erano in grado di camminare, ma non molti. Seduti attorno a una serie di tavoli rotondi aspettavano l’arrivo del proprio pasto, a volte addirittura per quarantacinque minuti. Anche l’attesa viene considerata un tipo di attività.

Le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente pianificate secondo un ritmo prestabilito che le porta dall’una all’altra, dato che il complesso di attività è imposto dall’alto attraverso un sistema di regole formali esplicite e un insieme di funzionari.

La prima volta che la figlia aveva visto il padre nella sala comune del reparto per i disturbi della memoria, mentre pranzava circondato da così tante persone, era rimasta scioccata. Aveva sempre voluto mangiare da solo, essere lasciato solo. Odiava il rumore delle altre persone, gli faceva saltare i nervi e lo rendeva irritabile. Ma ora eccolo lì, seduto a uno di quei tavoli rotondi, mentre si portava una forchetta alla bocca (all’epoca era ancora in grado di farlo). Lo aveva guardato attraverso un vetro per diversi minuti con un misto di terrore e orgoglio, come un genitore che osserva il proprio bambino che si ambienta durante il primo giorno di scuola. 

La TV appesa al muro trasmetteva uno spettacolo di varietà vecchio stile con artisti di musica country. O perlomeno così le era sembrato, a giudicare dalle acconciature, i colletti e i lunghi abiti delle donne. Il volume, a quanto pareva, era perennemente impostato al minimo.

La figlia tornò indietro con la mente a un tempo passato, in un’altra sala comune di un altro istituto. Quella era la prima struttura in cui il padre aveva alloggiato, a Oakland, dopo essere caduto in casa. Era più vecchia e spoglia. Però avevano Netflix. 

Ricordava di essersi seduta accanto al padre, insieme ad altri due uomini, a guardare un film straordinariamente violento, con scazzottate animalesche e massacri a colpi di AK-47. All’epoca la figlia aveva trovato strano che un film del genere venisse trasmesso in quello che si supponeva fosse un santuario di guarigione e recupero. In ogni caso quegli uomini sembravano divertirsi. Ora però che il padre non poteva guardare altro che frivoli spettacoli di varietà (forse tutte le case di cura del Paese erano abbonati alla stessa tv via cavo?), apprezzava la libertà concessa ai residenti della struttura di Oakland di vedere tutti i film idioti che volevano. L’assoluta assenza di qualsiasi intermezzo violento le sembrò una perdita di virilità. 

Le varie attività obbligatorie sono organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente concepito al fine di adempiere agli scopi ufficiali dell’istituzione.

Tre volte al giorno i pasti forniti dall’ospedale arrivavano nel reparto per i disturbi della memoria su carrelli a più piani. I pannolini venivano controllati ogni due ore. C’era un orario prestabilito per il bagno, il taglio delle unghie, la rasatura. Si poteva premere un pulsante accanto al letto per richiedere assistenza, ma la maggior parte dei pazienti, tra cui il padre, non era più in grado di capire a che cosa servisse e così, in caso di necessità, urlava o piangeva. 

In un’altra epoca il padre sarebbe probabilmente finito nel manicomio statale Agnews di Santa Clara, a pochi chilometri di distanza da lì, un vasto complesso di stucco e piastrelle in stile Revival mediterraneo risalente a fine Ottocento e riservato ai malati di mente cronici. I pazienti ricoverati lì, come quelli degli altri istituti psichiatrici dell’epoca, erano affetti da una serie di presunti comportamenti devianti e disturbati, stando a quanto si leggeva sui registri ospedalieri. Questi includevano epilessia, isteria, vagabondaggio, mormonismo e masturbazione. Era la dimora di «imbecilli, bacucchi (!), ubriaconi, ritardati mentali e sempliciotti». Un luogo grazie al quale le famiglie potevano «liberarsi dei propri fardelli».

