Il seguente pezzo è un estratto di Dizionario della dissoluzione di John Freeman, uscito per noi a ottobre 2020. Del «Dizionario» ha parlato anche Il Corriere della Sera il 24 febbraio 2020, che ne ha pubblicato un lungo estratto (puoi leggerlo QUI).

 

Morendo perdiamo ogni cosa: il corpo, i nostri cari, qualunque ricchezza siamo stati in grado di accumulare in questa breve vita. Più di tutto, però, perdiamo il nome, che si sfalda come pelle di serpente appena ne strisciamo fuori verso la prossima vita. A meno che, naturalmente, non abbiamo compiuto imprese straordinarie o terribili. A quel punto il nostro nome permane, si svincola dalla lapide e diventa moneta di scambio da offrire per una storia. Lei ha fatto questo, il tizio ha fatto quest’altro, loro credevano nella libertà, quelli sono stati arsi sul rogo… Di tanto in tanto la società partecipa a questa celebrazione dei morti da parte dei vivi, ed erige un monumento.

Ne esistono fin troppi dedicati ad assassini. Se vedete una statua equestre di un soldato con la spada sguainata, sappiate che l’uomo cui è intitolata ha ucciso un gran numero di persone (se poi il cavallo è circondato da figure umane, allora il bilancio delle vittime rientra nell’ordine delle migliaia). È raro che siano donne sebbene, si sa, anche loro vengano mandate in guerra. Esistono monumenti eretti in memoria di generali martiri e di soldati ignoti morti lontano dagli sguardi di tutti. Esistono statue per piloti di bombardieri, comandanti di navi, sopravvissuti a guerre di trincea, prigionieri ed esploratori a cavallo o a piedi, oltre che per gli uomini che li hanno ricuciti e per i leader che hanno lavorato senza sosta, anime incendiate da dolore e senso di colpa. I monumenti glorificano la guerra.

E poi ci sono gli altri. I non assassini, i non guerrafondai. Gli abolizionisti, gli inventori, gli sviluppatori, i professori, i pubblici ministeri e i coloni in marcia. Gente che agitava gli animi in nome della giustizia. Ovunque si vada i monumenti ci guardano, proiettano le loro storie nel nostro tempo. Ci dicono chi si è sacrificato e in nome di cosa per far sì che potessimo diventare cittadini. Basta un’occhiata di sfuggita a queste statue per rendersi conto di come certi retaggi abbiano un peso e le istituzioni abbiano bisogno di narrazione. Del fatto che a volte il passato non è passato affatto. Talvolta romanzare la storia non è solo offensivo, ma un tentativo di continuare a combattere battaglie già perse. 

A tutti noi piacerebbe credere che la civiltà abbia un andamento progressivo, passando dalla tirannia alla libertà, dall’oscurità alla luce. I monumenti, però, raccontano una storia diversa. Nelle varie società del mondo il decoro è come un pendolo: quando oscilla da una parte, allora il concetto di cittadinanza si espande ed è in quei frangenti che vengono eretti monumenti ai leader per i diritti civili, a chi sapeva donare e a chi ha combattuto in difesa dell’ambiente. Appena si sposta dall’altro lato, la società inizia a circoscrivere il più possibile la definizione di cittadino, includendo, facciamo conto, solamente gli uomini bianchi. Ma per riuscire in questo intento i leader devono ispirarsi a figure del passato che abbiano fatto altrettanto, e legittimare misure di questo genere come dolorose ma necessarie. L’ingiustizia, quindi, diventa una specie di forza. A questo punto i leader ricordano le gesta di chi ha vissuto, combattuto ed è morto per la nazione. In frangenti come questo avere dei monumenti aiuta.

Mentre il pendolo oscilla – come fa oggi – si accende all’improvviso una luce su figure del passato che fino a quel momento erano rimaste invisibili. Chi ha fatto espellere gli immigrati. Chi uccideva. I razzisti impenitenti. I criminali di guerra. I bigotti e i ladri. Nomi che prima era impensabile anche solo pronunciare cominciano a tornare a galla. Vengono riesumati, tirati a lucido e rimessi in circolazione. All’inizio crediamo che l’udito ci stia tradendo. Ho sentito bene?, pensiamo, ascoltando un dibattito pubblico. Sì. Rieccolo, quel nome. E all’improvviso cominciamo a fare caso ai monumenti, polverosi e trascurati da anni, dedicati a quelle figure. Perché non sono stati abbattuti quando il pendolo oscillava dall’altra parte? È possibile che chi aveva il potere di erigere e abbattere monumenti non abbia mai sentito il bisogno di farlo, perché non era la sua esistenza a essere svilita dalla presenza stessa di quelle statue. O forse è colpa dell’apatia generale: dopotutto a chi importa di quel tizio morto e sepolto che s’incrocia ogni giorno andando al lavoro. Eppure monumenti del genere non fanno altro che attendere di essere rianimati.

