di Jeannie Marshall

Questo pezzo è apparso originariamente su Brick numero 95, estate 2015

 

Una sera d’estate, mentre tornavo di fretta a casa lungo via dei Genovesi, a Roma, ho dato un’occhiata all’interno di un ristorante in cui i tavoli erano apparecchiati con spesse tovaglie bianche e argenteria pesante. Sono stata travolta da un’ondata di voglia indefinita. C’è qualcosa in luoghi come questi, nella loro luce soffusa e nell’alludere a intimità e inclusione, che sprigiona un senso di speranza, promessa, idillio, vita, futuro. Un brevissimo flash, mentre passavo davanti alla porta aperta, è stato sufficiente per suscitare ricordi di altre conversazioni a tavola, del modo in cui si dipanano quei pensieri che sono troppo profondi per sorgere alla luce del giorno. Mi ha fatto pensare, nello specifico, a un ristorante di un’altra città, dove per la prima volta avevo scoperto di poter provare una fame che aveva poco a che vedere con il cibo.

Tutto questo è successo anni fa, e io ero giovane, troppo giovane per poter ordinare il bicchiere di vino bianco fresco che dava inizio alla serata. Avevo il mio primo lavoretto estivo in un negozio gestito da Karen, un’amica di mia sorella maggiore, in Queen Street West, a Toronto. Vendevamo cestini di vimini e abiti di cotone. Karen e il suo ragazzo, Lou, avevano invitato me e Vanessa, una ragazza che veniva al negozio abbastanza spesso da diventare un’amica, a cenare con loro al Le Sélect. Il ristorante era pervaso da una luce gialla soffusa, i tavoli erano vicini uno all’altro e i cestini del pane appesi al soffitto con una corda agganciata a una carrucola. Attraversammo la sala affollata, facendoci largo tra il chiacchiericcio e i profumi di burro, aglio e cipolla verso il nostro tavolo, nel bel mezzo di tutto.

Il cameriere ci portò il vino e quattro bicchieri, così bevemmo mentre esaminavamo il menù. Fu Lou a ordinare per tutti. Prima arrivarono i piattini con una torta salata alle olive, pomodoro e cipolla, e poi vassoi di cozze e piatti di patatine fritte lunghe e sottili. «Moules frites» mi disse Lou, sapendo che non le avevo mai mangiate. Durante la cena Vanessa parlava di George Orwell e di 1984, ravviandosi i suoi capelli biondi lisci che le cadevano sulle scapole e poi, flettendosi con una scrollata, sull’altra. Era una serata calda e afosa e Vanessa indossava il vestito bianco di cotone che aveva comprato quello stesso pomeriggio al negozio. Al cameriere, che aveva detto di essere nato a Parigi, si rivolse in francese, scusandosi per il suo accento québécois.

Osservavo Vanessa, una giovane donna che aveva solo qualche anno più di me, mentre spingeva in avanti il suo bicchiere di vino per averne ancora un po’, usava un guscio vuoto per estrarre le cozze e infine raccoglieva con maestria la salsa con il suo pezzo di pane, tutto questo mentre parlava di Winston Smith e del coraggio delle sue idee. La luce soffusa e i profumi deliziosi, la convivialità e l’intimità nel condividere cibo e vino mentre ci sporgevamo sul tavolo per aprire le nostre menti parlando di libri e idee, tutto questo si fuse in una cosa sola e si fece largo al centro della mia coscienza come un albero dalle radici in rapida espansione. Volevo trascorrere il resto della mia vita in quelle stanze; volevo vivere esattamente in quel modo. Questo brandello di ricordo è, per molti versi, il motivo per cui vivo in Europa da ormai più di un decennio.

