Quest’intervista di Francesca Pellas è apparsa originariamente su Words Without Borders. Leggi la prima parte cliccando qui.

 

FP: Vivi a New York da più di vent’anni. Nell’introduzione a Come leggere uno scrittore (Codice Edizioni) hai scritto un ricordo molto bello della tua prima casa, dei tuoi primi tempi qui… In Il colosso di New York il tuo amico Colson Whitehead dice che bisogna fermare il ricordo dei primi attimi vissuti in questa città, perché quei primi attimi sono «il primo mattone» della nostra personale New York: la città solo nostra, diversa per ciascun newyorkese, che ognuno di noi comincia a costruire non appena ci mette piede. Penso spesso a quel paragrafo, e quando ripenso ai miei primi giorni qui mi viene ancora la pelle d’oca per l’emozione. E allora vorrei che ci raccontassi dove e con che cosa è cominciata la tua personale New York.

JF: La mia New York ha così tanti inizi che è difficile tenerne traccia. Potrebbe cominciare alla Penn Station, dove sono arrivato la prima volta che ci sono tornato da adulto, quand’ero ancora uno studente a Swarthmore. O all’Empire State Building, su cui sono salito da piccolo quando vivevamo a Old Westbury, su Long Island, non lontano da qui. O ancora prima, a Gramercy Park, dove mio padre ha vissuto e lavorato per un periodo. Ogni anno è un nuovo inizio di New York. È segnato in maniera netta da esperienze di perdita, d’amore, d’amicizia, di gioia, di terrore. Ricordo ancora il bar in cui mi trovavo quando è cominciata la guerra in Iraq, per esempio. E non dimenticherò mai la sera in cui, con un amico scrittore, abbiamo seguito una partita di baseball da 15 inning passando da un bar a un ristorante a un altro bar, e via così, percorrendo mezza Settima strada. Certo sarebbe potuto succedere anche a Boston, non è questo il punto. Il punto è che è successo qui.

FP: In una bella intervista su Coda Quarterly racconti che quand’eri ragazzo tuo padre, per spingerti a studiare, cercava di metterti paura, «venendosene fuori con tutta una serie di fantasie su un’ipotetica vita di mediocrità», ovvero la vita che a detta sua avresti avuto se non ti fossi impegnato, tipo: «Benissimo, non studiare per questa verifica. Finirai in un college di serie b. Poi puoi abbandonare gli studi e diventare, non so, il segretario di un veterinario, avere un paio di figli, prenderti una Subaru, vivere a Sacramento come me e la mamma. Sarà fantastico!».

Hai detto che sei cresciuto con il terrore di essere «a tanto così dal finire imprigionato in una vita nei sobborghi al volante di una Subaru», ma che al contempo questo suo modo di fare ti ha spinto a impegnarti sempre di più. E guarda com’è la tua vita adesso! Allora vorrei sapere qual è, di tutte le cose che ti sono successe da allora, la più inaspettata; quella che lascerebbe senza parole il ragazzino che consegnava il Sacramento Bee in bicicletta partendo di casa alle 5:30 del mattino.

JF: Probabilmente il fatto che a un certo punto sono stato un fumatore! (Ride). Penso che sapere che ho anche solo fumato una sigaretta sconvolgerebbe il me di undici anni. Ma, scherzi a parte, devo dire che ho difficoltà a ricordare come pensavo che sarebbe stata la mia vita adulta, da ragazzino. Ogni cosa che facevo era in qualche modo collegata a delle «attività»: praticavo molto sport, e siccome da piccolo ero alto, tutti pensavano – me compreso – che sarei diventato altissimo e sarei finito a giocare nell’NBA come Michael Jordan. Passavo un sacco di tempo a giocare a basket, molto più di quanto non ne trascorressi a leggere. Ma a un certo punto ho smesso di crescere, ed è stato chiaro che non sarei mai diventato un giocatore di basket professionista. Allora ho iniziato a praticare altri sport, sempre con mio padre che cercava di terrorizzarmi dicendo che gli ex atleti che non studiano fanno una brutta fine… Ecco, prova a mettere insieme Jack Nicholson e Robert De Niro, nel corpo di Larry David, col suo stesso bizzarro senso dell’umorismo: il risultato è mio papà. Mi ha spinto a fare un mucchio di cose, alcune delle quali senza senso, come prendere a tutti i costi la medaglia al merito di educazione tecnica (impresa che si è rivelata piuttosto difficile, essendo io negato). Poi c’è stato un momento, a quattordici anni, in cui pensavo di voler studiare medicina, e allora mi sono messo a fare volontariato in ospedale, finendo per rendermi conto che diventare medico avrebbe significato vivere in mezzo a persone che si trovano in una condizione di estrema fragilità, potendo fare ben poco per alleviare il loro dolore e senza possedere le risposte a tutte le loro domande… E mi sembrò una prospettiva terrificante.

