di Caryl Pagel

Questo pezzo è apparso originariamente su Brick numero 103, estate 2019

 

C’erano trenta palloncini a elio oblunghi, di vari colori, alla festa di compleanno del piccolo L. Compiva un anno, il figlio di mio fratello, e si era rivelato un eccellente percussionista. I palloncini erano sorprendentemente robusti, e a un certo punto della festa qualcuno aveva legato le estremità di alcuni nastri intorno a una lattina vuota di Old Style, che rimase a fluttuare al centro della cucina per il resto della giornata. Sui fornelli erano posate due piccole torte, nessuna delle quali destinata a essere mangiata. Una era un grumo color pastello in via di scioglimento, abbandonata a causa della sua forma irregolare; la seconda era più o meno della stessa misura, ma aveva i bordi più definiti ed era sormontata da un bouquet di palloncini di glassa turchese e lavanda fatti a mano. Entrambe le torte erano senza uova, L. era allergico. L’idea era che afferrasse quel dolce in miniatura con le sue frenetiche manine e lo demolisse – spargendo la glassa davanti ai nostri occhi – mentre noialtri scattavamo foto che, presumibilmente, avrebbe guardato tra qualche decina d’anni con uno stucchevole impeto di nostalgia per uno spettacolo che non aveva modo di ricordare, un’immagine che rappresentava lo sbocciare della sua individualità (o della percezione che i suoi genitori avevano della sua individualità) la quale, nel momento in cui avrebbe provato a prendere in esame quella prova, aveva già cominciato a mutare e a complicarsi.

Seduta sul bracciolo del divano con una crocchetta al formaggio in mano, intenta a fissare la lattina di birra fluttuante, mi tornò in mente la foto di un’installazione artistica che mi era stata proposta, in cui i fili intrecciati di quattro giganteschi palloni dorati a forma di maiale avrebbero dovuto venir ancorati lungo il fiume Chicago in un modo e a un’angolazione tale da impedire, per un breve ma liberatorio periodo di tempo, al nome del nostro attuale presidente di gettare la sua mefitica ombra sulla città. Era la primavera del 2018, ed ero arrivata a Chicago da Cleveland. La mattina precedente, uscendo dall’appartamento di mia madre nel South Loop, mi ero avventurata su per Michigan Avenue passando davanti a Grant Park e all’Istituto d’Arte, attraversando il ponte e facendomi strada tra le orde di avventori che approfittavano dei saldi di fine primavera per dare un’occhiata alla mostra di Howardena Pindell, Quel che resta da vedere, presso il Museo d’Arte Contemporanea dove, per la prima volta in cinquant’anni di carriera, era stata esposta una vasta selezione dei suoi lavori. Avevo letto qualcosa su Pindell ed ero lì soprattutto per vedere il suo corto del 1980, Free, White and 21, un monologo di dodici minuti in cui racconta una vita di episodi di razzismo mentre poco alla volta si avvolge intorno alla testa una fascia di garza e – inframmezzandovi brevi clip di se stessa con la faccia tinta di bianco interrompe la narrazione con la commiserazione, la condiscendenza e il sospetto del personaggio di una donna bianca fintamente preoccupata. In uno dei suoi aneddoti Pindell ricorda come la maestra d’asilo l’avesse legata al lettino con un lenzuolo, una volta che aveva chiesto di andare in bagno durante l’ora del riposino. In un altro spiega come il suo nome fosse stato escluso dal ballottaggio per l’elezione del consiglio studentesco universitario perché era nera, e dunque «inadatta a ricoprire la carica». Pindell, con occhiali da sole modello cat-eye, un pesante fondotinta color avorio e una parrucca bionda, replica a quei racconti con battute come: «Tu, piccola ingrata… Sai, devi essere proprio paranoica. A me cose del genere non sono mai capitate».

