Questo pezzo è apparso originariamente su Brick n. 101, estate 2018

 

Finiti i suoi soliti giri col taxi, Gregory doveva venire a prenderci a quel ristorante su King Street. L’ho visto arrivare all’angolo e, dal lampo veloce delle luci di retromarcia della sua berlina blu sul lato della strada, ho capito che voleva parcheggiare e così mi sono girato di nuovo verso Andi, che ha annuito, e abbiamo finito di berci le nostre birre. Gregory sapeva dove lo stavamo aspettando. Non era la prima volta che ci diceva di aspettarlo da qualche parte e poi non si presentava, ma comunque eravamo lì, io e Andi, per niente infastiditi da quei venti minuti che erano passati da quando lo avevamo visto parcheggiare ad adesso che avevamo iniziato a discutere di Sara. Eravamo consumatori abituali di infelicità. Il fatto che se ne producesse ci lasciava indifferenti. L’ultima volta che Gregory ci aveva fatto aspettare, al Distillery District, discutevamo di una cosa letta sul giornale, a proposito del femminismo e della malvagità, una di quelle cose tutta forma e niente sostanza. Avevamo mangiato tapas e bevuto roba forte, e avevamo perso la cognizione del tempo. Il massimo dello sforzo fatto, esserci preparati per le persone con cui saremmo usciti quella sera. Quindi, sul momento, non ci siamo preoccupati più di tanto del fatto che Gregory ci avesse dato buca per l’ennesima volta, abbiamo preso un taxi e non ci siamo detti granché per tutto il tragitto fino a casa di Sara.

La scorsa notte su King Street penso di averlo visto con la coda dell’occhio, di sfuggita, che usciva dalla macchina. La portiera del conducente dondolava come se fosse posseduta. Vorrei tanto, adesso, aver lasciato a quel tavolo sia Andi che la nostra discussione, per andare da lui. L’avrei salutato e gli avrei chiesto del pazzo dondolio di quello sportello. Chiunque conosca Gregory sa quanto si arrabbi con chi lascia aperte le portiere della sua macchina o le sbatte così forte da farle lamentare. Adesso vorrei tanto che, se anche Gregory non mi avesse sentito arrivare mentre si rimetteva al posto di guida, chiudendo delicatamente lo sportello, avesse almeno potuto avvertire, andandosene, una misteriosa presenza familiare. L’avrei visto ridere nello specchietto retrovisore. Avrei visto sul sedile del passeggero qualcuno di cui probabilmente non sarei riuscito a distinguere le fattezze, neanche sforzandomi. E, mentre la macchina avanzava nel traffico, sarei stato in grado di dire qualcosa sulla mano di quel passeggero, piena di anelli, elegante, che non la smetteva di muoversi. Forse avrei visto qualcos’altro, prima di perderli di vista.

Tutto questo, chissà come, si è trasformato poi in un verbale di polizia.  

Gregory, un uomo energico, a detta di chi lo conosceva, era stato costretto al rigore dallo scenario quasi dimenticato della sua vita precedente. Aveva lasciato la famiglia su qualche isola ad aspettare che lui accumulasse, nelle arterie della metropoli, tante cose che in numeri valgono meno di zero. Veniva da quello che molta gente considera il nulla. La dura vita delle piantagioni, ora solo un ricordo, degli ormai mitici Caraibi. Diceva spesso che Sara era la parte più umana della sua vita e iniziava a desiderare il suo calore molto prima di poter staccare dal lavoro alle ore più assurde. Ma concedetemi dei piccoli spazi di abbandono. Siamo così simili, io e Gregory. Ci assomigliamo addirittura. Potremmo essere fratelli, anche se il comune denominatore tra noi è che amiamo la stessa donna. E ora lui è così irraggiungibile e distante dal mio presente quanto un’era dimenticata in cui le monete d’oro erano considerate valuta corrente.

Quella sera, prima del ristorante su King Street, io e Andi ci eravamo presi un whisky da me e poi avevamo chiamato Gregory per decidere cosa fare quando avesse staccato. Il tassista che ci era venuto a prendere per portarci al ristorante aveva le labbra screpolate e sempre sorridenti di chi ha fin troppa familiarità con l’aria molto, molto fredda.

«King Street,» aveva detto Andi, mentre mandava messaggi a tutto spiano col telefono. Il tassista si era limitato a un cenno della testa, aveva alzato il volume su Venus di Coltrane ed era partito. 

«Ovunque lei desideri,» avrebbe risposto Gregory. Ma noi Gregory non lo vedevamo dal fine settimana precedente a casa di Sara – non da Gregory, il rifugiato mezzo clandestino che non poteva permettersi una sistemazione tutta sua – e Andi si è messa a scherzare sugli effetti dell’odioso sax di Coltrane, dandoci lo spunto per pensare a come avremmo detto a Gregory dell’ennesima gravidanza fallita di Sara e del perché avrei fatto io il lavoro, se lui non avesse potuto. Sapevamo essere degli insensibili, indolenti figli di puttana ma per una volta non era questo il caso. Per Gregory farei cose che non farei per nessun altro. Avrei avuto un figlio che non volevo, se solo fosse servito a curare il tormento di quella che lui considerava la sua virilità mancata. Pur sapendo che non si sarebbe mai lasciato convincere ad accettare un simile aiuto da me, ero anche disposto a inventarmi quel tipo di futuro.