Ad ogni modo, nella mia vita ho fatto tante cose diverse tra loro, e non avevo idea che un giorno sarei diventato uno scrittore e un editor: neanche sapevo che cosa fosse, un editor! Ho fatto trentotto lavori prima di arrivare a questo: sono stato una guardia museale, ho lavorato in un’associazione no-profit e in una gelateria, per una società di controllo del traffico… Sono stato anche un modello di nudo artistico! E sono contento di aver fatto tutte queste cose, perché mi hanno permesso di accumulare un bagaglio di esperienza che va al di là dei libri e del lavoro al computer. Allo stesso tempo, mi rimane una sensazione che forse abbiamo tutti, ovvero l’idea che il nostro io abbia più strati, e diverse strade davanti: c’è un me che ha continuato a crescere, è diventato alto tanto da poter giocare a basket nei Sacramento Kings, e poi c’è un altro me che è diventato un ingegnere e si è sposato e ha avuto tre bambini, vive in Ohio e passa i weekend a vedere le partite di calcio dei figli.

FP: Io ho un nome per questa cosa! Qualche anno fa mi resi conto che nella mia lingua, l’italiano, basta cambiare la posizione di una lettera e «la mia vita» si trasforma in «la mai vita». Una sola lettera, e una vita diventa una mai-vita. Ed era proprio l’espressione che mi serviva per dare un nome a tutte le possibilità e i sentieri – tutte le vite – che avremmo potuto vivere e non abbiamo vissuto, ma che in qualche modo continuano a vivere dentro di noi.

JF: Già, è proprio così: quelle possibilità continuano a vivere dentro di noi. Ma c’è di più, ed è una cosa ancora più potente: sono tutte le vite in più rese possibili dai libri, e che a volte ci sembrano vere e nostre tanto quanto quelle reali. Di recente ho riletto Exit West di Moshin Hamid, perché l’ho dato in lettura ai miei studenti… Nel suo libro i personaggi possono varcare delle porte misteriose che conducono dall’altra parte del mondo; penso che una delle intenzioni di Hamid, nel «ridurre» l’emigrazione a qualcosa che può succedere tramite un «dispositivo» semplice come una porta, fosse sottolineare il fatto che tutti noi nasciamo dentro una lotteria. Il fatto per esempio che io sia nato bianco, in Ohio, nel 1974, significa che per me sono state possibili molte, molte più cose rispetto a quelle che sarebbero state possibili se fossi nato nello stesso anno da qualche altra parte. 

Penso che, mano a mano che cresciamo come lettori, in ciò che decidiamo di leggere entri in gioco anche una componente etica: smettiamo di prendere in considerazione solo le vite che avrebbero potuto essere nostre per davvero, i vari «avrei potuto essere un ingegnere, un dottore, questo e quell’altro», vite poco lontane dalla nostra e con differenze tutto sommato piccole, e cominciamo a includere tutte le altre esistenze. E se vivessi in un campo profughi? E se vivessi in Palestina? Che cosa farebbero quelle versioni di me? Che cosa farei se dovessi lavorare in una cava di ghiaia in Cina per mantenere un padre invalido e la mia famiglia? Che cosa farei se fossi una donna argentina e mio zio fosse un desaparecido e mia zia, venuta a vivere con noi da allora, dopo anni piangesse ancora di notte? Penso che, finché non introduciamo anche quelle vite nella soffitta invisibile in cui conserviamo le vite che non abbiamo vissuto, il mondo non sarà mai equo. Ed è proprio il motivo per cui ho scelto di creare un numero di Freeman’s come questo: la speranza è che mettere insieme scrittori da tutto il mondo ci mostri che alcune delle nostre vite possibili avrebbero potuto essere altrove. E quando dico «altrove» non intendo solo «non in America»; intendo non in Svezia, non in Cina, non in Brasile, non in Colombia. Altrove.

