di Layli Long Soldier

Saggio apparso su Literary Hub lo scorso 3 giugno.
Si ringrazia Layli Long Soldier per averci permesso di tradurlo e proporlo sul nostro sito

A George Floyd, la sua famiglia, e tutti quelli che hanno sofferto con loro

Oggi, con due mesi di lockdown alle spalle e a quattro giorni dall’assassinio di George Floyd, sono alla deriva. In balia delle onde. Ho pianto molto nel corso degli ultimi giorni, per l’ingiustizia, e adesso mi sento tesa. Non mi fido di nessuno. Tranne che di amici stretti e parenti, non mi fido di nessuno. Tranne che della terra, come ho già detto altrove, non mi fido di nessuno. Anche se, entrambi sappiamo come funziona la doppia negazione. Non mi fido di nessuno, implica che di qualcuno mi fido. Di qualcuno sì, mi fido, e non mi fido di nessuno. È un paradosso: due opposte verità che coesistono nella stessa affermazione.

*

In queste circostanze mi sento di condividere alcuni pensieri. Ricordi, per lo più.

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Primo: mi sono ricordata di una cosa che mi ha detto un giorno in macchina mia figlia quando sono andata a prenderla a scuola. Non ha fatto in tempo a sedersi davanti che ha detto: «Mamma, oggi a scienze abbiamo dissezionato l’occhio di un alce». Non stava nella pelle.

«Ah sì? Non mi dire!»

«Sì, e indovina cosa ho scoperto?»

Percepivo la sua emozione. «Cosa?»

«Indovina che c’era nella pupilla quando l’abbiamo aperta».

«Oddio, cosa?!»

«Niente».

*

Il secondo ricordo è un ricordo collettivo, risvegliato da un testo che il professor Craig Howe ha inviato a diversi artisti lakota, me compresa, in preparazione a una mostra – Takuwe, che in lakota significa «perché» – dedicata al Massacro di Wounded Knee. Se non sapete del Massacro di Wounded Knee, vi consiglio caldamente di fare una ricerca su Internet. Il dato rilevante, qui, è che è avvenuto il 29 dicembre del 1890. Howe ha raccolto i resoconti dei nostri antenati lakota precedenti e successivi al massacro, organizzandoli in un diario giornaliero. La signora Mosseau ha parlato di ciò che accadde il 28 dicembre, la sera prima che le nostre nonne e i nostri nonni venissero assassinati:

Montarono l’accampamento sul torrente Wounded Knee verso le quattro del pomeriggio, noi con tutti i soldati intorno. I soldati avevano portato Piede Grosso in ambulanza perché stava male. Una volta accampati, erano andati a prenderlo e l’avevano trasferito in una tenda dell’esercito. Ci sistemammo e loro ci diedero caffè, zucchero, gallette e un pezzettino di bacon

Verso mezzanotte avevamo sete ma i soldati ci impedirono di andare a prendere l’acqua. Dopo averci rifiutato l’acqua, radunarono tutte le donne e gli permisero di andare a prenderne due a due, con un soldato armato di pistola che seguiva ciascuna coppia. A quell’ora Joe Horncloud era l’interprete, mentre di giorno era interprete Philip Wells. Allora (di giorno) un portavoce annunciò che i soldati ci avrebbero portato all’agenzia, che si sarebbero presi cura di noi. I soldati marciarono in fila intorno alla collina dicendoci di levare le tende.

Un altro dei nostri antenati, Pioggia di Ferro (Wasu Maza), rammentava:

Verso sera giungemmo a Wounded Knee. Al nostro arrivo ci consegnarono razioni di zucchero, caffè, gallette e bacon. Io stesso le distribuii alla gente. Cenammo. Mentre mangiavamo, i soldati stavano di guardia tutto intorno all’accampamento. Poi piazzarono gli Hotchkiss dove adesso sorge il cimitero. C’erano così tante armi che la notte riuscii a stento a chiudere occhio. La loro presenza mi spaventava e inquietava alquanto.