La settimana successiva, mentre tornavo a casa dal lavoro, comprai una copia di 1984 in una libreria dell’usato. Non volevo che Vanessa si accorgesse che l’avevo appena acquistato. Volevo leggerlo per capirlo e lasciare che la mia comprensione maturasse nel tempo, come succedeva a lei. Volevo parlare di totalitarismo come se conoscessi davvero il significato della parola. C’erano altri libri dei quali lei parlava nello stesso modo concitato, dando per scontato che chiunque con mezzo cervello e una tessera della biblioteca li avesse letti. Erano scelte cupe, ora mi è chiaro, per una ragazza di circa vent’anni: La fattoria degli animali, naturalmente, insieme a 1984, ma anche Il mondo nuovo e Arancia meccanica. Davanti ai piatti di gulasch di un ristorante ungherese dei dintorni, Vanessa discettava del Manifesto del Partito Comunista, delle idee autentiche che erano andate smarrite in politica. Non ricordo che qualcuno di noi si fosse mai posto il problema del perché a Toronto, nel 1979, ci fossero così tanti ungheresi disposti a prepararci la cena. Non ci chiedevamo mai quando o perché fossero arrivati in Canada. Dopo aver letto Libro di memorie di Péter Nádas, qualche anno più tardi, iniziai a capire qualcosa del tumulto politico, umano ed emotivo che aveva contribuito a portare quel piatto di gulasch sotto il mio giovane naso ignorante.

Sono cresciuta quell’estate, grazie a quella memorabile cena al Le Sélect, a molte altre cene in trattoria e altre ancora nella cucina di Lou e Karen. Quei momenti, in cui mi ci voleva l’intera serata per bere un bicchiere di vino a cena, hanno forgiato le mie idee sullo stare al mondo. In quell’estate in cui vendevo abiti e cestini, ascoltavo David Bowie e leggevo romanzi distopici, desiderando essere una ragazza bionda con una laurea in letteratura inglese, tutto questo mi procurava una certa eccitazione. Mi piaceva il modo in cui il cibo era in grado di riunirci. Creava l’atmosfera cordiale nella quale potevamo discutere di grandi idee e parlare con sincerità, come soltanto i giovani possono fare, di quello che è giusto e sbagliato e dello scopo morale delle nostre vite.

 

Fame di Knut Hamsun fu pubblicato in Norvegia nel 1890. Hamsun partiva dalla sua stessa esperienza della povertà per raccontare la magistrale storia di sofferenza di un uomo senza soldi. «A quel tempo ero affamato e andavo in giro per Christiania, quella strana città che nessuno lascia senza portarne i segni» è l’incipit. Poi inizia la storia di come Hamsun – ovvero il suo narratore: realtà e finzione sono mescolate così bene che è difficile distinguerle – impazzisce per la mancanza di cibo e per la sua incapacità di provvedere a se stesso. Cammina per le strade, in preda a una fame crescente e senz’alcuna soluzione all’orizzonte, e vede una donna che sta scrutando la vetrina di un macellaio e che gli rivolge uno sguardo «ancora tutto pregno di salsiccia». In mezzo a tutta questa miseria, si mette a scrivere un articolo che proverà a vendere a un quotidiano. Ci riesce, il che gli vale qualche scellino, ma ben presto torna alla situazione di partenza. Dà in pegno il suo orologio da taschino, i libri, il panciotto; cerca di vendere i bottoni, ormai consunti, del suo cappotto; s’infila delle pietre in bocca per alleviare la prosciugante sensazione che la fame gli stia sottraendo la vita. La sua stessa povertà lo umilia, eppure gli sembra di muoversi tra la gente senza che nessuno si accorga del fatto che sta morendo di fame.

Un centinaio di anni dopo, parlavamo di Fame in una vecchia casa di Toronto nella quale abitavo con due amiche. Stavamo cenando in una sala piena di quadri e piante, illuminata da un lampadario in ghisa sopra il tavolo. Una di loro aveva arrostito un cosciotto d’agnello. Aveva praticato alcuni tagli nella carne e aveva infilato degli spicchi d’aglio nelle aperture. Aveva massaggiato la carne con burro e sale per poi metterla ad arrostire su un letto di rametti di rosmarino. Tagliammo il cosciotto a tavola e ci servimmo dei nostri pezzi di carne con un contorno di patate arrosto e asparago primaverile.

Qualcosa nell’abbondanza di quel cibo delizioso ci spinse a parlare del piacere che riserva il cibo quando si è veramente affamati. Il piacere di soddisfare la propria fame, inizialmente molto intenso, con i primissimi bocconi, diminuisce quando si sazia la fame, anche se poi si continua a mangiare nella speranza di prolungare quella prima sensazione di appagamento. Avere fame e sentirsi sazi non sono ai poli opposti di uno spettro. Sono molto vicini. Mangiare appena quanto basta produce una forma poco eccitante di soddisfazione, mentre mangiare un po’ di più può facilmente condurre al disagio dell’eccesso. Queste chiacchiere da studenti di filosofia ci portarono fino ad Hamsun.

