Quest’intervista di Francesca Pellas è apparsa originariamente su Words Without Borders.
Fred McMorrow, copy editor di Nora Ephron al New York Post, diceva che un pezzo non dovrebbe mai iniziare con una citazione, e io tento di vivere seguendo quella regola. In alcuni casi – come questo – è molto difficile: sono troppe le cose che John Freeman ha già scritto, o già detto, che sarebbero perfette per introdurre la nostra conversazione. «Ben poco di interessante accade al mondo senza rischio, movimento e stupore» è una. Un’altra potrebbe essere: «E se ti capita l’occasione di andare in un posto nuovo, fidati, accetta».
Qual è la traiettoria che ci porta alla meraviglia? Quali porte e quali confini dobbiamo attraversare? Quante vite possiamo contenere, e quante ne possiamo toccare?
La prima parola-chiave (e la prima porta) è: madre. La seconda, mappa. Venendo al mondo ci ritroviamo in una storia già cominciata, che si dipana da prima di noi, che continua a farlo dopo di noi, e che mentre esistiamo esiste a sua volta in milioni di altre versioni. Una mappa piena di luci. Noi siamo le luci su quella mappa: non possiamo scegliere dove accenderci, ma se siamo fortunati possiamo decidere dove andare.
La storia del mondo è fatta di migrazione e movimento. Migrano gli uomini e migrano le parole. C’è una cosa, però, che un grande scrittore è capace di fare – non importa dove è nato, in che lingua scrive, quali confini reali o immaginari ha attraversato, o se si sia davvero spostato: in ogni sua pagina troveremo qualcosa di potente che non sappiamo da dove viene. Qualcosa che parlerà alla nostra cartografia interiore: alle città invisibili che ci vivono dentro, a ciò che abbiamo lasciato in altre parti di mondo, al dolore, alla paura, alle ferite, alla gioia, all’amore che abbiamo dato e a quello che avremmo potuto dare, a ciò che ci ha aperti e consumati, rovinati oppure salvati, alle vite che non abbiamo vissuto e alla speranza che tutto quanto abbia un senso. Questo fa la letteratura: ci parla dal centro della terra.
John Freeman, critico letterario, editor e poeta, nonché ex presidente del National Books Critics Circle ed ex direttore di Granta, due anni fa ha fondato la sua rivista, Freeman’s, che dal settembre del 2015 a oggi è diventata un punto di riferimento tra i magazine letterari, e ha ospitato contributi di autori come Haruki Murakami, Colum McCann, Herta Müller, Patrick Modiano e Aleksandar Hemon, dato spazio a giovani talenti come Ocean Vuong ed Édouard Louis, e tenuto a battesimo esordienti come Elaine Castillo, pubblicata su Freeman’s mesi prima che il suo romanzo d’esordio, America Is Not The Heart, venisse salutato negli USA come un successo annunciato. In un caso, ha fatto anche di più: Dimmi come va a finire. Un libro in quaranta domande di Valeria Luiselli è nato infatti come short essay commissionato per la rivista, e si è poi sviluppato fino a diventare un libro. Sono ormai famose anche le introduzioni che Freeman scrive per ogni numero, benedette dalla sua scrittura chiara e bella: pezzi di letteratura tanto quanto lo sono quelli contenuti nel magazine.
Ma Freeman, che è una specie di creatura mitologica nata da un incrocio tra Jon Bon Jovi, una sorella Brontë e Albus Silente, non si ferma mai: lo scorso settembre, nel giro di pochi giorni, sono uscite la sua prima raccolta di poesie, il secondo volume di un’antologia sull’ineguaglianza che ha curato come editor, e il quarto numero di Freeman’s, dedicato al futuro della scrittura: ventinove voci da tutto il mondo, senza distinzioni di nazionalità, età, o genere letterario.
Un pomeriggio io e John Freeman ci siamo seduti su un molo di Manhattan, e abbiamo parlato a lungo di libri, confini, traduzione, di scrittori che non si trovano nella foresta e di antiche leggende irlandesi, del sesso in letteratura, della luce dell’Ovest americano, dei primi mattoni di New York, di com’è incontrare Dio in Svezia, e di che cosa significa veder morire una madre e andare a riprendere dentro di sé un linguaggio che si credeva perduto per sempre e che invece stava lì, in attesa di poterci salvare.
