di Janet Hong

Questo pezzo è apparso originariamente su The Margins (parte I e II) e su Brick numero 99, estate 2017 (parte III e IV)

I: Nascita

 

Respiro. Coltello. Immersione. Lattice. Pillola.

Queste le prime parole che hai biascicato, come se il mare avesse voluto segnarti, mettere in chiaro a chi appartenevi. Diciassette anni, non c’era bisogno di pillole per la malattia che infine ci prende tutte, non ancora. Né mai.

Eri come uno splendido, giovane pesce, la muta scintillante come squame, non avevi ancora testato i limiti dei tuoi polmoni. Una figlia del mare. Anche a noi veterane, ciò che eri appariva ovvio: predestinata.

Ora comprendo i rischi dell’usare un termine quale «predestinata». Ma all’epoca notavamo solo come muovevi le dita bramose lungo fessure frastagliate, il bagliore del tuo falcetto, il gioioso fischio sumbisori nel risalire in questo mondo.

Diffida dei colpi di fortuna! Un abalone insolitamente grosso, una pesca eccezionale, possono voler dire una cosa sola. Quel giorno è accaduto lo stesso con te. Avevi raccolto così tante alghe da fare invidia alle amiche.

Abbiamo aspettato e aspettato. Tutta la mia vita è trascorsa su quella costa rocciosa percorsa migliaia di volte, la stessa costa dove tu, da bimba, avevi dormito in una cesta, avida del latte dei miei seni, latte al gusto di mare salato, mentre io tremavo nel vento, i capelli e il mulot di cotone gocciolanti.

Quando l’ultima pescatrice era ormai risalita e non c’era ancora traccia di te, abbiamo lanciato i nostri corpi di nuovo in acqua. Abbiamo setacciato il fondale come pazze, per poi riemergere barcollando nell’oscurità. Il vento ci frustava per le nostre mani vuote.

Solo il mattino seguente sei tornata da noi, sulle stesse onde che avevano nutrito e vestito e cullato questa figlia ormai vecchia e tante altre prima di lei. È stato allora, mentre nuotavi nelle mie acque in quei nove mesi, che il mare ti ha voluta per sé?

Il  galleggiante arancione ti dondolava accanto, muto testimone del nostro tremendo dolore, mentre ti liberavamo braccia e gambe dalle alghe. Chi avrebbe immaginato che saresti tornata a galla nonostante il peso dei piombini? Chi avrebbe immaginato di doverti cercare in questo altro mondo?

Il sole del mattino invernale illuminava il tuo corpo immobile, e sei andata in fiamme, come un qualche uccello mistico, rinato dalle ceneri.

 

 

II: Danza

 

Ci immergevamo reggendo le bare sulle spalle. Vedevamo le nostre sorelle annegare. Arrancavamo nel mondo immerso e facevamo ritorno a questo con riso, alcol per i nostri mariti, e penne e quaderni per i nostri figli. Offrivamo in sacrificio la nostra giovinezza.

Il giorno della tua nascita ti ho guardato e ho promesso: Niente vita da haenyeo per te.

Così ti facevo indossare gonne e giacche eleganti, infilandoti ai piedi tacchi invece che pinne, ti strofinavo via l’odore di acqua salmastra dai capelli e dalle dita, cancellavo ogni traccia di dialetto dalla tua parlata.

E ora, lontana nella tua torre di vetro, mi parli dei rischi. Mi dici che devo smettere, che devo considerare la mia età.

Figlia mia, prima o poi i capelli bianchi vengono a tutte. Ma non sono sorpresa. Per tutta la vita ti ho insegnato a temere questi abissi. Perciò non ti chiedo: Se non andiamo noi, chi lo farà? Chi conosce il mare come noi? Chi ammansirà le sue onde maestose, rasserenerà il suo umore incostante?

Anche se negheresti, so che sogni ancora l’acqua, la sua consistenza sulla pelle, a volte morbida come tofu e a volte inchiostrata di rabbia. So che senti ancora il sumbisori, il fischio che trafigge i tuoi sogni, indimenticabile come il sapore del riccio di mare, gustato direttamente dal guscio spinoso con un cucchiaio.