L’implacabile ricerca di una tregua da parte di Hamsun, l’irrequietezza con la quale scrive e dà la caccia al direttore del giornale, è insopportabile. La sua disperazione è fin troppo palpabile, le sue speranze troppo esili. Abbastanza e non abbastanza finiscono per essere davvero troppo ravvicinati. Questo libro evoca la paura che ci assale nel bel mezzo della notte, quella che ci dice che le nostre vite sono fatte di carta velina. In quelle ore di veglia, mi chiedo perché il narratore del libro di Hamsun si ritrovi ad essere così incapace di provvedere ai suoi bisogni fisici più basilari. Nei miei incubi gli sono seduta accanto, a riempire pagine di parole inutili che diano nutrimento al dolore che ho nello stomaco.

 

Ma cosa sapevo io della fame? Crescendo, ho conosciuto persone che a volte avevano poco da mangiare. Ho vissuto all’ombra di quella paura perché mia madre aveva sempre il terrore che succedesse anche a noi. Ci trovavamo al limite, ma non siamo mai caduti. Mi sembra che in casa nostra ci sia sempre stato abbastanza di che vivere. Mia madre sapeva come trattare il cibo che aveva a disposizione, anche quando non era dei migliori, soprattutto quando non era dei migliori, e come condirlo con quello che c’era a disposizione, come arrostire, brasare o friggere in padella finché la casa non si riempiva di profumo, e come fare uso di quest’ultimo per attirarci a tavola, per tenerci uniti quando sembrava che il mondo fosse in grado di separarci. C’erano altri problemi, però fame non ne avevo.

Più tardi, all’università, ho avuto un impiego a tempo pieno come segretaria per uno studio legale, facevo il turno di notte per poter pagare le tasse, comprare i libri, versare l’affitto e pagare la mia quota per il cibo che preparavamo in quella splendida vecchia casa. Ho imparato a cucinare per mettere a proprio agio gli amici e poter parlare. Ho capito che c’era qualcosa di magico nella luce delle candele e nello stufato di pollo. Mangiare e parlare delle nostre letture diventava un modo per sentirci coinvolti con il resto del mondo. Parlavamo di Hamsun, Proust e Tolstoj, e la settimana successiva correvo a comprare i libri che non avevo ancora letto. Volevo sempre di più, mangiare, pensare e dire di più. Ma non era fame quella che provavo. Tutto quello che sapevo della fame l’avevo letto nei libri.

 

Nel 1922 Franz Kafka pubblicò un racconto intitolato «Un digiunatore», su un uomo che trascorre quaranta giorni senza cibo, in una gabbia esposta al pubblico sguardo.

 

Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia; anche di notte avevan luogo delle visite, alla luce delle fiaccole, per aumentarne l’effetto; quando il tempo era bello la gabbia veniva trasportata all’aperto, e allora erano specialmente i bambini a cui veniva mostrato il digiunatore.

 

Quando ho letto il racconto per la prima volta, ho pensato che il digiunatore fosse come lo scarafaggio. Ho pensato che fosse diverso da come appariva. Per quanto Kafka lo usi come simbolo, c’erano davvero artisti della fame che esibivano i propri corpi emaciati e la propria capacità di sopportare una sofferenza alla quale sicuramente nessuno con un po’ di soldi avrebbe scelto di sottoporsi volontariamente. Gli artisti della fame furono in voga per tutto il Diciannovesimo secolo e nei primi anni del Ventesimo. Uno dei più famosi fu Giovanni Succi, che viaggiò tutta Europa per mostrare se stesso, davanti a un pubblico spensierato e divertito, mentre spariva. Chi assisteva non lo faceva soltanto per il brivido di vedere un uomo che si riduceva a essere quasi uno scheletro per la fame, ma anche per assistere alla disciplinata sofferenza del digiunatore. Il pubblico era così sbalordito dai digiuni di quaranta giorni di Succi che cominciò a sospettarlo di truffa. Come per il digiunatore di Kafka, c’erano osservatori esterni che esaminavano Succi notte e giorno, durante le sue ultime esibizioni, per assicurarsi che non assumesse nulla di nutriente. Si pensa che «Un digiunatore» sia ispirato alla storia di Succi.