Francesca Pellas: Quando parliamo della nostra lingua usiamo l’espressione «lingua madre». Vorrei perciò chiederti in che modo, secondo te, una lingua può essere anche una madre.
John Freeman: Madri e padri ci mettono al mondo: ci danno la vita, e le parole per le cose. «Questo è il caffè, questo è il cane». Perciò, mentre viviamo un rapporto intimo e si spera amorevole con le persone che ci hanno dato il mondo, abbiamo, a darci il mondo, anche una madre invisibile: la nostra lingua. La differenza è che quest’ultima fa da madre a molte altre persone. Eppure, allo stesso tempo, è caratteristica della nostra famiglia, del posto in cui siamo nati, delle storie che sono state raccontate ai nostri genitori da piccoli, dei libri che abbiamo letto quando eravamo piccoli noi, dei segnali stradali nella via dove siamo cresciuti. Anche se la mia lingua madre è l’inglese, e la condivido con più di un miliardo di persone in tutto il mondo, la mia vera lingua madre viene dall’Ohio e dalla California, da un genitore californiano e da uno nato in Pennsylvania, entrambi credenti e allevati a loro volta da genitori sopravvissuti alla Grande Depressione: ciascuna di queste cose è filtrata nella mia personale versione di lingua madre. Da bambini impariamo a impossessarci del mondo attraverso il linguaggio, ma non sappiamo i nomi di ogni cosa, e questo è un bene: siamo immersi nel qui e ora. Crescendo invece impariamo a dare un nome a tutto, e diventa più difficile dimenticare, immaginare. C’è tuttavia una particolare magia che gli scrittori sono capaci di compiere usando la lingua con la quale sono cresciuti: sanno incanalarla in questa sorta di super-madre che noi possiamo leggere e che ci fa dimenticare quello che conosciamo, permettendoci di immaginare qualcosa di nuovo.
FP: A proposito di storie, genitori e inizi: parliamo un po’ della tua vita prima che cominciasse? I tuoi genitori si sono incontrati a Cleveland, in Ohio, dove poi sei nato tu. Come si sono conosciuti, e come si sono innamorati?
JF: È una bella domanda, e una volta sapevo la risposta! (Ride). Quello che ricordo è che sia mia madre sia mio padre – entrambi assistenti sociali – lavoravano nella welfare league della contea. Entrambi avevano frequentato la Case Western University (ateneo di Cleveland, ndr), ma all’epoca non si erano incontrati. Nessuno dei due, tra l’altro, era originario di Cleveland: mia madre era nata a Philadelphia e cresciuta nello stato di New York, e mio padre era nato a Sacramento, in California, dove poi sono cresciuto anch’io. Se non ricordo male si sono conosciuti nel 1969, cinque anni prima della mia nascita. Ed è incredibile quante cose sono dovute succedere perché questo incontro potesse avvenire. Mio padre era andato al college a Berkeley (California) e poi era entrato in seminario, ma l’aveva abbandonato quasi subito. Per un periodo aveva lavorato come guardia carceraria, dopodiché si era trasferito a St. Louis per un altro lavoro. E, come ho scoperto quand’ero ormai ragazzino, prima di conoscere mia madre era già stato sposato. Perciò sono dovute accadere parecchie cose, persino qualche fallimento, per arrivare al momento in cui si sono incontrati. E questo è solo il pezzo di storia che riguarda mio padre! Non è curioso che spesso siano proprio gli scrittori – come Paul Auster, che è ossessionato dal caso – a ricordarci quanto le nostre vite dipendano appunto dal caso?
FP: «Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla era reale tranne il caso»: è la seconda frase di Città di vetro. Auster lo dichiara subito.
JF: Pensiamo di avere il controllo sulle nostre vite, ma spesso ci limitiamo a reagire agli eventi, agli «incidenti», sia positivi sia negativi.
FP: Parlando di incidenti positivi… Hai detto che per scoprire scrittori stranieri ti basi molto sui consigli delle persone che incontri; e che, ovunque ti trovi, chiedi a scout letterari, agenti, editor, librai, alla gente che conosci ai festival e alle fiere: «Chi dovrei leggere?». E allora io chiedo a te: qual è la maniera più rocambolesca in cui hai scoperto un nuovo scrittore?