Free, White and 21 – il cui titolo fa riferimento a una frase inizialmente pronunciata dagli uomini che avevano diritto al voto negli anni ’20 dell’Ottocento, e ripetuta sino allo sfinimento nei film hollywoodiani degli anni Cinquanta per sottolineare i privilegi arbitrari della gioventù bianca – è la prima occasione in cui Pindell, trentasettenne e artista ormai affermata, affronta pubblicamente nella sua opera il tema della razza e del razzismo, nel tentativo, dice, di opporsi alla strumentalizzazione che per anni era stata costretta a sopportare nel mondo dell’arte. Aveva realizzato quel video dopo aver smesso di lavorare per il Museo d’Arte Moderna e aver cominciato a insegnare alla Stony Brook, una delle università pubbliche di New York dove, nemmeno un mese dopo aver ottenuto l’incarico, era rimasta coinvolta in un incidente d’auto che le aveva procurato un trauma cranico e una parziale amnesia, motivo per cui aveva utilizzato il video come strumento per recuperare la memoria, compresi i ricordi delle sedicenti amiche femministe che non avevano ritenuto necessario occuparsi della questione razziale nell’ambito del loro attivismo.

Verso la fine del film – dopo che Pindell si è mummificata avvolgendosi una benda intorno al capo, cancellandone la superficie con lo stesso materiale che si userebbe per tamponare una ferita aperta – l’artista si strappa via dalla faccia un (finto) strato di pelle traslucida. Sempre nei panni di una donna bianca, si cala sulla testa una calza di maglia chiara, enfatizzando l’ineluttabilità delle maschere che la gente si aspetta di vederle indossare, gli strati d’invisibilità che è obbligata a esibire. Precedentemente nota per i suoi studi astratti su materiali e colore, dopo aver girato Free, White and 21 Pindell aveva cominciato a realizzare dipinti autobiografici: grandi tele ricoperte di frammenti narrativi provenienti da viaggi e ricerche, foto di famiglia, quadri cuciti di simboli della sua genealogia e delle sue origini africane. Era passata da quella che alcuni definirebbero pittura «pura» – un approccio orientato sul processo creativo e spesso focalizzato su materiali, manualità, lirismo e intuizione – a uno stile narrativo più netto, che integrava stralci di processi di associazione, inchiesta e documentazione che problematizzano la sovrapposizione tra la sfera personale e quella politica.

Al termine di Free, White and 21 avevo fatto un giro della luminosa galleria color avorio in cui erano esposti i primi dipinti di Pindell e avevo visto quelli che, da una breve distanza, apparivano come pannelli cosparsi di monconi di pastelli colorati o come la sezione variopinta della pista da ballo di un rave party. (Chissà se il piccolo L. avrebbe mai saputo cos’era un rave? Il mondo sarebbe già cambiato a tal punto?) Avvicinandomi ancora avevo notato migliaia di minuscoli e perfetti cerchi multicolore grandi come la punta di un mignolo, gettati a manciate su ampie tele prive di cornice creando una superficie liquida e vivace dalla texture variegata, forse a voler richiamare un tappeto, una parete maculata o la corrente spumosa dell’oceano che si infrangeva sulla riva. I coriandoli simili a briciole di arcobaleno realizzati da Pindell (che avevo scoperto essere il prodotto di una pinzatrice) formavano costellazioni, vorticosi turbinii di pigmenti e vernice, misteriose esplosioni di luce che scaturivano da gradazioni di tono contrastanti. Alcuni dei quadri erano un pot-pourri di pixel, mentre altri potevano essere letti come raffinati studi sul colore d’ispirazione geometrica che richiamavano alla mente i lavori di Agnes Martin o Mark Rothko: le tonalità che si attenuavano man mano che avanzavano sul piano, mutando di sfumatura e umore, sorprendendo con momenti di lieve difformità e bilanciata variazione. Quelle superfici scabre e tridimensionali sembravano invitarti a toccarle; io non l’avevo fatto. I dipinti sviluppavano una tensione interessante tra un approccio compositivo meccanico, automatico, e il caos di un prodotto artigianale, astratto.