FP: Hai curato due antologie sull’ineguaglianza, Tales of Two Cities (pubblicato in Italia da Stampa Alternativa con il titolo Racconti delle due città. Lusso e miseria a New York, nda) e Tales of Two Americas. Dici spesso che scrivere è sempre un atto politico. Sono d’accordo, e vorrei chiederti: qual è il ruolo di uno scrittore non sotto un regime (quello mi pare più ovvio), ma in una democrazia?

JF: L’idea che scrivere possa non essere un atto politico è farsesca. Bisogna avere potere per fingere che il potere non esista! Che rapporto ha tutto questo con la scrittura? Diciamo così: se la gente non è informata la democrazia serve a poco, è solo una folla di persone. Uno scrittore deve informare. Informare in senso lato: lo spirito, la mente, il corpo. Hai mai notato che la grande scrittura produce una reazione fisica? Gli scrittori possono provocare questo effetto ponendo domande, intrattenendo, raccontando storie, astraendo le nostre paure e i nostri desideri in scenari immaginari. Compiendo questa magia, chiedono anche a noi lettori di farne una: immaginare di essere un’altra persona. La scrittura, la letteratura, ci chiedono di diventare qualcos’altro e la grande scrittura rende questa trasformazione facile: una frase e zac, succede. Sei una donna su un aereo diretta a un funerale, sei un drago, sei dentro la testa di un’altra persona. Gli scrittori ci mostrano il potere e la bellezza del linguaggio, che è un altro modo per dire che ci ricordano di usare il cervello e di far sentire la nostra voce. E sono tutte cose importanti, in un sistema politico che in teoria deve essere della gente e per la gente.

FP: Daria Bignardi è una scrittrice italiana. Quando sua madre è morta lei aveva superato i quarant’anni e voleva trovare un nome specifico per il suo dolore, così ha coniato l’espressione «orfano adulto». Tua madre è morta nel 2010, e la tua condizione di orfano adulto ha suscitato in te il bisogno di «mappare» il tuo lutto attraverso la poesia. Dopo la sua morte hai scritto molte delle poesie contenute in Maps. E allora vorrei chiederti in che modo la morte di tua madre ha cambiato forma alla tua scrittura.

JF: L’ha resa necessaria. E in un certo senso ha fatto di me un poeta. Anche se per riaverla indietro baratterei volentieri tutte le mie poesie senza pensarci un minuto, e sarei felice di non pubblicare mai più nulla, se potessi averla di nuovo nella mia vita. Penso sia questo che, in una certa misura, fanno gli scrittori: c’è qualcosa nel mondo che è rotto, spezzato, e loro cercano di descriverlo. Per alcuni questa spaccatura arriva con un lutto. Mi chiedo se ci sia differenza, nel perdere un genitore a vent’anni o perderlo a trentacinque com’è successo a me. Non ho una risposta, perché so solo com’è stata la mia, di esperienza. So però che la mia perdita ha ristabilito un’armonia con le altre assenze, e che, dopo un periodo di lutto, mi ha reso più grato e meno ansioso rispetto al mondo. Un’altra cosa importante è che ho iniziato a viaggiare tanto. Vengo da una famiglia che ha viaggiato molto poco, pensando di poter rimandare tutto agli anni della pensione: mia madre è morta senza essere mai uscita dagli Stati Uniti, e so che questo è stato un suo grande rimpianto, perché viaggiare le sarebbe piaciuto moltissimo. Quindi oggi, ogni volta che salgo su un aereo, penso a lei. Non sono religioso, non credo che se ne stia seduta in cielo a sorridere quando sul mio passaporto viene messo un timbro nuovo. Ma il processo che si compie quando qualcuno che amiamo passa da essere una persona a essere un semplice corpo, e poi solo un battito cardiaco, un cadavere, e da lì polvere, e ricordi, e sensazioni… Ecco, quella progressiva cancellazione è molto dolorosa per chi rimane. Uno dei modi in cui la rallentiamo, e cerchiamo di conservare ciò che quella persona era, è raccontare storie su di lei. Quando sono con i miei fratelli o mio padre, finiamo inevitabilmente a parlare di mia madre. Adesso ho la sensazione che dentro di me sopravviva una parte di lei, qualcosa che prima non c’era, ed è tutto quello che mi rimane. E dato che le storie si nutrono di pensieri, e che la stessa cosa vale per il lutto, la mia immaginazione in un certo senso è sempre in movimento, non si ferma mai: la luce è sempre accesa, la porta sempre aperta. Il generatore elettrico deve essere costantemente in funzione, altrimenti non ho più niente, di lei, nella mia vita.

FP: Che cosa facevi quando il dolore era troppo forte?