JF: Ottima domanda! Mi piacerebbe poter rispondere che mi stavo facendo largo nella giungla a colpi di machete, ma questo porterebbe a una serie di associazioni mentali orribili e colonialiste che preferisco evitare. (Ride). Una cosa da tenere a mente, soprattutto nel mondo anglofono che tende a dare più che a ricevere, è che non è poi così difficile scovare bravi scrittori in giro per il mondo: non sono nascosti sotto le montagne, non vivono su isole segrete. Non bisogna far altro che chiedere. Ci sono alcuni scrittori a cui sono legato in modo particolare, forse perché la prospettiva di imbattermi nel loro lavoro un tempo era improbabile. Sono cresciuto in un sobborgo di Sacramento, giocando a basket e guardando i film di Clint Eastwood. L’idea che un giorno mi sarei ritrovato in Cina, seduto a tavola con Mo Yan a mangiare anatra alla pechinese, per il me di allora era inconcepibile. La prima volta che sono uscito dagli Stati Uniti avevo venticinque anni! Sono stato fortunato, perché tante persone mi hanno permesso di raggiungere Paesi dove altrimenti non avrei avuto modo di andare, e di scoprire scrittori che non avrei avuto modo di scoprire.
FP: Per esempio?
JF: Quand’ero direttore di Granta il British Council mi ha mandato in Cina, appunto, per un’iniziativa cultural-diplomatica. In Cina ci sono molti bravi scrittori, ma in Occidente tendiamo a concentrarci, per ragioni in alcuni casi ovvie e in altri meno, su quelli in esilio, o che hanno lasciato il Paese e vivono altrove. Affrontare quel viaggio, e passare dieci giorni a conoscere autori e traduttori, e poi incontrare Mo Yan e avere l’occasione di pubblicarlo su Granta prima che vincesse il Nobel… be’, è stata un’esperienza eccezionale, perché lì mi sono reso conto che se non hai timore di chiedere, e sei abbastanza fortunato da ricevere aiuto, puoi arrivare agli scrittori che vogliono essere ascoltati e trovati. E sempre in quell’occasione ho conosciuto A Yi, per me uno degli autori più interessanti in questo momento, che solo ora inizia a essere tradotto. Per quanto ami il brivido che mi pervade quando scopro degli scrittori nuovi, però, è bene ribadire una cosa: non li sto «scoprendo»; esistevano già, esistevano da tanto. Nel caso di Mo Yan, da decenni, prima che arrivassi io: e almeno tre dei suoi libri erano già stati tradotti in lingua inglese da Arcade Press. Io, semplicemente, dirigevo Granta, che ha avuto il potere di accendere l’interesse verso il suo lavoro. Quando vado in un posto nuovo e conosco scrittori per me nuovi, non sto mettendo una bandiera di Freeman’s come fece il primo uomo sulla luna: quelle persone esistevano da ben prima che arrivassi, io sono soltanto qualcuno che ha a disposizione degli strumenti per «importare» in una cultura diversa qualcosa di ciò che quegli scrittori hanno fatto.
FP: In una bella intervista a quattro traduttrici donne, pubblicata su Words Without Borders (https://www.wordswithoutborders.org/dispatches/article/women-translating-women-an-interview-with-literary-translators), Bonnie Huie, che traduce dal cinese e dal giapponese, dice una cosa giusta e interessante: «Questo modo di guardare alla letteratura come se fosse una disciplina olimpica, in cui gli scrittori vengono visti come rappresentanti delle nazioni, fa sì che la letteratura sia ormai spesso percepita come un prodotto da esportazione, che esista per dare gloria a quello specifico Paese».
Poi però penso a una cosa meravigliosa che Colum McCann scrive nel breve saggio contenuto all’interno di Arrival, il primo numero di Freeman’s: «A voler bollire le nostre vite, l’unica cosa che non evaporerebbe sarebbe il nostro Paese di provenienza».
Sono vere entrambe le cose, no? Ma allora come coesistono queste due verità, nella tua missione di editor? Dici di sperare in una letteratura senza confini. Perciò vorrei chiederti: in che modo il luogo da cui veniamo è un elemento che ci arricchisce, e in che modo è un limite?