Nel materiale espositivo Naomi Beckwith dichiarava: «L’innovazione di Pindell è quella di infondere nell’oggetto un senso di gestualità e movimento corporeo senza ricorrere all’ingombrante manierismo espressionista», diversificando le sue modalità di composizione da quelle dei più drammatici artisti (di sesso maschile) della generazione precedente – Jackson Pollock, Vasilij Kandinskij – per instaurare un dialogo con le pratiche performative più materiali e concrete delle sue colleghe, Ana Mendieta e Cecilia Vicuña. Quei dipinti erano focalizzati sullo stile più che sulla narrazione, sul materiale più che sull’immagine, sull’azione più che sul risultato finale e, come spesso accade, erano proprio le opere indecifrabili, inaspettate, a scuotere la mia psiche – quasi lo sconvolgimento fosse l’artefice della memoria – così come si tende a ricordare meglio i momenti di un viaggio in cui abbiamo perso la strada piuttosto che le miglia in cui sapevamo dove eravamo diretti, la consapevolezza che si fa strada in una nebbia attraversata solo da squarci sporadici.

Continuai a pensare ai fori di Pindell anche il pomeriggio successivo; mentre passavo dallo spingere il festeggiato nella sua macchinina di plastica al riempire il mio bicchiere di rosé, scorsi le foto sul mio cellulare fino a trovare quella di Untitled (1975) che, tenuta in verticale, creava un singolare e inaspettato affresco di pois retroilluminati sospesi su uno schermo di fronte a dei veri palloncini a elio che veleggiavano dolcemente fuori dalle finestre nel sole del tardo pomeriggio. L’opera che avevo fotografato (chissà se potevo?) aveva uno sfondo giallo con dei cerchi blu ammassati e mischiati ad altri bianchi e rossi, i colori che si combinavano in modo da ricordare la palette blu celluloide di Plastic Ocean, di Tan Zi Xi, una scultura ricavata in una stanza in cui frammenti di spazzatura sono appesi al soffitto in modo da creare un ammasso denso e concavo di detriti marini, con l’intento di rappresentare la spaventosa quantità di scorie che inquinano gli oceani del mondo. Nelle foto di Plastic Ocean i visitatori, con il naso all’insù, sbirciano attraverso strati di immondizia come, immagino, potrebbe fare un pesce ai giorni nostri, o forse l’avventore di un acquario molto realistico: costellazioni di rifiuti che impediscono alla luce di penetrare le profondità salmastre delle vasche. Avevo in mente la plastica; sono tempi spaventosi, questi.

Qualche settimana dopo la festa di compleanno del piccolo L., quando l’aria umida del lago Erie aveva cominciato a causarmi qualche problema respiratorio e ogni singolo metro quadrato di marciapiede si era riempito degli indecifrabili segnali d’avvertimento prelinguistici tracciati col gesso dai bambini del quartiere, avevo cercato sollievo dall’afa di Cleveland facendo un salto a est per vedere O., che pilotava barche per conto di un laboratorio marino a sei miglia dalla costa del Maine. Erano passati circa cinque anni da quando ci eravamo trasferiti in Ohio per il mio lavoro, che si era subito dimostrato un costante ma deprimente ostacolo alla vita al di fuori del Dipartimento d’inglese, situato al diciottesimo piano di un altissimo edificio brutalista, con anguste finestre da cecchino e un’amena tradizione di allagamenti al diciannovesimo piano e perdite di amianto. L’isola prometteva, a detta di O., fresche correnti atlantiche, gabbiani selvatici e «nessuna faccia conosciuta». Gli ultimi anni erano stati strani. A causa di una serie di errori burocratici, in facoltà ero stata costretta a sobbarcarmi il carico di lavoro di più persone e la situazione, dal momento che non poteva essere risolta in breve tempo, era stata mascherata con una sfilza di complimenti da parte di colleghi che, in buona fede, cercavano di risollevarmi il morale: «Hai un’aria così sana» diceva qualcuno, o «Sorridi sempre!» e «Te la stai cavando troppo bene per darti una mano». Forse avrei dovuto capire che qualcosa non andava quando la lettera con l’offerta di lavoro era stata misteriosamente indirizzata a una donna di nome Hope, o quando ero stata ripetutamente scambiata per una tale Emily, quasi la mia presenza invocasse i fantasmi di donne del passato, scostanti e interscambiabili.