Sulla superficie dell’acqua sento salire il coro di fischi, come quell’antico canto di sirena. È tutto ciò che conosco. È tutto ciò che ho. Mi tiro il cappuccio sui capelli bianchi e sistemo la maschera. Entro in acqua. Sono di nuovo giovane.

 

 

III: Respiro

 

Non avere paura.

Una haenyeo non ha paura delle onde.

Possono esserci tuoni e fulmini. Possono esserci meduse velenose, squali che nuotano in cerchio sopra di te. Possono esserci anguille. Spiriti che osservano ogni tua mossa, vestiti abbandonati al tuo inseguimento.

Accetta il fiato che ti è concesso – è lui che determina quanto in profondità e quanto lontano puoi spingerti. Rispetta i limiti dei tuoi polmoni: niente di più, niente di meno. Questo non puoi cambiarlo.

Devi dominare i tuoi occhi, poiché essi sono avidità. E non ingerire mai il respiro del mare. È il respiro che non possiamo ingerire, il respiro che dobbiamo lasciar andare.

Ci saranno mal di testa e problemi alla schiena. Ci saranno voci ad attrarti dove le acque sono sempre tiepide, dove abbondano molluschi e ricci di mare. Ci saranno abaloni, grossi come la tua mano, che noterai solo mentre risali a prendere fiato.

Qualunque cosa tu faccia, non fermarti. Trenta secondi possono fare la differenza fra vita e morte. Ma ti prometto questo: il cielo quando riemergi dall’acqua – mai avrai visione più bella. È per quello che tutte noi ci immergiamo, per quel frammento di cielo.

Raccogli solo quanto il fiato ti consente. Prendi ciò che puoi portare con le tue mani. Prega per la salvezza. Lascia le acque poco profonde alle nostre madri; un giorno, quando sarai vecchia e rugosa, sarai tu ad averne bisogno.

Questo è ciò che so: Se sei dominata dal desiderio, il mare sarà la tua tomba. Ma se sei tu a dominare il desiderio, il mare ti darà la vita. Scegli la vita.

 

 

IV: Guardiana

 

Sei il prezzo del nostro sangue, del nostro latte, del nostro midollo, del nostro dolore, delle nostre lacrime.

Per te resisteremmo alla fame, ci lanceremmo da un motoscafo, resteremmo sospese a venti metri di profondità in acque più gelide della Siberia, tratterremmo il fiato testandone i limiti – due minuti, cinque, persino dieci. Lotteremmo con squali e piovre e venti impetuosi, scenderemmo agli inferi e ritorno. Offriremmo noi stesse mille volte ancora, e se non fosse abbastanza, allora anche le nostre nonne e madri e sorelle e figlie. Qualunque cosa per te, nostra perla preziosa, nostro luminoso, precario seme.

Il nostro futuro è incerto. Si parla di declino ed estinzione, la fine di tutto quanto è conosciuto. I nostri uomini se ne sono andati, e anche i nostri figli. E il mare – il nostro parco giochi, il nostro prato, la nostra casa! – sta diventando bianco. Non ci sono alghe. Non ci sono molluschi, né abaloni. Solo bottiglie di plastica, polistirolo e fondi di sigaretta, alla deriva come ricordi. Come fantasmi. Eppure, facciamo lo sforzo di immergerci. Risalite in superficie, siamo vecchie.

Non farti ingannare da questi fragili gusci. Non farti ingannare dalle nostre schiene a pezzi e dai fianchi a pezzi e dalle giunture a pezzi. Non dubitare della forza di queste ossa, calcificate da secoli di fatica e sofferenza.

La verità è che, a parte questo, non abbiamo niente. Abbiamo dato tutto, con trepidazione, con devozione, dolore, amore. Le lacrime della nostra antenata sono diventate il mare; c’è ancora l’eco della sua presenza. Poiché lei è là, senza peso, nelle profondità marine, nella sua muta di cotone leggero, un pesce fermo di colpo come congelato, una donna tramutata in sirena, in nereide, nell’attesa di essere trovata.

Vaghi silenziosa nelle nostre acque, mentre fuori il mondo è in guerra. Possiamo solo sperare che il mare sarà qui quando finalmente ti sveglierai, che questa madre, questo marito, questo amante, questo dio sarà ancora qui, con le braccia spalancate per te.

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Titolo originale, Sea Mothers, copyright @ Janet Hong, all rights reserved.
Traduzione di Margherita Orsi.