JF: Il punto è che siamo noi a vedere il pianeta come un insieme di nazioni: la natura intrinseca della letteratura non ha niente a che fare con tutto questo. Viviamo in un mondo in cui il movimento degli esseri umani è spesso un traffico che avviene attraverso i confini controllati dai vari Paesi. Eppure le nazioni sono concetti fittizi: «comunità immaginate», come le definì Benedict Anderson. Non c’era nessuna «italianità» o «svedesità», prima che quelle frazioni di terra emersa diventassero qualcos’altro. Le nazioni hanno continuamente bisogno di ridefinire se stesse, nel timore di quello che succederebbe se la gente smettesse di credere in loro. Per questo creano miti e leggende, regole e leggi. Tracciano i confini di ciò che non sono. Se cresci in un determinato Paese, condividi delle cose con altre persone che sono cresciute lì. Però, a rimanere dentro di noi, non è una bandiera: rimane veramente solo quello che i tuoi sensi percepiscono. Colum l’ha detto molto bene: gli scrittori, in sostanza, lavorano partendo dalle mappe sensoriali con cui sono cresciuti; ovvero dall’odore che aveva il mondo intorno a loro, dal suo sapore, dal suo aspetto. Tutto questo dà forma al tuo sentire in un modo che non puoi cancellare, non importa quanto te ne andrai lontano; e si amalgama anche con le storie che ti vengono raccontate mentre crescevi. Uno scrittore non cresce circondato dal vuoto: deve avere un DNA originario, e le sue origini contribuiscono a dargli forma. Per tutti questi motivi, è molto difficile che un autore si stacchi completamente dal luogo da cui proviene: ce l’ha dentro.
Al contempo, dare troppa importanza al luogo da cui proviene uno scrittore è limitante: un autore giapponese o spagnolo non scrive della «giapponesità», o dell’essere spagnolo; certo quell’elemento farà parte delle sue storie, ma ciò di cui scrive può essere il dolore, la perdita, la vergogna, l’amore, il corpo, tutte cose con cui possiamo relazionarci in quanto semplici esseri umani. Il bello di guardare al mondo attraverso gli scrittori che leggiamo, e non solo attraverso le persone che abbiamo intorno, è che ne traiamo una più ampia e diversificata mappa sensoriale. Dobbiamo solo trovare un equilibrio tra questi due elementi: la mappa sensoriale originaria, e il fatto che le persone siano cittadine di una nazione.
FP: Io all’università ho studiato Storia medievale e perciò impazzisco per cose magari noiose (no, secondo me bellissime) tipo… C’è una celebre leggenda irlandese – tecnicamente una echtra, un’avventura nell’aldilà – del VII secolo: il mito di Oisín. Racconta l’avventura di quest’uomo che compie un viaggio per mare in cui trova Tír na nÓg, la leggendaria isola di cui si narra nelle antiche tradizioni d’Irlanda: una terra dove regnano amore, bellezza, giovinezza eterna. Probabilmente l’Aldilà. Oisín si innamora della principessa Niamh (una fata), e finisce col trascorrere tre anni sull’isola insieme a lei. Ma gli manca casa sua, e a un certo punto la nostalgia è così forte che chiede a Niamh di lasciarlo tornare in Irlanda per un po’, giusto il tempo di rivederla. Lei gli dà un cavallo e lo avverte: per nessuna ragione al mondo deve scendere da cavallo e toccare terra. Oisín si mette in viaggio, e una volta arrivato a casa si rende conto che gli anni trascorsi non sono tre: sono trecento. Poco dopo, cercando di aiutare un uomo incontrato lungo la strada, cade da cavallo, e invecchia istantaneamente. Questa storia ha forti somiglianze con un’altra storia: la leggenda di Urashima Tarō, di cui si ha notizia in Giappone a partire dall’VIII secolo. Narra la vicenda di un pescatore che salva la vita a una tartaruga di mare, la quale, in segno di gratitudine, lo porta in un luogo incantato: un palazzo sottomarino. Qui Urashima incontra la principessa Otohime, e s’innamora. Trascorre tre anni nel palazzo insieme a lei, ma poi la nostalgia di casa non gli dà più pace. Otohime allora lo lascia andare, ma prima gli consegna una scatolina e gli raccomanda: non aprirla per nessuna ragione al mondo. Tornato in Giappone, Urashima si rende conto che sono trascorsi trecento anni. Sconvolto, apre la scatola: ne esce una piccola nuvola – la sua gioventù – che subito svanisce. Lui invecchia immediatamente.