Le mie esperienze in quella nuova città spesso sembravano appartenere a un altro tempo e a un altro luogo: un collega che mi consigliava di non avere figli; un preside che s’informava sulla qualità della mia grafia; c’era stato persino un gentiluomo che, dopo essere entrato nel mio ufficio chiudendosi la porta alle spalle, aveva lasciato intendere che, qualora avessi avuto problemi a gestire gli studenti (cosa non vera), sarebbe stato ben lieto di educarli al mio posto e farmi da poliziotto cattivo. Più tempo passavo nella torre più mi sentivo lontana dal mondo, così, un martedì mattina, mentre il nostro vicino faceva avanti e indietro per concimare il prato e gli amici si rassegnavano a un’estate di irrigatori a pioggia e spray per insetti, io avevo riempito un paio di borsoni e mi ero diretta a est con il cane. In un certo senso, solo col senno di poi mi rendo conto di quanto avessi bisogno di quella pausa e, mentre sfrecciavamo sulla I-90, lasciandoci alle spalle i tetti screpolati dei fienili che sorgevano ai margini della strada e il retro di furgoni che strillavano I VETERANI PRIMA DEI RIFUGIATI, o IO STO CON KASICH, ebbi come l’impressione che un casco di piombo bollente si fosse levato dalla mia testa, o che dei soffocanti tentacoli avessero allentato la loro presa su di me − ma forse altro non era che il mio povero cuore che riprendeva a battere − dando vita a quella sorta di martellante esuberanza interiore che vuol dire libertà (liber-, liber-, liber-) e che solo di rado interrompe il panico incessante dell’età adulta.

Superato il primo casello autostradale mi tornò in mente un viaggio in auto di qualche anno addietro, quando avevo trascorso alcuni giorni a Washington D.C. prima di recarmi a Baltimora per il matrimonio di D. ed ero finita al Museo Nazionale delle Donne nelle Arti, un posto in cui non ero mai stata ma che aveva suscitato il mio interesse grazie a un cartellone pubblicitario appeso alla fermata dell’autobus. Era il giugno del 2016 e avevo commesso l’errore di rileggere qualcosa che avevo scritto anni prima, qualcosa che avevo immaginato potesse essere l’avvio di un libro in cui il narratore trae ispirazione dallo sguardo di una donna fotografata in strada a Chicago, uno scatto che avevo visto per la prima volta proprio nella capitale. Avevo creduto, forse ingenuamente, che tornando alla fonte sarei riuscita a ricreare un po’ di magia. Quel giorno ero stata accolta nell’atrio di marmo rosa del museo da un’energica guida russa, che si era scusata senza motivo per il suo inglese imperfetto per poi inondarmi di informazioni riguardo alle gallerie, alle nuove mostre e alla storia dell’edificio. Indicando un ritratto a grandezza naturale alle sue spalle aveva parlato di Wilhelmina Cole Holladay, che nel 1983 aveva trasferito la collezione in un maestoso ex tempio massonico. La guida aveva suggerito di non perdermi il terzo piano – «Molti saltano il terzo piano», aveva detto – che, a suo avviso, nonostante le dimensioni modeste, era il più significativo.

Avevo salito tre rampe di scale e, girato il primo angolo, c’era una gigantesca fotografia che ritraeva una dozzina di studentesse del liceo affacciate o appoggiate ai lati di un motoscafo, le onde e gli schizzi d’acqua che si sollevavano tutto intorno, le ragazze che ridevano con le facce illuminate dal tipico sorriso di chi ama stare all’aria aperta e da quella sorta di meraviglia causata soltanto dalla sensazione di volare. Sul retro di quell’imbarcazione senza tempo, a destra della foto, un uomo adulto manovrava il motore – un Mariner, così c’era scritto – e sorrideva verso l’orizzonte brandendo una grande bandiera palestinese. Mi soffermai a pensare a come dovessero essersi sentite quelle ragazze: i corpi leggeri, sospesi, liberi. Una lunga fila di edifici si ergeva lungo la costa, contrastando nel suo eburneo splendore con il blu livido del mare, così come con gli hijab bianchi delle ragazze, che svolazzavano sulle loro vesti scure. A giudicare dall’angolazione dello scatto, dedussi che Tanya Habjouqa, l’artista, dovesse trovarsi su un’altra barca che sfrecciava di fianco alla prima. La didascalia accennava al fatto che le giovani e il loro accompagnatore non potevano spingersi a più di sei miglia dalla costa, punto oltre il quale si sarebbero trovati in territorio israeliano: le acque che formavano un muro invisibile intorno a una dozzina di adolescenti immortalate per sempre nell’atto di stringere le palpebre per proteggersi dal riflesso del sole sull’acqua, intente a godersi quei cinque minuti di crociera. Ripresi a camminare.

