di Rebecca Fishow

Questo pezzo è apparso originariamente su Hobart il 12 giugno 2020

 

Uno.

Lei disse: nella mia casa voglio sentirmi a casa. Voglio sentirmi come se fossi avvolta in una coperta, come se le pareti mi pompassero il nutrimento direttamente nelle viscere. Annaffio le piante, tutte e sette, o otto, alcune delle quali stanno morendo. Do da mangiare al gatto. Voglio che l’aria sia umida, perché l’umidità è vita. Quanti insetti vivono qui? Quanti organismi viventi? Quante cose non vedo. Sai, un tempo ero capace di amare così tanto. Vuoi entrare? Nella mia casa vorrei invitare tutti a bere il loro drink preferito e parlare fino a notte fonda mentre va la musica. Entra. Non lo dico come se ti stessi pregando. Non voglio ricordare più. Ho chiuso con i ricordi. Potrei passare un anno intero a dipingere lo stesso quadro, a mischiare tutte le colpe. Potrei spostarmi su una faglia e fare il gioco che sto già facendo: potrebbe accadere qualunque cosa in un qualunque attimo del tempo, ammesso, certo, che il tempo esista. Guardo dieci bambini ingoiati da una faglia, o no? Guardo una luna implodere. Ecco, sto confondendo ciò che accade con ciò che potrebbe accadere. Ciò che è possibile con ciò che è possibile nella mia mente. Guardo un gruppo di angeli che giocano a far finta. Capisci? Li vedi anche tu? Due angeli ora respirano sott’acqua. In questo istante i loro genitori non sono invecchiati mai. Solo per questo istante la loro casa è illuminata come un albero di Natale appassito, nulla all’infuori di un bel calore. Una volta ho detto a un uomo che tutto ciò che volevo era stare al caldo. Disse che lo sapeva. Nella mia casa voglio strapparmi via la faccia, spiaccicarla contro il soffitto e dire: «Ora non ho una faccia. Sono felice». Guarda la tua gabbia toracica… ti contiene del tutto? Dove finisce, dove finisce la tua casa? Guarda, parlo da questo lato cercando di raggiungere l’altro, ma poi non sono neanche sicura che due lati ci siano. Hai aperto le finestre di recente? Hai tolto la polvere e le mosche morte dal davanzale? E l’ape? Hai sentito i vicini? Quelli nuovi, non il tossico che se ne è andato. Niente più poliziotti, niente più scuse supplichevoli. Io non sono affar tuo, ma se verrai aprirò le finestre per te. Ti farò sedere. Ti dirigerò la brezza sulla pelle. Non dirò una parola su… be’, tutto quanto. Ti lascerò chiudere la finestra se avrai freddo. Metterò via la sedia a dondolo e seppellirò il mio cavallo morto.

 

Due.

  1. Non ho mai conosciuto mia madre.
  1. È morta quando mi hanno tagliata via da lei.
  1. Aveva trentacinque anni meno di mio padre.
  1. Era castana, come me, ma aveva gli occhi azzurri, che sono i più rari. L’allele è sempre recessivo.
  1. Nel suo diario ha scritto che il bisnonno era scappato in America dalla Sicilia a bordo dell’RMS Carpathia. Era solo un ragazzino che sfuggiva a una morte per mano di Cosa Nostra, con dodici dollari cuciti nella fodera della giacca.
  1. Tengo il suo diario nel cassetto delle calze, vicino ai preservativi e agli spiccioli.
  1. Una volta mi è sembrato di vedere il fantasma di mia madre che sciacquava i piatti nel lavandino della cucina, mentre io e mio padre guardavamo una partita dei Dodgers.
  1. Lui diceva che mia madre non ci stava con la testa. Diceva che era chiassosa, opprimente e pigra. Diceva che, se fosse sopravvissuta lei, la relazione non sarebbe durata.
  1. Nel suo diario tracciava piccoli disegni di quel che vedeva: uccellini, una muffola smarrita, una matita, una lampada.
  1. Quando avrò un bambino non taglierò via nulla. Cucirò tutti i nostri fantasmi nelle fodere delle nostre tasche.