Sono due storie di secoli fa, raccontate più o meno nello stesso periodo, in posti lontanissimi tra loro. Questo che cosa dice su noi esseri umani, sulle cose ancestrali e profondissime che abbiamo in comune? C’è qualcosa di più grande di noi che pulsa sotto la superficie? Per citare un’espressione che usi nell’introduzione a Freeman’s. Scrittori dal Futuro, una «vibrazione del necessario», qualcosa che tutti, in qualche modo, abbiamo bisogno di raccontare?
JF: Ti racconto un’altra storia. Quando Michelangelo stava lavorando alla Cappella Sistina, fu necessario che qualcuno andasse in Afghanistan a procurargli il color turchese, che voleva usare per alcuni dettagli. Questo ci fa capire una cosa molto importante: il mondo è sempre stato connesso, da ben prima dell’avvento di internet, grazie al commercio. Che si trattasse di caffè, o di tabacco, spezie, oro, seta, il mondo dipendeva da queste persone che andavano per mare; c’era una società globale formata da mercanti e marinai, che parlavano le lingue gli uni degli altri. E siccome all’epoca non c’erano Netflix, l’iPad, la possibilità di scaricare tutte le stagioni di The Walking Dead, gli uomini si scambiavano un’altra cosa, oltre a seta, oro e spezie: storie. Sicuramente giocavano a carte, bevevano, facevano un mucchio di cose, ma le storie erano e sono sempre state un modo per passare il tempo, in particolar modo quando si entrava in contatto con altri popoli. Perciò non mi sorprende affatto che in Giappone ci sia una storia quasi identica a un’altra narrata più o meno nello stesso periodo in Irlanda. Ci piace ritenerci animali moderni «oppressi» dall’interconnessione del mondo. Ma questa connessione in qualche modo esiste da sempre. E le storie sono sempre state raccontate: per accogliere un visitatore, per esempio, o per ringraziare chi ci accoglie. Ecco perché molte cominciano con un viaggiatore sconosciuto che arriva in una terra straniera e, per farsi benvolere, si mette a raccontare una storia (e questo è anche uno dei trucchi più antichi della narrazione: la storia dentro la storia). Scambiarsi racconti è un’abitudine vecchia come l’umanità.
FP: Un’altra cosa antica come l’umanità sono le mappe, fondamentali per mercanti e marinai tanto quanto le storie. Perché hai scelto il titolo Maps, mappe, per la tua raccolta di poesie? (Pubblicata negli USA da Copper Canyon, di prossima pubblicazione in Italia per La Nave di Teseo, nda).
D’accordo, Maps è il titolo di una poesia contenuta nella raccolta, ma ho la sensazione che la risposta non sia così semplice, che dietro ci sia molto di più.
JF: Nelle mie poesie cerco di indagare il modo in cui «mappiamo» le nostre esperienze sui luoghi, e il modo in cui quei luoghi, in cambio, diventano la nostra cartografia emotiva. Volevo anche scrivere di imperialismo, in un certo senso, e di come quelli che definiamo i confini ultimi della terra siano spesso una costruzione della fantasia, dell’immaginazione… Infine, volevo riflettere su come sarebbe il mondo se ci rendessimo conto dell’ironia di tutto questo: quale sarebbe il suo vero centro?
FP: In un’altra intervista, parlando della rivista letteraria Zyzzyva, che ha sede a San Francisco, dici una cosa interessante: «La scrittura della West Coast ha un’apertura diversa, si percepiscono gli spazi aperti da cui proviene…». Allora, parlando di luoghi e di come «mappiamo» le nostre esperienze su quei luoghi, e di come questi si imprimono su di noi… In che modo, secondo te, ambienti, paesaggi, una luce diversa, influenzano la scrittura?