Su un altro piano un pezzo di Jenny Holzer gridava CRESCETE I RAGAZZI E LE RAGAZZE ALLO STESSO MODO e, passando davanti a una serie di vibranti scatti di Rania Matar intitolata Una ragazza e la sua stanza, che raffigurava le camere di adolescenti americane e libanesi – complete di letti in disordine, rossetti, dischi e poster di celebrità – non potei fare a meno di notare come i luoghi in cui viviamo influenzino le narrazioni che contribuiscono a creare la nostra identità. Quella esposizione, in particolare, sembrava domandarsi chi, nel mondo, avesse la facoltà di lasciare la propria casa, e a chi fosse concesso viaggiare liberamente. Io potevo, ne ero consapevole, e non potevo. Mi interrogai sulla guida: cosa ci trovava nel terzo piano, e cosa aveva pensato potesse interessarmi? Ero l’unica persona all’interno del museo.

Una settimana dopo mi sarei svegliata alle tre del mattino in una camera d’albergo al suono di qualcuno che picchiava alla porta di un vicino. «Fammi entrare!» gridava un uomo bussando sempre più rapidamente, facendo ancora più fracasso, prima di cambiare ritmo. «Fammi! Entrare! Cazzo!» Una pausa. Ancora mezza addormentata, mi ero rigirata sul cuscino chiedendomi se fosse il caso di chiamare la reception o se qualcuno non lo avesse già fatto. Il bussare era cessato dopo un minuto, e avevo avvertito una voce gentile (il direttore dell’hotel? La persona all’interno della stanza?) sussurrare qualcosa di incomprensibile. Infine, passando di fronte alla mia porta diretto verso l’ascensore, l’uomo aveva urlato ancora più forte ai muri e a chiunque si trovasse in ascolto al di là di essi: «Quella stronza! Quella stramaledetta stronza del cazzo. La ammazzo!». Il mattino seguente un padre e un figlio si erano accomodati accanto a me in un bar. Io leggevo un libro; mangiavamo tutti delle uova. Avevo sentito il padre chiedere al figlio in età da liceo di descrivere alcune delle ragazze presenti alla festa di diploma a cui, presumibilmente, avevano preso parte la sera prima. Il figlio aveva esordito spiegando chi frequentava quale corso o praticava un certo sport. Il padre lo aveva interrotto: «Chi era quella? Quella con la camicia…? Rachel?». Il figlio aveva annuito masticando del bacon. «L’avevo immaginato. Quella sì che è una femmina». Forse riuscivo a ricordare con tanta chiarezza episodi come quello perché avevano avuto luogo in un breve (e probabilmente ingenuo) periodo in cui avevo creduto che l’atteggiamento verso i diritti delle donne e la parità di genere in America stesse cambiando. Era venuto fuori che mi sbagliavo, il nostro Paese aveva fatto una deviazione.