Come Fame, anche la storia di Kafka racconta la sofferenza di un artista (e la sua invisibilità, non appena il pubblico perde interesse), ma il solo fatto che gli artisti della fame siano realmente esistiti rivela la nostra curiosità, perversa e passiva, di esseri umani nei confronti del dolore. Probabilmente, l’idea che la fame potesse colpire soltanto chi la sceglieva era di conforto per il pubblico. Tuttavia, quando l’inedia divenne una minaccia reale, non poté più essere considerata un divertimento. La notorietà dei digiunatori iniziò a scemare dopo la Grande Guerra, quando la fame diventò un’esperienza di prima mano per molti europei.

 

Cosa sapevo, quindi, della fame? Avevo mai visto una persona morire di fame? Ne sto vedendo adesso, temo. Se non stanno morendo di fame, di certo non hanno abbastanza da mangiare. Sono i Rom e i Sinti, che in Italia non godono di simpatia e che spesso sono costretti a cercare il cibo nella spazzatura; sono anche gli anziani, dei quali il 43,5 percento cerca di sopravvivere con meno di mille euro al mese. Sono i rifugiati provenienti dall’Africa che hanno rischiato le loro vite venendo in Europa per poi ritrovarsi a vendere false borsette di Prada a Ponte Sant’Angelo. È la comunità che vive all’ombra della sopraelevata, a poche centinaia di metri soltanto dalla scuola di mio figlio, persone che, con i loro carrelli del supermercato e i cani senza guinzaglio, mi ricordano King, il romanzo di John Berger. (È stato leggendo quel libro che ho imparato a mettere un cucchiaio di vino bianco nelle uova, per l’omelette).

 

Una sera, a Roma, sono uscita a cena con un’amica. Siamo andate in un nuovo ristorante di tendenza, dove un famoso chef usa solo gli ingredienti più ricercati: l’umile trattoria sta sparendo. Abbiamo preso posto di fronte a un tavolo di quattro uomini che ordinavano champagne, una bottiglia dopo l’altra. Era un mercoledì sera e il ristorante era al completo. Gli italiani, palesemente facoltosi, si mescolavano con una nuova specie di viaggiatore, il turista gastronomico. Ho ordinato un costoso piatto di ravioli. Il cameriere mi ha portato quattro cuscinetti di pasta, perfetti, ripieni di formaggio, con un esile gambo di asparago selvatico – raccolto dallo chef durante una passeggiata in campagna, senza dubbio – posatovi delicatamente sopra. Ecco l’Italia nel bel mezzo dell’austerity, l’Italia della grande crisi economica, dove il tasso crescente di disoccupazione giovanile ha raggiunto quasi il 40 percento, dove gli anziani, all’alba, aspettano fuori dalle panetterie nella speranza di ricevere quel che è rimasto dal giorno precedente. Il cameriere ci ha allungato i piatti mentre discettava del particolare significato della salsa in una pietanza, e della provenienza del formaggio nell’altra. Questo ci ha condotto a una conversazione poco appagante basata su quello che stavamo consumando. Abbiamo provato a parlare un po’ dello stato in cui versava l’Europa, ma l’atmosfera non era per nulla propizia; abbiamo parlato, invece, del dessert.

Non dovrei darne la colpa al ristorante. Loro non sanno che io entro alla ricerca di stimoli e di coinvolgimento, di un posto per l’intelletto oltre, naturalmente, ai piaceri della cucina. Ricevere informazioni sul cibo è un bene, ma come un lieve brusio di sottofondo. Non riesco più a trovare quel che cerco perché il cibo crea troppo rumore. Nei ristoranti c’è il flash delle fotocamere e le immagini vengono postate all’istante sui social. Il cibo risucchia tutta l’attenzione nella stanza. In teoria, possiamo ancora discutere delle nostre idee utopiche e di mondi distopici, ma sta diventando sempre più difficile farlo.

Questo genere di cibo ha perso ogni vitalità, per me. Manca di equilibrio.