Dopo la distribuzione di zucchero, caffè, gallette e bacon ai prigionieri lakota, dopo la cena e una notte insonne, alle prime luci del giorno del mattino successivo, il 29 dicembre, si compì il massacro. Il sole sorse alle 7 e 22. Quel giorno la temperatura massima sarebbe stata di diciotto gradi; la minima meno uno. Howe non era stato in grado di fornire molti resoconti circa quanto era avvenuto quel giorno perché, come spiegò, si faticava a decifrarli. Ma tra quelli che fornì, c’era il racconto di Alice War Bonnet delle ore successive al tramonto, l’indomani:

I soldati si attivarono, i carri rumorosi iniziarono a muoversi. Il sole era tramontato, e le armi adesso riposavano. Nel frattempo noi ci spostammo verso nord, e un bambino chiedeva acqua. C’erano cavalli morti sparsi in giro, e grida di feriti, ma era buio e vedevamo sagome nere qua e là, e ci sforzavamo di capire che cosa fossero.

E qui riporto infine un ultimo racconto della signora Mosseau. Questo è ciò che rammenta del 30 dicembre, il giorno dopo il massacro:

In quel luogo ricco di pini, a ovest del torrente Wounded Creek, ci fermammo per la notte. Avevo con me una coperta e indossavo molti abiti. Ne dovetti strappare alcuni per fasciarmi le ferite. Indossavo almeno tre abiti e quando sopraggiunse la tempesta sentivo molto freddo.

Mi riferisco a questo come a un ricordo collettivo perché, come popolo, ricaviamo un’immagine di chi siamo dalle nostre famiglie, da questa terra, dalle storie interne alla comunità, e dai nostri sensi. Sì, dai nostri sensi, ricaviamo un’immagine di ciò che già custodiamo dentro. Forse, a volte, non riesco/riusciamo a esprimerlo a parole, ma percepiamo qualcosa. Mi arrischio a chiamarlo istinto. È un’antica sensazione cui non si riesce a dare un nome, non esiste documentazione scritta né linguaggio che ne agevoli la comprensione. Eppure è lì, sotto pelle, c’è e basta. La sento qui, oggi.

*

Devo ammettere di essere particolarmente attratta da storie e resoconti di donne, forse perché sono una donna e mi viene naturale. Per esempio, il giorno dopo essere sopravvissuta al massacro, la signora Mosseau indossava tre abiti: a distanza di anni dalla prima volta che ho letto il suo resoconto, questa immagine continua a catturarmi. Rifletto su me stessa come donna in questo mondo, in questo Paese per l’esattezza, e sui modi in cui sono stata messa alla prova. Eppure le nostre nonne, loro hanno sopportato ben altro. Lo so e a volte, solo per questo mi faccio forza, perché posso. E ho imparato che lungo la via – in cammino, ammesso che ce ne sia il tempo – si può sempre strappare un abito per farne una benda.

*

Man mano che invecchio come donna, però, divento sempre meno capace di sopportare. Non è più come quando ero giovane, quando ero forte. Mi sento fragile e mi rimprovero, ogni tanto, per quella che percepisco come una debolezza crescente. Anche mentalmente ed emotivamente sono meno tollerante, ma è solo perché, semplicemente, non posso tollerare oltre. Come un fuscello che si flette e torna subito in posizione, da giovane anch’io mi riprendevo all’istante. Adesso sono un albero maturo, arriva il temporale e i rami si spezzano. Sono tutta rotta! E quanto impiego a rattopparmi! La sensazione è questa.