Una mattina, dopo essere finalmente giunta sull’isola di O., che ospitava sciami di studenti di biologia, fotografi ambientalisti, membri dell’università, ornitologi, alloggi per lo staff presi di mira dai gabbiani e un’elegante replica del giardino di un famoso poeta del Diciannovesimo secolo, camminai sino alla torre d’avvistamento di cemento color ruggine e guardai O. e i suoi colleghi assemblare quel che pareva un gigantesco siluro d’acciaio, che sarebbe servito a trascinare sott’acqua una rete affinché i tirocinanti potessero raccogliere dei campioni di scorie marine. Mentre curiosavo nel laboratorio adiacente, osservando scheletri acquatici vecchi di decenni ed embrioni di creature marine che galleggiavano in oleose soluzioni conservanti, scorsi, attaccato con lo scotch alla porta del laboratorio consumata dal sole, un foglio volante che annunciava la lezione del giorno successivo, Plastica e Antropocene, ricordandomi l’ultimo numero del National Geographic che conteneva una dozzina di stupefacenti fotografie di creature intralciate dalla plastica. Il più tenero di quegli inquietanti scatti raffigurava un cavalluccio marino color ambra che trascinava con la coda arricciata un cotton fioc rosa pastello sul fondo del mare turchino. Un’altra foto mostrava un branco di iene etiopi che annusavano un cumulo di spazzatura, e una terza ancora immortalava un granchio facchino australiano con un manto trasparente di plastica al posto del classico guscio opaco che avrebbe dovuto proteggerlo dai predatori. Persino i più remoti fondali dell’oceano erano stati contaminati da detriti tossici: sacchetti della spesa, boccette di pillole, cannucce, bicchieri di carta, microsfere, tela cerata, nastro adesivo, pezzi di automobili, tappi di bottiglia, fibre tessili, contenitori per cibi da asporto, scarpe, reti fantasma, giocattoli, imbottiture di materassi, palloni smarriti, posate, flaconi di shampoo, tralicci e così via. Gli stomaci delle tartarughe erano pieni di sapone, nell’apparato circolatorio dei bambini del Midwest scorreva il piombo, c’erano tracce di oppioidi nei mitili dello stretto di Puget e il disastro nucleare di Fukushima aveva lasciato la sua impronta sui vini californiani.

O. mi aveva detto che da anni ormai i biologi studiavano la popolazione delle sterne nell’isola accanto alla sua, e ogni estate, nel periodo della riproduzione, tre scienziati difendevano dai predatori quegli esemplari vivendo nel modo più discreto possibile tra migliaia di uccelli, in un minuscolo bungalow alimentato a energia solare, con un cane da guardia e senza acqua corrente. C’erano sterne comuni, rosee e artiche sull’isola, molte delle quali, durante l’inverno, percorrevano più di quaranta miglia per migrare dalla East Coast al Sud America, impiegando circa un mese per il loro viaggio autunnale e appena due settimane per risalire nel Maine. Per quasi vent’anni erano tornate su quell’isola, dove i biologi avevano tenuto sotto controllo il loro stato di salute, studiato le loro abitudini di accoppiamento e di volo e, negli ultimi tempi, monitorato il numero di sacchetti di plastica ingeriti dagli uccelli. Una delle preoccupazioni, oltre a quella nuova prova di inquinamento, era il fenomeno del «dread flight», che si verifica quando un’intera colonia, improvvisamente spaventata dalla presenza di un predatore, piomba in un silenzio assoluto per qualche istante prima di levarsi in volo in massa per non tornare mai più nello stesso luogo. I biologi avevano fatto del loro meglio per assicurarsi di garantire agli uccelli condizioni ospitali, ma temevano che prima o poi i soggetti del loro studio sarebbero spariti nel giro di un secondo. Persino in campo ornitologico, a quanto pareva, il potere di un bullo qualsiasi poteva terrorizzare un’intera popolazione, mutando il corso della storia per generazioni. Era la natura!

Ma il punto è questo: prima dell’inizio dell’estate, prima della festa di compleanno del piccolo L. a Chicago e della gita a est, prima che mi abituassi a un altro anno accademico, al nuovo e costosissimo pass per il parcheggio, alle poesie degli studenti, all’editing, ai pranzi a base di panini al burro d’arachidi, ai giorni di raccolta differenziata, alla neve da spalare e alle bollette; prima di una miriade di deviazioni personali e dei viaggi quotidiani attraverso quella striscia di terra aliena e per lo più deserta tra la periferia e il centro di Cleveland chiamata «Midtown», con i suoi cartelloni pubblicitari di pubblica utilità («La sifilide è una cosa seria», «Non sei pronto: usa il preservativo»), l’erba alta, gli ospedali in costruzione e i vecchi manifesti elettorali di Dennis Kucinich, mi ero imbattuta in un video sulla città in cui all’epoca vivevo che mi sarebbe rimasto impresso per anni e, col tempo, avrebbe finito col riassumere i sentimenti che provavo per quel posto più lucidamente di qualunque opinione personale. Non era l’Hastily Made Cleveland Tourism Video Believeland; quel breve documentario, che avevo scovato sul Cleveland Scene, mostrava un particolare aspetto della cosiddetta cultura della Rust Belt, una definizione discutibile che quell’anno era stata usata sino alla nausea dai giornalisti e che sembrava l’equivoco degli equivoci, e allo stesso tempo la chiave per una verità nazionale superiore, una verità che io, sino a quel momento, non ero stata in grado di esprimere.