 

Il piacere superficiale del cibo nuoce ai piaceri più profondi della tavola. Il contrasto tra ristorante e strada sta diventando troppo netto. In Grecia il Fondo Monetario Internazionale dice: «Ben fatto, state mettendo a posto i conti», mentre le donne frugano nella spazzatura fuori dai supermercati. Il governo italiano infierisce sul popolo con l’austerity mentre il tasso di suicidi aumenta. A Roma, fuori dall’ufficio del premier, un uomo disoccupato con una pistola in mano implora la polizia di sparargli. Il Presidente della Camera dichiara che il governo deve fare qualcosa per rispondere ai bisogni della popolazione, perché la crisi sta trasformando le vittime, come quest’uomo, in assassini. E le aziende lasciano il Paese in cerca di manodopera a prezzi più bassi. Il mio vicino dice: «Non mettere i resti di cibo nella spazzatura. Raccoglili separatamente e lascia il sacchetto di fianco al cassonetto, la città è piena di fantasmi che escono di notte alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti». La polizia fa sloggiare le persone dalla loro casa all’addiaccio nel sovrappasso vicino alla scuola, sparpagliando bambini scalzi per le strade. Loro si disperdono per un po’, e nel giro di una settimana sono di ritorno. Dove altro possono andare?

All’interno del ristorante stiamo tutti bene, mentre conversiamo dei piatti anziché al di sopra di essi. Questo cibo, questo cibo decadente e artisticamente presentato che parla molto più di status e di intrattenimento che non di qualcosa di così essenziale come il sostentamento, è la ricompensa per aver fatto in modo che il capitalismo girasse a nostro vantaggio. Se possiamo permetterci di mangiare in questi posti pieni di turisti e magnati degli affari, come possiamo criticare il sistema che ci ha portato fino a qui? Non abbiamo parlato di niente di tutto questo, la mia amica e io.

 

L’immagine di persone che portano avanti discorsi intellettuali, spostandone gli orizzonti mentre sono a tavola, ha una lunga tradizione. L’epoca che tuttavia la rappresenta al meglio è la cultura del café dei primi modernisti, durante gli anni Venti. Quando si pensa a Parigi dopo la Grande Guerra, si pensa ad artisti e scrittori che hanno vissuto in un mondo in frantumi e che hanno cercato di frantumarlo ancora di più davanti a un raffinato bicchiere di vino e a un piatto di coniglio brasato. Si pensa a Picasso e Braque che sovvertono le forme mentre mangiano pietanze che i turisti gastronomici di oggi considererebbero ridicole e demodé. Di tanto in tanto un oggetto sulla tavola, come un bicchiere di vino, un piatto o una forchetta, finiva nei quadri, lasciando intuire qualcosa dell’ambiente in cui venivano concepite quelle idee dirompenti. Gli oggetti adibiti a una forma semplice di piacere erano però ai margini della coscienza; al centro c’era la sovversione del mondo attraverso l’arte.

 

Mi sono portata appresso questa mia deliziosa bramosia per tutta via dei Genovesi, oltre i condominii dalle cui finestre aperte si diffondeva il profumo dei pomodori soffritti nell’olio d’oliva, e su Viale di Trastevere ho preso un tram per casa. La strada era piena di gente che faceva una passeggiata serale e di gruppi di turisti gastronomici che andavano dal negozio di formaggi al forno in cerca di degustazioni. Un gruppetto di ragazze rom danzava tra loro chiedendo soldi mentre i degustatori sorpresi le guardavano senza capire, le bocche piene di pizza.

A Roma, mentre osservavo queste persone, pensavo ancora a Queen Street, a Toronto. Le Sélect si era trasferito per diventare un ristorante francese ancora più grande e moderno, quindi il ristorante dei miei ricordi è scomparso. La libreria dove acquistai la mia copia di 1984 ha chiuso i battenti molto tempo fa. Ora la strada è piena di nuovi ristoranti, bar e negozi, ma nessuna libreria. Per trovare una copia del libro di Orwell bisogna camminare un bel po’, adesso.

Adoro ancora i ristoranti, quei luoghi dalla luce soffusa, con un sentore di speranza e di promesse. Adoro l’idea di poter mangiare in un posto dove le persone conversano, ma non di quello che stanno mangiando. Credo ancora che ci siano ricchezze da poter scoprire a tavola, davanti a un piatto e a una bottiglia di vino, ma non del genere che si può trovare nel menu.

*

Titolo originale, A Kind of Hunger, copyright @ Jeannie Marshall, all rights reserved.
Traduzione di Lorenzo Mari.