*

Nel corso della vita, lo confesso, è stato sotto il peso di relazioni intime che mi sono spezzata più spesso. Mi sono proprio rotta a metà. Penso a un uomo con cui mi sono frequentata. È durata relativamente poco. Chi era e quando è stato non importa, importa solo la dinamica interna. Erano molte le cose che amavo di lui, e gli volevo bene, davvero. Ma non lo amavo, no, e questo mi creava dentro un gran conflitto e molta confusione. Sentivo di non avere altra scelta che chiuderla. Lui se n’è fatto una ragione, io invece ho pianto e sono stata depressa per mesi. Di notte, sveglia, mi domandavo, Perché? E per quanto ci abbia pensato, tuttora non so dire perché, solo che è stato l’istinto a non farmi aprire al suo amore. Sapevo una cosa che non riuscivo a esprimere a parole. E senza parole a definire e dare ordine, non c’era rivelazione, nessuna epifania, nessun lampo di coscienza che allontanasse da me quel dolore permettendomi di andare avanti. Solo il passare del tempo, l’esperienza, l’età, mi hanno fatto accettare l’istinto come parafulmine attraverso cui passa la conoscenza, per trasferimento di energia. L’istinto è forte in me, malgrado la debolezza percepita. A volte è la sola cosa che ho ed è, sempre, abbastanza.

*

L’istinto mi avverte della presenza di un pericolo, anche quando tutti mi assicurano che così non è. Quell’uomo, ricordo, era un parente; tutti quelli che avevo intorno – il buon senso, perfino – mi dicevano che di lui mi potevo fidare. Eppure la notte mi chiudevo a chiave in camera da letto, così, senza pensarci. L’istinto mi mette la mano sulla valigia, mi dice di star pronta a partire, quando so che non dovrei. Mentre camminiamo sul marciapiede, l’istinto mi porta ad afferrare in fretta il braccio di mia madre; mi pare di aver colto, ma non ne sono certa, un leggero sbilanciamento nel suo passo. E converrete con me che l’istinto non è l’intuito, per quanto siano parenti stretti. L’intuito lascia spazio alla pianificazione e alla negoziazione. Poniamo che abbia intuito che mio nipote ha una cotta per qualcuno. Avrò tempo per osservare, per parlarne con lui; per consigliarlo. Di solito ho buon intuito per queste cose. Ma l’istinto è molto più vecchio di me e con lui non si può negoziare. Non posso ignorare il suo comando, così di frequente eseguo. Ascolto l’anziano che è in me.

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Se mi somigli, anche tu probabilmente non hai pazienza per i dettagli storici e li salti. Non so perché lo faccio e non ne vado fiera. Ma ti consiglio, caldamente, di tornare sui resoconti dei nostri antenati lakota sopracitati. Non c’è fretta, prenditi tempo. Perché potresti avvertire un’energia antica, ma ancora molto forte, mentre leggi le parole, «un portavoce annunciò che i soldati ci avrebbero portato all’agenzia, che si sarebbero presi cura di noi».

Potresti assaporarla leggendo, «ci consegnarono razioni di zucchero, caffè, gallette e bacon».

O vederla leggendo, «mentre mangiavamo, i soldati stavano di guardia tutto intorno all’accampamento. Poi piazzarono gli Hotchkiss dove adesso sorge il cimitero. C’erano così tante armi che la notte riuscii a stento a chiudere occhio».

O udirla leggendo, «le armi adesso riposavano. Nel frattempo noi ci spostammo verso nord, e un bambino chiedeva acqua. C’erano […] grida di feriti».

O sentirla che ti sfiora le dita mentre leggi, «quando sopraggiunse la tempesta sentivo molto freddo».

Questo è istinto.

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Durante il periodo del Massacro di Wounded Knee, nel 1890, era Benjamin Harrison il presidente in carica degli Stati Uniti. Questo fu quanto ebbe da dire in seguito all’assassinio di quasi trecento lakota fra donne, uomini e bambini. Ripeto, non c’è fretta, prenditi tutto il tempo che serve:

Che questi indiani avessero di che lamentarsi, soprattutto rispetto alla riduzione dello stanziamento di provvigioni e ai ritardi relativi all’applicazione di leggi che consentissero al Dipartimento di tener fede agli impegni con loro presi, è probabilmente vero; ma le tribù Sioux sono per natura guerrafondaie e turbolente, e i loro guerrieri erano incitati dai capi e dagli uomini di medicina, i quali professavano la venuta di un Messia indiano che avrebbe conferito loro il potere di distruggere i nemici. In considerazione del panico sorto tra i bianchi stanziatisi nei pressi della riserva e delle fatali conseguenze che sarebbero derivate da un’incursione indiana, ho messo a disposizione del generale Miles… un numero di forze pari a quelle ritenute da lui necessarie. Al generale va riconosciuto il merito di aver garantito totale protezione ai coloni e aver sottomesso gli ostili con il minor dispendio di vite possibile.