Il video s’intitolava Balloonfest e si svolgeva in un singolo giorno del 1986, a Cleveland. Era stato girato da un cineasta del Missouri di nome Nathan Truesdell, che diceva di aver saputo di quell’evento da un’infermiera. A quanto pare Truesdell stava guardando un filmato che spiegava come piegare i palloncini a forma di animale – faceva pratica per la scuola da clown – quando era inciampato su un tavolo da caffè rompendosi entrambe le braccia. Il documentario realizzato in seguito, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere un lungometraggio, era stato ridotto – dopo anni di sperimentazione con interviste, reportage e narrazione orale – a sei minuti e mezzo di collage di filmati vecchi di trent’anni recuperati dal Northeast Ohio Broadcast Archive, dalla WJW Cleveland e dai video amatoriali di gente del luogo.

Il video inizia con un mezzobusto baffuto ed entusiasta che − stringendo un microfono a cavo argentato − intervista un balloon artist di Los Angeles, Treb Heining, in pieno centro città, in una giornata di sole. Dopo la dichiarazione di Heining, secondo cui un bambino è in grado di gonfiare «da due a tre palloncini al minuto», gli spettatori vengono ricondotti in studio, dove una bionda vivace e il suo partner commentano un filmato in diretta che mostra – nei toni caldi e un po’ sbiaditi delle telecamere a colori degli anni ’80 – alcuni cittadini che se ne vanno in giro con indosso grandi occhiali da sole, polo a righe, jeans abbondanti, top corti e pantaloni (ancora) leggermente a zampa d’elefante. La città di Cleveland, in collaborazione con la sede locale dell’UNICEF, stava tentando di infrangere il record mondiale di lancio simultaneo di palloncini, liberando nell’etere più di un milione e cinquecentomila esemplari in un solo colpo per battere il precedente record stabilito da Disneyland. L’entusiasmo per quell’impresa assurda era innegabile: il video mostra migliaia di persone riunite in un centro città storicamente deserto per riempire di gas delle piccole sacche di plastica, e sospingere delicatamente le sfere in una rete da pesca alta quanto un palazzo a tre piani, che raccoglie quei pezzi di lattice volanti in un unico punto in modo che possano essere rilasciati tutti insieme nel cielo limpido. Che iniziativa ottimista doveva essere sembrata!

Nel video i cronisti esaltano in toni semideliranti quella festosa immagine di cambiamento, rilanciando con spropositato entusiasmo una città che da tempo immemore veniva associata a un susseguirsi di sconfitte che aveva qualcosa di mistico. In un filmato Big Chuck (una celebrità radiofonica locale) intervista una frenetica signora di mezza età di nome Mary Ann a proposito del suo orologio da polso: la donna vi aveva legato un palloncino quando la fibbia si era aperta e l’orologio aveva preso il volo – «Qualcuno lo ha visto?». All’improvviso Big Chuck bacia inspiegabilmente la sconosciuta sulle labbra e il cameraman si concentra su dei bambini con le dita arrossate e incerottate per il troppo gonfiare. Un giornalista inviato da Los Angeles per l’evento dichiara – con lo zelo di un bambino che tenta di attirare l’attenzione sul suo banchetto della limonata – che lui e sua moglie sono «in città da sei mesi» e stanno «addirittura prendendo in considerazione» l’idea di trasferirsi a Cleveland, nonostante i loro amici li ritengano dei pazzi. Il conto alla rovescia ha inizio e, mentre migliaia di palloncini vengono finalmente liberati in aria, un annunciatore urla: «Ce l’abbiamo fatta! … Avrei voglia di cantare “Up, Up and Away”! Altro che “errore sul lago”! Cleveland… la casa del… la casa del… la casa del… Rock & Roll Hall of Fame!». I palloncini si levano sui grattacieli vorticando come mulinelli d’acqua e descrivendo traiettorie fluide e organiche che richiamano alla mente stormi di uccelli o banchi di sanguinerole.