JF: Tutte le cose che pensiamo possano esserci d’aiuto quando ci troviamo in uno stato emotivo estremo. In poche parole: cercavo di fuggire. Viaggiando, o bevendo notevoli quantità di whisky (ride), leggendo… Appena succede e nel breve periodo successivo gli amici sono molto presenti; ma poi c’è un periodo strano, duro, che è il primo anno che segue alla morte: è lì che devi capire come farcela da solo. A un certo punto diventa un peso che non vuoi mettere sulle spalle di chi ti sta vicino. Ecco, io in quell’anno ho compiuto parecchi gesti autodistruttivi, alcuni dei quali abbastanza inutili, prima di rendermi conto che dovevo semplicemente accettare il mio dolore e attraversarlo, se volevo smettere di esserne sopraffatto.

FP: Quanto ci è voluto?

JF: Un po’. Il dolore è un menù che ti viene servito a forza, senza che tu riesca a saltare le portate che non vuoi. Le cose più utili però sono state tre. La prima: parlare con la mia famiglia, cioè i miei fratelli, mio padre, la mia compagna. Poi andare a correre, e anche fare lunghe passeggiate: penso che il movimento prolungato possa portare a una sorta di benefico stato di trance. E soprattutto scrivere. Io lo facevo senza pensare, senza dirmi «devo fermare questo momento»; ma quando il dolore era troppo forte, scrivevo. 

FP: Come funziona, quando scrivi una poesia? Da cosa nasce una specifica scintilla che porterà a una data poesia, e quanto ti ci vuole per arrivare al risultato definitivo?

JF: Varia da una poesia all’altra. Alcune, come «Saudade» o «Blackout» sono il risultato di un’ispirazione improvvisa, nate entrambe in un bar: una sensazione scatena un ricordo, le parole vengono fuori da sole e io mi ritrovo a scrivere in uno stato di incredulità. Chi ha scritto questa cosa?, mi chiedo spesso quando mi ritrovo a ricopiare in bella una poesia nata in quel modo. Per altre ci vuole tempo, come se dovessi montare un marchingegno delicato; è il caso di «The Money» e «The Last». Ma, dato che una poesia deve sostenere il peso di un’esperienza insostenibile come il lutto, deve avere un nucleo d’acciaio. La forma è fondamentale.

FP: Che cos’hanno in comune la scrittura e l’amore?

JF: L’amore! In comune hanno l’amore. Devi amare il mondo, per poterne scrivere. E devi amare il mondo anche per odiarlo, per deriderlo, per scrivere satira.

FP: Quali sono gli ostacoli che possono impedire a qualcuno di scrivere? E come si protegge un talento? «Serve esperienza, esperienza di vita, per trovare le cose che diventeranno tue ossessioni» hai scritto. Ma come si fa a trovarle, e come si fa a prendersene cura?

JF: Ah, sono talmente tante le cose che possono impedirti di scrivere… Può essere il brutto tempo, un brutto matrimonio, un matrimonio felice, può essere un herpes, o il doversi allenare per una maratona, o il rifiuto, oppure un sì che ci fa perdere il senso della misura, o leggere un libro splendido e pensare Non riuscirò mai a scrivere niente di simile. Il punto è che scrivere non è un’azione naturale. E ci sono tante, tante cose che fanno sentire molto meglio: parlare di letteratura – scritta da qualcun altro, però – bere caffè… Dal canto mio, cerco di non pensare troppo a quello che faccio in quanto scrittore: nei miei momenti migliori, semplicemente, scrivo. Scrivo e basta, senza pensarci su. La forza di un pensiero o un’espressione o un’esperienza mi obbliga a darle forma su una pagina. Non c’è una cura, un trucco magico, un consiglio che posso darti, temo. Vorrei che ci fosse! Il miglior consiglio che qualcuno mi ha dato è: lo fai o non lo fai, questa è l’unica cosa che conta.

FP: Due anni fa ho intervistato un grande direttore d’orchestra: Gianandrea Noseda, direttore della National Simphony Orchestra di Washington e del Teatro Regio di Torino. Quando quell’intervista uscì, un caro amico mi sgridò molto, perché a suo dire era ben fatta ma troppo seria. «Avevi di fronte uno dei più grandi direttori d’orchestra del mondo!»  disse, arrabbiato. «Dovevi fargli domande più coraggiose! Basta Mozart! Dovevi chiedergli: qual è la musica del sesso? Qual è la musica giusta per morire? E per uccidere qualcuno? Qual è la musica da ascoltare quando siamo in preda a una felicità incontenibile? E quando siamo terrorizzati? E innamorati?» 