Avrei la tentazione di sottolineare o evidenziare alcune parti del brano appena citato, per essere sicura che non vi passino inosservati. Ma so che coglierete e farete caso a ciò che conta per voi.

Io più che altro penso a quelle credenze lakota così pericolose che avevano seminato «il panico tra i bianchi». Erano spaventati dalle loro credenze, non dalle loro azioni. Il presidente degli Stati Uniti aveva messo nelle mani del generale «un numero di forze pari a quelle ritenute da lui necessarie» per proteggere i coloni bianchi con il «minor dispendio di vite possibile». Sono le parole del presidente, non le mie. Questa forma di «protezione», oggi, si chiama massacro.

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Spesso quando penso a Minneapolis, la prima cosa che mi viene in mente è un pomeriggio che ho trascorso in compagnia della poetessa e amica Heid Erdrich qualche anno fa. Ero in città per un giorno soltanto e lei mi ha fatto fare un piccolo tour. Siamo andate da Birchbark Books e al Minneapolis American Indian Center. Heid appartiene alla tribù degli Ojibwe di Turtle Mountain e mentre guidava mi metteva a parte di ciò che sapeva della zona. Mi disse che molte delle vecchie strade che attraversano Minneapolis in origine erano vie commerciali (antiche rotte, si può dire) intertribali. E che quelle vie erano allineate alle nostre mappe stellari. Qui non sono in molti a saperlo, aggiunse. Ero stupefatta. Mi sentivo così fortunata che ringraziai umilmente Heid di avermi fatto dono di questa conoscenza. E per quanto non sia solita indulgere in questo genere di affermazioni, all’improvviso mi parve sacro, quel tragitto in macchina che stavamo facendo, su quelle strade, ora che sapevo che erano allineate alle nostre mappe stellari.

Ho dedicato molto tempo a leggere e scrivere della regione del Minnesota – o Mni Sota, come la chiamiamo noi. Ho composto una poesia intitolata «38», in cui parlo di un accadimento noto come «Sollevazione dei Sioux», scaturito dalle espropriazioni e dalla violazione degli accordi stipulati con il popolo dakota.

E quando penso a Minneapolis ricordo che è qui che l’American Indian Movement (AIM) è stato fondato. Da qui, inizio a stabilire dei collegamenti. Fra le altre cose, l’AIM è conosciuta per l’occupazione di Wounded Knee del 1973. Per settantuno giorni ha occupato il sito come atto di ribellione contro la brutalità della polizia e le politiche palesemente ingiuste attuate dal governo in materia indiana.

E adesso non riesco più a smettere di pensare a Minneapolis.

Non riesco.