Quel che accade dopo è tristemente prevedibile: un temporale avanza all’orizzonte e il fronte freddo abbatte intere sezioni di quello sciame appena liberato. I palloncini si spargono in ogni direzione, per poi perdere quota e atterrare. Esplode il caos. I palloni si trasformano in piccoli cumuli di spazzatura ammassati nel posto sbagliato. Migliaia di frammenti di plastica galleggiano nel già malsano lago Erie, mentre altri, dichiara un giornalista in un servizio del mattino seguente, migrano verso il Canada. Gli spettatori apprendono che l’antica maledizione di Cleveland non è svanita, che la città, alla fine, non ha infranto il record mondiale, e che i palloncini, invece di consolidare il cambiamento, si sono presto tramutati in messaggeri di sventura, a preannunciare pericoli per i marinai che navigano nel lago, unico ricordo del caos di quella festa. La mattina dopo, la guardia costiera fu incaricata di cercare due uomini caduti in acqua dalla loro barca da pesca la sera precedente. Come spiega in un filmato il giovane capitano, con i capelli agitati dal vento, le centinaia di migliaia di palloncini multicolore che galleggiavano sulla superficie delle onde rendevano più difficile avvistare un salvagente o una testa. I corpi dei due uomini erano stati rinvenuti a riva poco dopo. Nel cortometraggio l’impatto ambientale dell’evento non viene mai menzionato.

Si potrebbe pensare che quella messa in scena, come una piccola torta destinata a essere demolita, fosse stata realizzata con intento distruttivo – come un atto di deliberata decadenza – ma la verità è che negli anni ’80 la città di Cleveland desiderava ardentemente lasciare un segno a livello nazionale e oggi, a più di trent’anni di distanza, nell’aria si riesce a percepire ancora quella disperazione, quella brama. Ho guardato il video più volte, non solo per ridere di quell’impresa fallimentare, ma anche per lo splendore dei fermo immagine. Un filmato mostra centinaia di palloni che galleggiano sul lago come coriandoli, riportandomi alla mente non solo l’immersivo e caleidoscopico Infinity Mirrors di Yayoi Kusama – che avrei visto più avanti, quell’estate, con H. e S. al Museo d’Arte di Cleveland – ma anche i pois di Howardena Pindell in tutta la loro maculata perfezione.

Forse il momento più sorprendente del documentario, a livello visivo, è quello in cui i palloncini, appena liberati dalla loro rete, si sollevano lentamente addensandosi in una turbinante, aeriforme figura gassosa simile a una coda, quasi a imitare gli sbuffi di fumo esalati dalle vicine ciminiere. In quella ripresa i colori dei palloncini si fondono non nel marrone e nel nero, come sarebbe lecito aspettarsi, ma in uno spettacolare e fiammeggiante arancione ruggine che si staglia contro il cielo terso, avvolgendosi intorno al Terminal Tower come fuoco, o come l’oscuro presagio di quello che sarebbe diventato il più grande incubo della mia generazione. Ma no, era impossibile, nessuno nel 1986 avrebbe immaginato che degli aerei potessero schiantarsi contro i grattacieli, che gli edifici potessero crollare. Nessuno avrebbe immaginato che, quindici anni dopo la caduta di due torri, interi frammenti della popolazione avrebbero dimenticato. Era ancora difficile credere che la fine del mondo sarebbe cominciata con una serie di stupidi errori. Cosa possiamo salvare, ci chiediamo adesso, e cosa lasciamo al vento? Ciò che è destinato a Cleveland può finire in Canada. Ciò che segna il tempo può svanire nel cielo autunnale. I sorrisi sulle facce di quel video avevano ancora un po’ di tempo, ma non molto. Avevano brillato radiosi in una patetica città infiammabile sommersa dai rifiuti della sua stessa, triste festa. Lasciate andare, si potrebbe pensare, qualsiasi altro tipo di futuro. Lasciate andare. Lasciate andare. Lasciate andare.

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Titolo originale, What Remains to Be Seen, copyright @ Caryl Pagel, all rights reserved.
Traduzione di Chiara Messina.