 

Tre.

So che tutto questo non suonerà bene, ma giuro che non è così terribile. Un tempo ero molto malata, vicina alla morte. Senza scendere nei dettagli, dirò che dipendeva tanto da me quanto dalla genetica; tanto dalla genetica quanto dal fatto che le persone nella mia vita non erano in grado di vincere la loro paura e aiutarmi nel momento del bisogno. Non glielo rimprovero oggi, ma la maggior parte della gente non ha idea di come affrontare il dolore degli altri.

Stavo per toccare il fondo. Era come diceva Hemingway a proposito della bancarotta: accade gradualmente e poi all’improvviso. Mentre mi avvicinavo al fondo, vomitavo costantemente in bagno, al lavoro. La mia macchina era un cazzo di casino. C’erano fazzoletti umidi, a volte sporchi di sangue, sparsi in giro. Bottiglie e cartacce. Macchie e sbavature. Poi mi sono presa una polmonite, sono svenuta e cadendo ho battuto la tempia sullo spigolo della cassettiera. Mentre accadeva, lentamente e poi all’improvviso, mi nascondevo in camera lontano dai miei coinquilini. Mantenevo alti i miei voti, perché pensavo che se fossi riuscita a fare bene una cosa forse avrei ingannato il mondo. Dimenticavo di lavarmi. Tradivo la ragazza con cui avevo una storia a distanza con una sconosciuta, perché sapevo la verità: non avrebbe mai potuto amare qualcuno come la vera me.

Alcune persone con i miei stessi problemi finiscono davvero per morire. Ne ho conosciute un paio. Mi considero fortunata per aver visitato l’oltretomba solo per un po’, per aver toccato il fondo ed essere strisciata di nuovo fuori.

Un inverno andai nel New Hampshire. Non sono neanche venti chilometri di costa, ma è splendido – freddo e limpido, e per lo più deserto. Non importava quanti strati di cappotti e calzamaglie indossassi o quanto fosse caldo il mio berretto; il vento ci passava attraverso. I chioschi di aragoste erano sbarrati con assi di legno e sui palchi non c’era nessuna banda. Le onde si infrangevano sugli scogli ancora e ancora, e le alghe gelavano coperte di brina. La cosa buffa è che quando hai bisogno di passare del tempo per conto tuo, di stare in un luogo dove puoi essere nuda, come un feto, non sei mai davvero sola. I surfisti saltavano fuori sempre e comunque, così come i gabbiani urlanti che beccavano le conchiglie. E le stelle.

Una notte mi spogliai e corsi nuda sulla la spiaggia coperta di neve. Mi tuffai dritto nella gelida acqua salata. Rimasi lì, aspettando che il freddo mi colpisse, per sentire di nuovo. Rabbrividii e guardai fisso attraverso il mare che si estendeva nero e imponente fino all’Europa, poi mi voltai indietro a guardare la spiaggia. C’era una donna. I suoi capelli sembravano arruffati e intrecciati in dei rasta. Il corpo, come senza forma, era coperto di stracci. Con la mano faceva oscillare un metal detector come un metronomo… avanti e indietro… avanti e indietro… avanti e indietro… avanti e indietro. Sentii il mio cuore gonfiarsi, non c’è altro modo per dirlo, e continuò a farlo finché non sentii il bisogno di muovermi e quasi non riuscii a respirare. Ricordai allora che quello era il sentimento che fin dall’inizio mi aveva fatto barcollare verso l’oltretomba, verso il fondo. Immagino di essere una bugiarda, ed è davvero terribile. Troppo amore, e nessun luogo in cui riporlo. Troppo amore perché non possa andare sprecato. Troppo amore in un mondo come questo.

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Titolo originale, Three Women I Almost Loved, copyright @ Rebecca Fishow, all rights reserved.
Traduzione di Ginevra Paparoni.