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Qualche anno fa io e mia figlia stavamo percorrendo in macchina la strada che porta al Lakota Summer Institute di Standing Rock, in Nord Dakota. Era il 2016, inizio estate, dopo il tramonto. Era molto tardi. Puntavamo a raggiungere il Prairie Nights Casino Resort prima di mezzanotte. Avevamo prenotato lì insieme ad altri studenti. Malgrado avessimo stabilito di non fare soste, mi scappava la pipì. Trattenendo il fiato, alla fine avevo intravisto una cittadina lungo la strada, Vedevo il luccichio dei lampioni. Così svoltai a destra sulla via principale. Cercavo un ristorante o una stazione di servizio. Niente. La città dormiva. Per arrivare in fondo alla via non impiegammo che cinque minuti. A quel punto tornai indietro per andare a riprendere la nazionale. Proprio mentre la imboccavo, una volante della polizia attivò i lampeggianti facendomi cenno di accostare. Non avevo la più pallida idea del perché mi stesse fermando. E ora mi spiace ma non ricordo più la motivazione che mi diede. Forse avevo superato il limite di velocità? Però ricordo questo: il poliziotto mi è comparso accanto al finestrino; mi ha chiesto la patente, il libretto e così via. Ho aperto il portafogli per prendere la patente. E mi è preso un colpo. Avevo fatto richiesta per il rinnovo e mi ero scordata il foglio sostitutivo – la patente provvisoria – sul ripiano della cucina. Mi sono scusata e gli ho spiegato la situazione. Gli ho allungato la patente scaduta, e sapevo che avrebbe potuto controllare senza problemi che fosse autentica. L’agente a quel punto mi ha chiesto di scendere dall’auto e di accompagnarlo alla volante. Mi sono girata verso la mia bambina di dieci anni e le ho assicurato che sarei tornata di lì a poco. L’agente mi ha fatto sedere sul retro della volante. Era buio pesto sulle pianure del Nord Dakota, non si vedeva altro che la luce degli abbaglianti. Non ricordo che cosa facesse l’agente a bordo dell’auto, solo che c’era uno schermo affisso al cruscotto e lui che ci digitava sopra, che richiamava dati. Poi ha iniziato a interrogarmi. Non ricordo nemmeno esattamente le sue domande, soltanto una: Trasporta della droga? Così, di punto in bianco mi ha chiesto questo. Sono rimasta di sasso. No, certo che no. Può perquisire la macchina, se crede, ho detto. Siamo diretti a Standing Rock, a un campo estivo lakota, ho aggiunto sperando di far cadere i suoi sospetti. Mi ha trattenuto nella volante per mezz’ora, un’ora. Io non capivo. Non mi pareva di aver fatto niente di male. Poi ho iniziato ad avvertire un’energia negativa, spaventosa. Non era per la presenza del poliziotto. L’ho capito più tardi che avevo sentito mia figlia. Quando finalmente sono stata «rilasciata» e sono potuta tornare alla macchina, l’ho trovata in preda a una crisi isterica. Non sapevo che cosa ti avrebbe fatto, piangeva disperata. Mentre scrivo, le chiedo che cosa ricordi di quella notte. Per i primi quindici minuti sono rimasta tranquilla, risponde. Ma dopo un po’ mi è presa l’ansia. Ho pensato che fossi nei guai. Avevo paura che ti portasse via. Annuisco. Ti ho sentita, le dico. Istinto materno. Di ritorno a casa, ho raccontato l’accaduto al resto della famiglia, e si sono infuriati, urlavano che quel poliziotto non era autorizzato a fare quello che aveva fatto. Non conoscevo i miei diritti, ho ammesso. E non sono sicura di conoscerli tuttora. Ho fatto una ricerca su Internet ma non sono riuscita a stabilire se l’agente abbia seguito una procedura legale. E se anche così fosse, ero comunque sola con mia figlia nel buio della prateria. Era un uomo grande e grosso, l’agente. Mentre lo guardavo ricordo di essermi sentita completamente in sua balia, come in trance. Avevo una noce al posto del cervello. Avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse chiesto. Scuoto la testa, adesso, perché lo so che è una storia blanda come latte annacquato. Non sa di niente. Mi dispiace. Di certo c’è una cosa sola: finché avrò vita, non guiderò mai più sola con mia figlia dopo il tramonto fuori dai confini della mia città. E non per paura del buio, ma delle luci blu.

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Per curiosità ho cercato su Google l’anatomia dell’occhio dell’alce. Aveva ragione, mia figlia. Non c’è niente nella pupilla. È un foro attraverso cui passa la luce che viene assorbita dall’iride. E in quello spazio infinitesimale, infiniti riflessi.