Ecco. Adesso ho di fronte a me una delle figure più importanti del mondo letterario: un poeta, un critico, un editor, e probabilmente uno dei più grandi lettori del pianeta. Questa volta non mi lascerò sfuggire l’occasione di fare domande coraggiose. Sei pronto? La miglior scena di sesso che hai mai letto. E la miglior morte. La miglior storia d’amore. Lo stronzo peggiore. La madre scritta meglio. L’ultima cosa che ti ha fatto piangere: non commuovere, piangere. E l’universo in cui, se potessi, vorresti entrare.

JF: Wow! Va bene, cercherò di rispondere dicendo la prima cosa che mi suggerisce l’istinto. Ho pianto di recente rileggendo le poesie che Sharon Olds dedica a sua sorella, e che ho pubblicato nel numero di Freeman’s sulla famiglia (Family, il secondo numero dell’edizione americana, nda). È incredibile quanta potenza riescano ad avere certe poesie, anche quando le rileggi per la centesima volta.

Il libro in cui vorrei entrare è probabilmente la Trilogia del Cairo di Naguib Mahfouz, una serie di tre romanzi ambientati in Egitto prima, durante e dopo l’indipendenza, che racconta le vite di diverse generazioni della stessa famiglia. Mahfouz era il Dickens egiziano, e ci fa vedere tutti gli aspetti della società: matrimoni, funerali, manifestazioni politiche, litigi in famiglia. È un mondo incredibilmente vivido. Non sono mai stato in Egitto e credo che quando ci andrò una parte di me inconsciamente cercherà l’Egitto di Mahfouz, che forse nemmeno esiste più. E allora forse sarebbe più bello entrare direttamente nei suoi libri.

Madri…. Uno degli autori più bravi a scrivere di madri è Colm Tóibín; penso in particolare a quella di Il faro di Blackwater. Non dico che rivedo mia madre nelle madri dei suoi romanzi, però ammiro la limpidezza del suo sguardo. 

La miglior scena di sesso… Domanda difficile, perché ci sono tante scene di sesso tremende! La migliore che abbia letto, vediamo… In Della bellezza di Zadie Smith c’è una scena di sesso molto intima tra i due personaggi principali: una donna, nera, e suo marito, bianco. Questo particolare non è importante di per sé, ma è importante nel romanzo. Ad ogni modo: il dettaglio più importante è che si sono lasciati. Hanno dei figli, ma non stanno più insieme, e ormai sono invecchiati… Ma a un certo punto si ritrovano, e si ritrovano facendo l’amore. È una scena molto intima, e tutto fuorché pornografica. È avvolgente e autentica come l’amore, quello vero: non quello che tratteggi in una fantasia, ma quello che vivi giorno dopo giorno con la persona con cui condividi l’esistenza e, per certi versi, un unico corpo. Ecco, quella è una delle scene di sesso più belle che abbia mai letto, perché in un secondo riesce a far dimenticare tutti gli altri modi in cui di solito pensiamo al sesso, che spesso ci viene venduto come una merce, per eccitarci e provocarci. Solo di rado pensiamo al sesso all’interno di un matrimonio, o addirittura in un matrimonio che sta fallendo.

…Mi sono dimenticato le altre domande!

FP: La miglior morte e lo stronzo più stronzo!

JF: Mi vengono in mente due morti straordinarie. Una è nel romanzo di Louise Erdrich The Last Report on the Miracles at Little No Horse. Il protagonista è il prete di una riserva indiana, che ha servito la comunità per cinquant’anni, ma in realtà non è un uomo: è una donna che ha nascosto la sua vera identità per tutta la vita per poter essere una guida spirituale per la sua gente. Louise Erdrich segue questo personaggio fino al momento in cui viene colpito da un aneurisma, ed è una scena magica, bellissima, strana, semplice e allo stesso tempo fantastica.

Penso anche a Il mondo conosciuto di Edward P. Jones: un personaggio muore e la sua morte viene raccontata in poche pagine. E Jones compie un vero e proprio gioco di prestigio: prima siamo nella mente del personaggio che pensa e parla con qualcuno, poi all’improvviso si ritrova solo nella stanza e si rende conto di esser morto. Accade così all’improvviso, ed è stranissimo ritrovarsi a guardarlo da fuori. E ricordando com’è stato per me, quando mi sono trovato in una stanza con una persona che stava morendo, posso dire che è proprio così: prima è lì e subito dopo non c’è più, è solo un corpo, un cadavere. Ho letto quella scena diverse volte e non sono ancora riuscito a capire come Jones sia riuscito a scriverla così bene.