JF: Se cresci in un posto inondato di luce, dove l’orizzonte è aperto, vieni su con un concetto di estetica speciale, diverso. Come posso descriverlo? Pensando al fatto che autori come David Foster Wallace, Thomas Mann, William T. Vollmann e Claudia Rankine hanno tutti chiamato casa la California almeno per un periodo della loro vita, mi viene da dire che è un’estetica che guarda meno alla storia intellettuale e più alla storia degli esseri umani all’interno di un dato paesaggio. Tutto ciò che è costruito dall’uomo – e questo include la cultura – nell’Ovest degli Stati Uniti è spesso sovrastato dalla natura. Le nostre montagne sono più grandi, le nostre pianure più ampie, le nostre siccità più catastrofiche, i terremoti più devastanti… Non hai scelta: all’Ovest devi rispettare il potere della natura. Liberare lo spazio dagli «abbellimenti» ingombranti che a volte paiono necessari a chi è cresciuto o ha studiato sulla East Coast, per vedere meglio gli uomini, e la loro piccolezza di fronte alla natura: ecco che cosa intendo per «scrittura aperta».
FP: Vorrei parlare un po’ del tuo metodo di lavoro come editor: come selezioni i manoscritti? E quante, delle proposte che ti arrivano, o dei suggerimenti che ricevi dalle persone cui chiedi consiglio, effettivamente poi ti piacciono?
JF: Leggo moltissime cose che poi non scelgo. Ora per esempio sono appena tornato dalla Svezia, e nei miei fogli di appunti ho almeno venti nomi. So che al momento tra quei venti autori me ne interessano cinque, e che magari tra quei cinque ne pubblicherò uno, o forse chissà, nessuno. Quello che devo fare adesso, parlando di metodologia di lavoro, è trovare tutto ciò che hanno pubblicato, scoprire se di quel materiale è stato tradotto qualcosa, e leggere. Va bene anche una semplice traduzione di prova, di quelle che gli agenti preparano per gli editori stranieri, anche se può essere difficile trovarne, perché le traduzioni di prova vengono fatte in fretta e furia, e a spese dell’agente – quando non dello stesso autore – e a volte sono raffazzonate, fatte appunto alla bell’e meglio, e il materiale ne risente. Però ecco, il momento più importante quando scelgo un autore straniero è proprio quello: quindi incrocio le dita e spero di avere davanti la miglior traduzione possibile del suo lavoro. Di tutte le proposte e i suggerimenti che mi arrivano, ciò che giungo a prendere seriamente in considerazione è parecchio al di sotto del dieci per cento del totale, e di quel sette, otto per cento forse arrivo a pubblicare un terzo.
Mi appoggio comunque molto al parere delle persone di cui mi fido, ed è anche per questo che ho voluto le edizioni straniere di Freeman’s: per ufficializzare la cosa, in un certo senso.
FP: Quanto leggi prima di prendere una decisione?
JF: Di un libro di solito leggo le prime due pagine, e se non sono immediatamente catturato salto a pagina 99 e leggo quella.
FP: Perché proprio pagina 99?
JF: Perché penso sia un buon indicatore. Se ci trovo un luogo comune o un fraseggio pigro, o se non c’è nessuna scintilla, allora smetto di leggere del tutto. Quello è il punto in cui uno scrittore di solito dà per scontato di avere ormai il lettore in pugno. Ma a pagina 99 di Anne Tyler o Haruki Murakami o Virginia Woolf non trovi frasi buttate lì con pigrizia: trovi una scrittura bella tanto quanto a pagina 1. Ecco, questo metodo mi aiuta a fare molta selezione. Magari facendo così mi perdo delle cose; ma molto di quello che mi perdo merita di essere perso, credo.
FP: Che cosa ti colpisce veramente?
JF: Voglio la meraviglia, e la voglio subito! (Ride). Non intendo dire che una storia deve per forza iniziare in modo esplosivo, ma è vero che con gli scrittori davvero bravi l’esplosione di solito c’è subito. Alla fine è un discorso semplice, che ha che fare con l’estetica: tutto si riduce all’intensità e alla coerenza. Mentre ero sul volo per la Svezia ho iniziato a leggere La bellezza è una ferita dello scrittore indonesiano Eka Kurniawan, e alla seconda frase mi sono dimenticato che stavo leggendo un libro: non nel senso che non ero conscio della bellezza della scrittura di Kurniawan, ma nel senso che il mondo intorno a me era sparito, ero completamente dentro la storia. Ed ero esausto, ero in aereo, avevo dormito male, non mi avevano dato le noccioline… Avrei avuto tanti motivi per smettere di leggere, eppure quando ho guardato l’orologio erano passati un’ora e venti minuti. Il libro mi aveva catturato. E questa, secondo me, è la cosa più potente e importante che può fare la letteratura; perché una volta che riesce a compiere quella magia può fare anche tutto il resto: farti pensare, lanciarti una sfida, farti ridere, commuovere. Ma per poter fare tutto il resto, deve prima riuscire a fare quella cosa lì: catturarti, meravigliarti.