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Orrore, paura, rabbia, indignazione, panico – questo ho avvertito dentro mentre assistevo. Attraverso la pupilla fin giù nella gola, nel petto. Come una freccia, le immagini di George Floyd mi hanno trafitto l’anima. Non so come altro descriverlo. Volevo ruggire! Questo Paese, la sua struttura – se fosse un tavolo, lo ribalterei. Poi però considero le dimensioni della struttura e l’adrenalina all’istante si cristallizza in venefico terrore. Terrore senza tempo, terrore antico come il mondo, terrore ancestrale. Per giorni non sono riuscita a trattenere le lacrime. Non avevo posto per quell’energia spaventosa che non fosse il punto da dove era entrata, i miei occhi. Con acqua e sale l’anima si purifica da sé. Ma voglio dirti che effetto ha su di me il terrore. Mi fa sentire impotente. Senza braccia né gambe. Senza nemmeno una bocca da poter aprire e urlare, o con cui mordere.

Però mi perdono tutte queste reazioni, perfino quella d’impotenza, perché so che sono istintive. Pioggia di Ferro non riusciva a prendere sonno. Nemmeno io ci riesco. È la consapevolezza, inesprimibile a parole, che qualcosa è qui. E altro arriverà. Sono così scossa che questa settimana ho chiesto a mia figlia, ormai adolescente, e quindi desiderosa d’indipendenza, di dormire con me. Perché? Mi aggrappo a lei per garantirle protezione. Sono emotivamente distrutta. Perché? Io e George Floyd siamo di comunità diverse, contesti diversi, generi diversi. Su questa terra, le nostre storie si sovrappongono, ma allo stesso tempo sono distinte. Non ho parole per spiegare perché, ma con certezza posso dire che l’assassinio di George Floyd mi ha colpito nel profondo, come se fosse stato mio fratello, il sangue del mio sangue. La sua morte, l’ultima di una lunga catena di violazioni e omicidi a danni dei neri, mi ispira un desiderio disperato che a questa gente venga riconosciuto il dovuto rispetto. Rispetto assoluto. Non una violazione di più.

Devo fare qualcosa, dice l’anziano-istinto. Ma non so che cosa, rispondo io. Perdonami, anziano, se alla disperazione non conosco altro rimedio che la scrittura. Perdonami per le evidenti lacune di questo sfogo, c’è tanto che non so e che andrebbe affrontato. Credo nel vecchio adagio che recita, «Ne uccide più la penna che la spada», e credo anche che le parole siano poca cosa. Per tutti i paradossi, per le contraddizioni, perdonami. Ma mi svuoto le tasche – ecco qualche ricordo personale, una manciata di parole dei nostri antenati, un po’ di storia lakota, un brandello di conoscenza di questa terra, una strizzata d’occhio ai guerrieri AIM moderni, tanto amore per mia figlia e la mia famiglia, l’accenno a una vita amorosa che fa pena, la mia esperienza di donna – altro non ho. È poca cosa, lo so, ma do tutto a George, alla sua famiglia e a tutti quelli che hanno sofferto con loro.

Non so niente, eppure una cosa la so. Io do, consapevole di non essere la sola a dare. Qual è il contrario di impotente? Capace, potente, o che può. Qual è la cosa più potente che conosca? Il sole. La sua luce. Il suo potere di riflettersi in imprevedibili direzioni, fin negli angoli più bui.

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Layli Long Soldier è una poetessa, artista e femminista appartenente agli Oglala, una delle sette tribù dei nativi americani Lakota, originariamente insediatasi nelle Grandi Pianure. È autrice di Whereas, una raccolta di poesie sulla violenza e gli abusi perpetrati ai danni delle tribù native degli Stati Uniti. Lavora come editor di poesia per la rivista Drunken Boat e per la casa editrice Kore. Puoi leggere la poesia cui accenna in questo pezzo sul primo volume di Nuova Poesia Americana.

Fotografia: protesta a Wounded Knee, 2014, via Confrontational Media on Flickr.
Traduzione di Sara Reggiani