Questo racconto è apparso originariamente su Hobart il 3 gennaio 2019

 

Ivan mi aveva detto che in America nell’istante in cui scendi dall’aereo ti allungano dei soldi. Aspetto ancora che qualcuno mi dia dei soldi. Nessuno l’ha fatto.

L’entrata della metropolitana è un buco rivestito di piastrelle con una ringhiera in ferro nero e delle scale che conducono sottoterra. Neanche lontanamente maestoso come quello di Almaty, quest’ingresso nelle viscere della città, ma di gran lunga più affollato. 

Mentre scendo l’aria si fa sempre più calda. L’uomo alla biglietteria in fondo alle scale sta sudando. Mi sventolo un po’ con la lettera che mi ha dato Ivan. Tutti non fanno che sudare qua sotto. Sudare e aspettare. 

«Questa metro va a Brooklyn?» mi chiede un’anziana con una spilla di piume viola. Ha un accento particolare in cui il suono di alcune consonanti avvolge le frasi come zucchero a velo. Annuisco e la donna mi rivolge un mezzo sorriso, incerta se chiedere a qualcun altro o fidarsi di me. 

I treni mi sfrecciano davanti. Ciascuno ha un numero o una lettera e sono tutti stracolmi di passeggeri. Viaggiatori intrappolati in questi cunicoli oscuri. Vedo i loro occhi, nasi, bocche sfilarmi davanti, il movimento non riesce a far distinguere nulla. 

In un giorno di neve Ivan mi aveva mostrato una fotografia della sua ex che si era trasferita in America, avvicinandosi così tanto che il suo cinturone aveva sbattuto contro le mie costole, l’alito che sapeva vagamente di cetrioli e pesce in scatola. Mi aveva allungato una foto ormai ingiallita di una donna in posa di fianco a una vetrina di Saks Fifth Avenue, e un’altra di lei in piedi vicino a una Porsche color crema. Aveva i capelli biondi e le radici scure spuntavano come terriccio in un vaso di margherite. 

«Halina è proprio ricca, ora» mi aveva spiegato Ivan. «Ha detto a mamma che guadagna centinaia di migliaia di dollari, ma che non può mandare soldi qui perché altrimenti se li prende il governo». 

Ivan portava sempre con sé la foto di Halina, nella tasca superiore della divisa. Rivolta verso l’interno, sul lato destro del petto, dentro una grande giacca di lana verde che gli arrivava fino alle ginocchia nascondendo una parte dei suoi stivali neri lucidi.

«Tutti hanno i soldi in America» mi aveva detto Ivan una sera mentre mescolavo due enormi pentole di zuppa per la colazione di Capodanno. Pezzetti di profumata carne di cavallo venivano a galla per naufragare poi nella spirale creata dal mio cucchiaio. Aveva tolto la buccia a una cipolla e la stava masticando con calma. «Halina ha cinque pellicce e, credo, tre auto, e una televisione in ogni stanza». Poi aveva fischiato attraverso i denti davanti. «Ci siamo voluti bene fino a quando non abbiamo perso il bambino».

Scendo alla mia fermata e mi dirigo verso il numero civico segnato sulla lettera con cui mi stavo sventolando. In metropolitana c’è un cartellone che pubblicizza chirurgia estetica. Dice, «sii chi hai sempre voluto essere». Le strade sono piene di uomini di colore accalcati intorno a delle macchine, bambini di colore che si rincorrono, donne di colore che ridacchiano degli uomini di colore.

Mi accendo una sigaretta appena uscito dalla metro. Anche Ivan fumava, ogni giorno mi dava tre sigarette che arrotolava lui stesso. Si appoggiava alla grata e accendeva la sigaretta con quei suoi guanti a forma di fagiolo, la fiamma che illuminava da sotto il cappello nero. Provo a usare il mio accendino ma non funziona. La gente mi piove attorno come acqua su uno spazzolino. Un uomo in giacca e cravatta si ferma, si mette una mano in tasca e ne tira fuori un accendino d’oro, un accendino così ipnotico da offuscare il grigiore del cielo nuvoloso e delle colonne in acciaio, vetro, cemento che si innalzano fino al cielo o sprofondano sottoterra… e poi mi accende la sigaretta. Dalla sorpresa dimentico di ringraziarlo.

Riprendo a camminare, mentre fumo. C’è un materasso sul bordo del marciapiede. Ha ancora le etichette attaccate e i suoi fili luccicano. Mi viene in mente come una volta, un inverno in cui la neve aveva ricoperto le colline di Alatau, Ivan era venuto alla mia porta, si era portato un dito alle labbra e mi aveva passato una coperta macchiata di sangue.

Brooklyn mi ricorda casa, in un certo senso. Qui funziona tutto e ci sono molte più auto, ma gli edifici in cui vive la gente resistono a malapena alle forze della città. Ci sono sbarre alle finestre, catene e lucchetti intorno a qualsiasi cosa, e uno strato di sporcizia a ricordarti che l’aria che respiri la condividi con tante altre persone. 

Ben presto arrivo alle scale dell’appartamento di Halina. Busso prima di accorgermi delle file di campanelli. Cerco tra i nomi scarabocchiati, leggo Burden, Franklin, Leahy. Premo il pulsante bianco, che col tempo innumerevoli dita hanno fatto diventare grigio. Poi attendo, mi sento esposto mentre guardo le persone di colore gironzolare là attorno, così sicure delle proprie emozioni. 

«

«Halina?»

Nessuna risposta. 

«Sono un amico di Ivan» dico.