La figlia aveva già avuto a che fare con l’Agnews. Durante le scuole superiori faceva volontariato lì di tanto in tanto, nella speranza di dimostrare a qualche università prestigiosa quanto si impegnasse e quanto fosse altruista. I turni dei volontari duravano in genere un’ora e la mansione principale consisteva nel distribuire biscotti di forme diverse in base alla stagione: zucche, ad esempio, o alberi di Natale. Ovviamente, l’esperienza non era stata come l’aveva immaginata: nessuno sembrava minimamente rallegrato da quelle attività deprimenti. La maggior parte dei pazienti teneva lo sguardo rivolto verso i propri piedi, fissava il vuoto con aria assente o smascellava in silenzio. Non sembrava nemmeno che si fossero vestiti da soli. L’unica altra cosa che ricordava dell’Agnews era una bambina che, le avevano detto, era nata senza bocca.

La bambina non viveva più a casa, ammesso che fosse mai stato così. Anche il padre non viveva più a casa. Viveva in una casa. 

La differenza tra vivere a casa e vivere in una casa è la possibilità di scappare da folti gruppi di persone. Il padre aveva smesso da tempo di provare timidezza o vergogna nel farsi cambiare i pannolini o farsi vedere nudo nella vasca da bagno. Questo non significava che avesse perso il senso della differenza tra pubblico e privato: non aveva più chiamato la figlia con il nomignolo di famiglia come aveva sempre fatto (Mei, che in cinese significa sorellina).

Quando l’Agnews aveva chiuso nel 2009, la figlia viveva già a New York. Tutte le istituzioni totali del Paese stavano chiudendo, smantellate in favore di unità ridotte che si integrassero più facilmente nella comunità. Il complesso dell’Agnews oggi fa parte della sede centrale della Sun Microsystems. Quando l’Agnews aveva chiuso, la figlia lo aveva ormai dimenticato quasi del tutto, anche se per anni si era ritrovata a pensare alla bambina senza bocca. Cos’aveva al centro della testa, al posto della bocca? Forse quello spazio era pieno di una qualche materia, come un vaso colmo di terra?

Nella nostra società [i luoghi di reclusione] sono spazi di costrizione per persone soggette a un cambiamento: ciascuno di essi è un esperimento naturale su ciò che può essere fatto all’io.

Questa è una delle frasi più strane che Goffman abbia mai scritto.

Il cambiamento che il padre stava subendo era la demenza con tutte le sue complicazioni.

La costrizione comprendeva tutte le attività imposte dall’istituto al fine di mantenere in vita quel padre che cambiava.

Il cambiamento richiede la costrizione. Ma cosa succede se la costrizione si metastatizza a sua volta in nuove forme di cambiamento? È questo il paradosso dei luoghi di reclusione.

Ciascuno di essi è un esperimento naturale – i parenti della persona che cambia spesso rispondono alla sua iniziale apprensione e ostilità verso il luogo di costrizione con menzogne mascherate da tattiche di persuasione condizionate: Facciamo un tentativo. Se decidi che non ti piace, troveremo un’altra soluzione. Non è per sempre. 

 In un momento di lucidità il padre aveva chiesto alla figlia (era di nuovo andata a fargli visita dall’altra parte del Paese), Non uscirò mai di qui, vero?

Lei lo aveva guardato dritto negli occhi. Sarebbe stata onesta, non avrebbe usato il solito tono allegro, che lui tanto detestava, per trattarlo con condiscendenza. Aveva detto: No, non credo. Sei troppo malato.

Ciò che può essere fatto all’io – l’assurdità dell’impresa è incorporata nella sintassi stessa della frase. Più cose si fanno all’io, più l’individuo perde la propria personale economia d’azione.

Ciò che il padre voleva era guardare Netflix, fumare una sigaretta dietro l’altra e bere Jim Beam.

Ciò che il gatto voleva era uccidere piccole creature e difendere il proprio territorio.

Eppure è enorme la facilità con cui tutti noi ci adattiamo alla regressione della nostra personale economia d’azione. Il gatto non si mise a piangere senza sosta davanti alla porta chiedendo di uscire, come lei temeva. Sembrava per lo più preoccupato di garantirsi il prossimo pasto. A volte la figlia gli lasciava una finestra aperta, con la zanzariera abbassata. Tutto il corpo del gatto si proiettava in avanti – occhi, baffi, orecchie, narici, ogni terminazione nervosa – elettrizzato dai fenomeni del mondo esterno. Ma andando avanti passava sempre più tempo a dormire.

Verso la fine anche il padre era nella stessa condizione.

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Titolo originale, On Asylums, copyright @ Lisa Chen, all rights reserved
Traduzione di Laura Zanarini