FP: Freeman’s dà molto spazio alla letteratura in traduzione. Come scegli i traduttori per il mercato americano?
JF: In alcuni casi sono i traduttori stessi a farmi conoscere il testo di un dato autore e, se in quel momento non hanno modo o tempo di tradurlo personalmente, sanno comunque suggerirmi qualcuno che possa farlo. Il traduttore è spesso fondamentale nella scoperta del lavoro di uno scrittore, non solo per quanto mi riguarda, ma in generale. Pensiamo ad Annie Tucker, che ha tradotto Kurniawan: dopo aver scoperto i suoi libri in Indonesia ne è diventata ossessionata, e sarebbe stato vergognoso se qualcuno avesse preso quelle opere e le avesse fatte tradurre a qualcun altro. Doveva essere lei a tradurle. È quello che cerco di fare sempre anch’io: dare un giusto ruolo al traduttore che ha scoperto una determinata cosa.
FP: Mentre mi preparavo per questa nostra intervista ne ho lette altre a una delle donne più straordinarie cui riesca a pensare: Ilide Carmignani, la traduttrice italiana di scrittori come Bolaño, Borges, Cortázar, Neruda, che ha appena tradotto una nuova edizione di Cent’anni di solitudine… Carmignani racconta molte cose meravigliose, ma una mi ha proprio commossa. Parlando di 2666 di Bolaño, dice: «Mesi di lavoro, ore e ore in compagnia di una voce. Quando ho finito di tradurlo ne ho avuto a lungo nostalgia e a volte tutt’ora, nei momenti più strani, certe scene del libro mi si spalancano davanti all’improvviso, come se invece di essere io a contenere il romanzo fosse lui a contenere me».
Tu non sei un traduttore, ma come editor, critico letterario, e grande intervistatore, anche tu passi molto tempo in compagnia di certe opere. Ce n’è qualcuna che ogni tanto ti si spalanca davanti all’improvviso come se fosse lei a contenere te e non viceversa?
JF: Sì, le poesie di Tomas Tranströmer. Prima che vincesse il Nobel avevo letto alcune cose, ma non conoscevo bene le sue opere. Dopo il Nobel, come tanti, mi sono messo a leggere tutto, e sono rimasto incantato dal modo in cui la sua scrittura riesce a esistere e a brillare in uno spazio di confine tra la realtà e il sogno. È stato uno psicologo per buona parte della sua vita, perciò nutriva un interesse speciale verso l’inconscio e sue le simbologie, ed è riuscito a creare una poetica aperta a questo mondo misterioso. Leggere le sue poesie significa arrivare a sentire queste increspature invisibili, a volte anche settimane dopo averne letta una. Ha influenzato così tanto il mio modo di pensare che ormai per me le sue parole sono vivide come la realtà. Persino in una realtà più che vivida, come New York. Adesso, per esempio: siamo qui seduti su questo molo mentre si fa sera e Downtown Manhattan illuminata sembra sorgere dall’acqua, e siamo consci che stia succedendo qualcosa di sublime proprio davanti ai nostri occhi; i grattacieli, il riverbero delle luci… Guarda che cosa abbiamo di fronte. Una poesia di Tranströmer riesce a provocare le stesse sensazioni, a evocare la stessa bellezza, anche quando magari sta parlando solo di un tragitto in auto verso casa.
FP: Parlando di Tranströmer… Nella tua carriera hai intervistato praticamente tutti i grandi scrittori del mondo, e mi hai detto che l’intervista con lui è quella che ti è più cara.
JF: Senza ombra di dubbio. È stato come incontrare Dio e scoprire che era un placido poeta svedese, colpito da un ictus ma più che mai vivo. Durante la nostra intervista nel giardino della sua casa di Runmarö si sentiva solo il fruscio degli alberi nel vento, ed era come se tutta l’isola stesse cantando le sue poesie.
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