«Ivan?»

«Iskovitch».

«Ivan Iskovitch? Intendi Alex Iskovitch?»

«Alex» ripeto con esitazione.

Il ronzio del citofono. Spingo contro la porta e quella si spalanca. L’ingresso è buio, stretto, opprimente, e mi sento subito più a mio agio. Apro una seconda serie di porte e salgo dei gradini in cemento. Dalle porte del primo piano sento una televisione, al secondo un frullatore e poi al terzo più nulla, ma continuo a pensare a quante persone si trovino in questo posto… Quante persone, così vicine, abitano lì e non sentono mai il bisogno di parlare tra loro perché in America, tanto, nessuno ha bisogno di nessuno…

Halina mi sta aspettando al quarto piano, guarda giù dalle scale. I suoi capelli sono di un rosso intenso, diversi da quelli nella foto di fronte a Saks Fifth Avenue. La sua postura è impeccabile e ha gli occhi neri come i fichi caramellati dell’Iran che Ivan mi portava sempre il giorno del mio compleanno.

«Prego, entra» mi dice in inglese.

Ci stringiamo la mano e passo attraverso un ingresso stretto, seguendo la sua figura slanciata. Si apre su un vasto salotto con pochi mobili, un tappeto sfilacciato e un gatto a macchie bianche e nere appoggiato al davanzale. Ci sono un sacco di piante appese vicino a tre grandi finestre a forma di bara.

Il soggiorno affaccia su una cucina dove una pentola di zuppa è sul fuoco, riesco a vedere le lenticchie danzare l’una sull’altra e il vapore salire fino al condotto di ventilazione. C’è un libro in polacco sul tavolo pieno di graffi e un uomo dai capelli grigi sta parlando in tv di Giuliani, traffico bloccato e venditori ambulanti.

Le dico come mi chiamo, ma non sembra molto interessata. Prima di sedermi consegno ad Halina la lettera con cui mi sono sventolato sulla metro rovente. La prende, legge il suo nome ad alta voce e fa scivolare l’indice smaltato di rosa sotto la chiusura. La carta si strappa con facilità. Prende la lettera e comincia a leggere, le labbra che si muovono mimando le parole in russo. Ho studiato il kazako, il tagico e l’inglese. Quel poco di russo che so l’ho imparato dalla televisione. Aspetto e fisso il gatto che a sua volta osserva le persone di colore per strada che fissano chiunque passi di lì.

Quando Halina finisce di leggere, mi guarda con gli occhi lucidi. Le chiedo cosa ci sia nella lettera e mi dice che Ivan ha il cancro. I dottori non lo aiuteranno senza un pagamento anticipato. Poi rimane in silenzio per un po’.

«Ti piace qui?» chiede in maniera così improvvisa ed esitante che comincio a farfugliare. 

«Ci sono molte cose da capire» rispondo.

«Cosa farai ora?» mi chiede distrattamente, mentre si versa un bicchiere di cognac armeno. Non me ne offre neanche un goccio.

«Andrò a El Paso».

«Per lavoro?»

Annuisco.

Sorride e sorseggia il suo cognac. Tiene gli occhi fissi sul bicchiere. Halina non mi chiede di che genere di lavoro si tratta perché sa che un tagiko che arriva in America per la prima volta non può avere un vero lavoro.

Alla fine si alza ed esce dalla stanza. Mi domando dove stia andando. Si assenta per quasi dieci minuti. Mi sembra di sentirla piangere, ma non ne sono sicuro. Osservo il gatto che si addormenta. Un orologio in corridoio comincia a suonare. Mi ricorda quella chiesa fuori dalla finestra del mio appartamento ad Almaty. Ogni mattina venivo svegliato dai colpi squillanti delle campane. 

«Tieni» mi dice Halina, spuntando dal corridoio. Si avvicina e mi lascia cadere sulle gambe quattro banconote da cento dollari chiuse con un fermaglio. «Questo denaro non basta per curare Ivan».  

«Glielo manderò».

«Te l’ho detto, non è abbastanza».

Guardo i quattrocento dollari che ho sulle gambe e li poso sul tavolo. Mi sento come se avessi un airbag che mi esplode nel petto. Dopo tutto quello che Ivan ha fatto per me, non posso prendere i suoi soldi. Mi dico che anche se quattrocento dollari non sono abbastanza da contare come tradimento, Halina non gli avrebbe mandato i suoi soldi, lei non gli ha mai mandato denaro. Che lei era la sua speranza e che la speranza di Halina è che io me ne vada. L’unica speranza che ci sia mai stata non è che finzione passata di mano in mano. 

Mi alzo in piedi rapidamente e dico di dover andare, che ho un appuntamento. Ma la verità è che non ho nessun appuntamento. Il sole filtra dalle vecchie finestre, fuori la gente di colore sta facendo parecchio chiasso. Ancora seduta, Halina mi afferra il braccio con una mano. Le sue unghie sono dello stesso colore con cui mia sorella era solita smaltare le sue, un intenso rosso scuro. Nell’altra mano Halina ha i quattrocento dollari. Mi porge di nuovo i soldi e nei suoi occhi riesco a vedere quelli di Ivan, gli stessi occhi che sembravano prendere vita quando parlava di come in America ti allungano dei soldi nell’istante in cui scendi dall’aereo.

*

Erik Raschke vive ad Amsterdam con la famiglia. Per maggiori informazioni è possibile visitare www.erikraschke.com

Titolo originale, The Delivery @Erik Raschke, all rights reserved
Traduzione di Sabrina Pezzopane