Ce ne siamo andati da quel primo ristorante verso le undici e abbiamo deciso di percorre qualche isolato verso sud nell’aria a tratti densa della città. Dato che c’eravamo, abbiamo pensato di andare a farci un paio di cocktail tropicali in quel ristorante aperto tutta la notte, il segreto meglio custodito della città, di proprietà di due gay bajan. Per sicurezza ho chiamato Gregory al cellulare, giusto per dirgli che avevamo deciso di spostarci. Non mi ha risposto così abbiamo preso un altro taxi. Qualche chilometro dopo, all’angolo fra Adelaide e Spadina, abbiamo visto un ragazzo vestito come un modello di Vogue in abito nero d’alta classe e Doc Martens bianche, con una borsa di pelle a tracolla stretta sotto il braccio destro, pericolosamente vicino al margine della corsia di traffico in cui il nostro taxi è improvvisamente entrato e si è fermato. Il tassista ha lanciato fuori dal finestrino del passeggero un piccolo pacchetto marrone che è atterrato ai piedi del ragazzo. Poi ha dato un’occhiata rapida allo specchietto retrovisore come per accertarsi che avessimo registrato quanto appena accaduto e sapessimo che non erano affari nostri. Aveva quell’aria da vicino di casa che ribadisce il proprio status lasciando la porta di casa sempre aperta a qualsiasi ora del giorno o della notte. Il genere d’uomo che sapevi di dover lasciare stare.

«Voi due avete spirito d’avventura, no?» ha detto il tassista senza il benché minimo accenno di preoccupazione nella voce, mentre si immetteva di nuovo nel traffico.

«Anche troppo» ha risposto Andi.

«Se non fa male, non ci interessa» ho aggiunto io. 

Il tassista ha annuito e ha abbassato il volume dell’autoradio.

Poi ha chiesto: «Non per cambiare discorso così all’improvviso ma, ragazzi, avete sentito cos’è successo?».

«Cos’è successo?» ha chiesto Andi.

«Un tassista del sud. Certi criminali di poliziotti lo hanno ridotto male. Adesso è al St. Joseph Hospital che lotta per uno straccio di vita. Pare che non avesse documenti addosso. Quando è successo era fuori servizio, dicono. La luce sul tettuccio era spenta».

«Del sud?» ho chiesto.

«Southside. Jamestown. Ma quello che mi manda fuori di testa è che quei criminali che l’hanno massacrato portano dei distintivi che trasformano la più semplice delle cose che hanno in mano in un’arma».

«Chi è il tassista? Come si chiama?» ha chiesto Andi con la voce rotta dall’impazienza.

«Credo sia di Antigua o Tortola, o giù di lì».

Io e Andi ci siamo guardati. Entrambi avvertivamo nell’aria il peso dell’assenza di Gregory. Mentre il tassista continuava con la sua litania di obiezioni giudiziarie, ci è tornata in mente l’insolita risata con cui ci aveva sorpreso l’ultima volta che lo avevamo visto.

Andi ha chiamato Sara al cellulare e non ha risposto. Poi ha provato a chiamarla al telefono di casa, niente. Allora ha provato al lavoro e alla fine le ha lasciato un messaggio confuso sulla segreteria telefonica. Il tassista non sembrava affatto preoccupato di moderare i toni vista la nostra agitazione.

«Comunque. Dicono che questi poliziotti che lo hanno steso come… avete presente quelle cose che si vedono sui documentari di Planet Earth? Gatto selvatico contro gatto domestico. Sul verbale hanno scritto “immigrato”, e ogni sillaba nascondeva un’accusa, come immaginerete. Noi tassisti siamo tutti fratelli. Parliamo, amico, parliamo sempre. Non abbiamo segreti».

«Sì, sì, certo» ho detto, attingendo calma da un luogo immaginario. Ho chiuso gli occhi. Ho fatto un respiro profondo. Mi sono detto che quello che avevo capito non era una novità.

«Che lavoro faceva prima di guidare il taxi?» ha chiesto Andi al tassista. Sono sicuro che volesse cambiare argomento a tutti i costi perché percepiva la mia paura. È sempre stata più brava di me a reagire.

«Due lauree in scienze politiche non mi hanno portato da nessuna parte,» ha risposto il tassista. «Comunque. Prendete un uomo per bene. Io lo conosco, sapete? Lo conosco quel tassista» ha detto. «Un brav’uomo insomma ma, qualunque cosa crediate che sia, gli date solo una ragione in più per pensare alla vita come a una maestra indifferente, capite?»

«Certo» ho detto ancora.

«E volete sapere cosa so?» ha aggiunto il tassista, la voce gelida, profonda. 

«Cosa pensa di sapere?» ho chiesto.