In alcuni Paesi che hanno vissuto la guerra, certe zone delle principali città sono state lasciate nelle condizioni in cui versavano alla fine del conflitto, con gli edifici eviscerati che si stagliano in un’oscurità spaventosa e i negozi crivellati di proiettili dove ora si vende pane fresco. È così che cambiamo: rifiutandoci di cancellare quei frangenti della storia in cui ci siamo comportati vergognosamente, e anzi tenendoli ben presenti. Includendoli nel racconto di una nazione, nella speranza che nessuno arrivi mai a credere che uno Stato si costruisca solo con l’amore. Perché ci vuole anche la violenza, violenza che allo stesso tempo minaccia sempre di ridurlo a brandelli.

Molti altri tasselli formano una nazione: insegnanti, infermiere, scaricatori di porto e impiegati. Ministri di culto, autisti, carpentieri e nonne. La definizione più esaustiva che si possa dare di «nazione» è quella secondo cui a costituirla sono tutte le persone che vivono in una certa area geografica – così come chi si sente parte di quel luogo anche vivendo lontano, per via di valori condivisi. Peccato che i nostri leader non accetterebbero mai una tale configurazione, perché li costringerebbe a distribuire il potere in modo fin troppo equo, facendo sembrare la guerra una stupidaggine. Se una nazione non presentasse differenze sostanziali rispetto alle altre e fossimo tutti uguali, che senso avrebbe combattere? Perché celebrare le uccisioni? Perché espellere le persone, anche quando sappiamo che molte di loro rafforzano la nostra economia? Perché erigere tutti questi monumenti?

Allora forse i monumenti celebrano le uccisioni proprio perché il trascorrere del tempo ci impone di dimenticare. Viviamo, moriamo, veniamo dimenticati. Questo ciclo è quasi confortante, perché i componenti di ogni nuova generazione hanno teoricamente la possibilità di essere migliori gli uni con gli altri. Dispongono di nuovi strumenti, nuove leggi, nuovi mezzi, nuove infrastrutture, nuove scoperte scientifiche, nuovi indizi per capire le complicate origini dell’umanità. Tutto questo è in grado di arricchire una generazione intera e allargarne gli orizzonti, e lo sappiamo perché spesso ha arricchito anche noi che siamo arrivati dopo: basti pensare agli scienziati che hanno scoperto la cura per la poliomielite, ai costruttori di biblioteche pubbliche, agli oratori che hanno invocato libertà e giustizia in tempi bui.

E se i monumenti servissero a riportare nel nostro presente individui come quelli e le loro storie?

E se erigessimo più monumenti dedicati a poeti, pittori, ornitologi, mastri vetrai, comici, fisioterapisti, insegnanti? E se ce li ritrovassimo nei parchi e nelle piazze, a darci un esempio silenzioso dai loro piedistalli?

Che succederebbe se i monumenti ai tempi bui servissero più esplicitamente da monito? E se, invece di punteggiare le strade di statue polverose dedicate a figure evocatrici di odio, trovassimo il modo di rammentare alla gente che cos’hanno fatto quelle persone? C’è chi ha volontariamente fatto morire di fame una parte del proprio popolo, ad esempio. E se contrassegnassimo ogni luogo in cui è avvenuto un linciaggio? Idee del genere stanno iniziando a prendere piede, anche perché è raro che la giustizia faccia il proprio corso nell’arco di una generazione soltanto, e molto spesso la ricerca della verità si trascina fino alla generazione successiva. Eppure, se solo riuscissimo a ricordare in maniera etica, le figure cui abbiamo dedicato monumenti di crudeltà non tornerebbero a tormentarci dall’oltretomba.

Sarebbe utile soprattutto scegliere meglio che tipo di persone far finire sui piedistalli. E se le statue fossero dedicate a figure davvero dimenticate? Se non celebrassimo nelle piazze le persone eccezionali, ma quelle buone? Se, invece di statue dedicate a gente che ha abbandonato la famiglia per farsi un nome, vedessimo più monumenti dedicati a chi è rimasto? La nonna che si è presa cura dei nipoti per permettere alla figlia di fare i turni di notte in ospedale e trovare la cura per la paralisi di Bell, per dirne una. O il tizio costretto a trasferirsi dal fratello per via di una patologia neurologica e che ha passato il tempo a giocare coi nipoti, insegnando loro l’inestimabile valore dell’ottimismo.

Forse la nostra storia ufficiale potrebbe riguardare maggiormente la vita delle persone che ne sono state protagoniste. In quel caso avremmo bisogno di così tanti monumenti? Avrebbe ancora senso erigere statue di assassini, o di generali portatori di odio? E se tutte queste statue costruite a memoria di fatti orribili – e sappiamo bene a cosa mi riferisco – venissero abbattute in ogni angolo del mondo per piantare alberi nei buchi lasciati dai loro piedistalli? Ve l’immaginate che spettacolo? Riuscite a vederli crescere formando una macchia d’ombra fresca d’estate e coloratissima d’autunno? Servirebbero a ricordare alle persone sedute al loro riparo, e in modo molto più delicato rispetto alla statua di un generale con la spada sguainata, che il nostro tempo è limitato, e le spingerebbero a chiedersi, In che modo voglio trascorrerlo?

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Tratto da Dizionario della dissoluzione di John Freeman, copyright Edizioni Black Coffee, all rights reserved
Traduzione di Leonardo Taiuti