«Allora. Ascoltatemi bene. Una donna ha chiamato la polizia perché un tassista la stava molestando. Sosteneva che, siccome si era rifiutata di farsi mettere una mano sulla coscia, lui aveva cominciato a premere tutti i pulsanti della macchina».
«Senta» ha detto Andi. «Può portarci da un’altra parte?».

Il tassista ha fatto cenno di sì e Andi gli ha detto la nostra nuova destinazione. Avevo sete. Solo sete. 

Abbiamo girato all’angolo vicino a Lincoln Street nello stesso istante in cui il sole sorgendo arrugginiva il panorama. Ho lanciato al tassista qualche soldo e mi sono catapultato fuori dall’auto, sbattendo la portiera. Alle sei e cinquanta del mattino ho chiamato Gregory al telefono. Ha squillato fino a quando è scattata la segreteria. E ho continuato a chiamarlo a intervalli di pochi minuti, ogni volta fino a quando lo squillo non veniva interrotto dalla segreteria. Mi sono diretto alla stazione di polizia invece che al St. Joseph, dove è andata Andi. Sono famoso per aver già messo da parte il buonsenso in passato. Sono rimasto per un bel po’ nella sala d’attesa, con la bocca secca, prima che qualcuno mi prestasse la minima attenzione. Andi avrebbe dovuto chiamarmi non appena fosse arrivata a casa di Sara per controllare se era lì, prima di andare in ospedale. Avrebbe sedotto il portiere come aveva già fatto tante volte e lui l’avrebbe lasciata entrare. Non mi ha chiamato in quell’ora che mi ci è voluta per riuscire finalmente a parlare con uno dei poliziotti. 

«Rilasciato» ha detto l’agente.

«Rilasciato?» Volevo essere sicuro di aver capito bene. 

«Voleva sapere che ne è stato del suo amico, giusto?»

«Sì» ho risposto.

«Ecco, e io le ho già detto che dovrebbe andare in ospedale perché ci vorrà un po’ prima che esca. Non posso dirle nulla sulle indagini in corso».

«Può dirmi almeno il nome?»

«Lei ha fornito una descrizione del sospetto e io le ho detto che non posso parlare delle indagini in corso».

«Ma di cosa è sospettato?» ho chiesto ancora, temendo di non essere stato chiaro la prima volta. Avrei dovuto sapere che non potevo aspettarmi di più.

«Senta, si sieda. Non sono io che lavoro al caso. Non c’è nulla che possa aggiungere. Sospetto solo che farebbe meglio ad andare dal suo amico».

Sono uscito nel gelo di un ottobre eccezionalmente rigido. Ogni respiro era una lama che mi si conficcava in gola. Al St. Joseph Hospital ho fatto fatica a riconoscere quell’uomo che tanto mi assomiglia. Gregory era attaccato a ogni tipo di tubi e macchine. Mi sono chiesto se non fosse questo il destino di ogni corpo umano, se questa non fosse l’unica via per una speranza di poco conto, ogni corpo umano violato nel profondo che chiede di evolversi in una macchina, sprezzante di qualsiasi sensazione.

Andi e Sara erano nel corridoio che sbirciavano l’unità di terapia intensiva. Sara non riusciva a stare ferma. L’immobilità non era il suo forte. Mi sono avvicinato a lei e l’ho abbracciata. Non ha ricambiato, ma si è piegata verso Andi come farebbe una bambina verso un genitore. Ho desiderato che Gregory alzasse lo sguardo e di poter dare un significato nuovo all’espressione di quegli occhi a malapena visibili in mezzo al tessuto tumefatto che li circonda. Avrebbe protestato vedendo che provavo a prendermi la sua donna, e io l’avrei lasciata andare. Ci saremmo prestati a vicenda la massima attenzione; si sarebbe messo a sedere, si sarebbe staccato i tubi di dosso e sarebbe uscito dalla terapia intensiva, un uomo nuovo.

«Cos’è successo Sara? Sai qualcosa?» ho chiesto.

«L’ho aspettato per una trentina di minuti» ha cominciato a dire Sara. «Doveva lasciarmi a casa prima di venire da voi su King Street. Ero nervosa e avevo fretta di tornare a casa così stavo all’erta per vedere se arrivava. Mi sono seduta su quella sedia di plastica dura a guardare fuori dalla finestra e ho pensato che due taxi che si sono fermati in due momenti diversi fossero lui e invece no. A un certo punto qualcuno deve aver chiamato la polizia. Con quel pensiero in testa e la rabbia, stavo leggendo un articolo sul telefono quando le sirene hanno iniziato a gridare al pericolo, e allora ho alzato gli occhi e le ho viste quelle luci maledette che già lampeggiavano sul ciglio della strada. Non so dire quanto tempo sia passato. Ovviamente sono uscita fuori. Ovviamente mi sono messa a strillare ai poliziotti di smetterla prima ancora di riuscire a vedere chi stavano picchiando. Parlavano di resistenza a pubblico ufficiale e mettevano sotto G come se fosse un gioco. In momenti come quelli, lo sapete no?, uno vuole dare un senso a cose che un senso non ce l’hanno».

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Titolo originale, No ID or We Could Be Brothers, copyright @Canisia Lubrin, all rights reserved
Traduzione di Eleonora Antonini