Il cattivo… Questa è facile: Iago. Penso che la malvagità non sia semplicemente un qualcosa che si fa patire agli altri. La cattiveria vera fa di più: va a stuzzicare la potenziale cattiveria che alberga negli altri. Basta pensare a Hitler. Iago, con la sua capacità distruttiva di trovare e sfruttare i punti deboli di Otello, le sue parti oscure, rappresenta secondo me la quintessenza del peggio della natura umana.

FP: Ho letto una cosa molto bella che hai detto sul tuo lavoro di editing con Garnette Cadogan, uno scrittore giamaicano che hai pubblicato più volte, sia in Freeman’s sia in Tales of Two Cities. «Ho dovuto imparare come la sua voce suona nelle sue orecchie, e come essere il miglior editor possibile per lui così che lui riesca a essere se stesso». Hai anche spiegato che fare l’editor significa, in sostanza, «essere un camaleonte, nel modo in cui ti avvicini agli autori e ai loro diversi modi di scrivere, per poterli servire al meglio». Garnette Cadogan però scrive in inglese. Come cambia il tuo lavoro di editor, quando si tratta di un testo tradotto da un’altra lingua? Citerò di nuovo Ilide Carmignani, che una volta ha detto: «Più traduco e più mi tremano le vene dei polsi, perché capisco meglio quanto sfugge o può sfuggire a una traduzione». Quanto va perso, e – da editor – tu come ti rapporti con ciò che va perso?

JF: Tutto va perso, ma quello che viene trovato è un testo nuovo. Una nuova versione del testo originale, creata da un altro scrittore: il traduttore. E una delle ragioni per cui fare editing a testi in traduzione è così stimolante è che c’è una sorta di collaborazione «a tre», un dialogo tra te e l’autore visto da un altro autore, ovvero quello invisibile ma fondamentale, che ti consente di leggere un’opera nella tua lingua. A questo proposito consiglio sempre Reading Rilke di William Gass, un meraviglioso libro sulla traduzione: Gass osserva le trasformazioni delle poesie di Rilke da un traduttore all’altro e attraverso varie epoche. Abbiamo la versione vittoriana, quella edoardiana, quella modernista e quella confessionalista, e poi finalmente abbiamo la versione di Gass, che col suo libro ci fa capire come le traduzioni cambino a seconda dello stile letterario predominante in una data epoca: dipendiamo dai traduttori, ma anche dalle mode del tempo. Quello che posso fare come editor è cercare di editare il testo in modo che le regole e gli schemi che il traduttore ha deciso di impostare siano rispettati. Ogni testo ha i suoi schemi, le sue regole, e tutti gli scrittori sono creatori di modelli: il traduttore trova una nuova serie di modelli e li ri-modella affinché possano, si spera, trasmettere il contenuto del testo, lo stile e la voce dell’autore; se sono davvero bravi, anche la sintassi. Editare un testo tradotto è come ballare la quadriglia in cinque: devi riuscire a tenere in piedi diverse forme di movimento.

FP: Quante versioni straniere di Freeman’s ci sono?

JF: Per ora sette. Freeman’s è pubblicato in Svezia da Bokförlaget Polaris, in Gran Bretagna da Atlantic Books, in Romania da Black Button Books, in Australia da Text Publishing, in Italia da Edizioni Black Coffee. A breve uscirà in Cina per Archipel Press. Poi ovviamente c’è l’edizione americana, quella che ha dato il via a tutto, pubblicata da Grove Atlantic.

FP: Nell’introduzione a Freeman’s. Scrittori dal futuro dici che quando riprendiamo in mano i libri che hanno contribuito a fare di noi le persone che siamo ci rendiamo conto che non sono «più nemmeno libri, ma soglie sospese nel tempo che abbiamo consumato a forza di attraversare». E allora, tornando a parlare di vite, mai-vite e strati dell’io… Quanti strati di te stesso hai attraversato, nella vita? Ma soprattutto: quali libri, in particolare, sono state le soglie che quei diversi John hanno attraversato diventando di volta in volta un nuovo John?

JF: Penso che l’io sia una sorta di maniglia invisibile che ci permette di aprire le porte che incontriamo durante la nostra esistenza su questa terra. Ma per alcune persone, dato il loro colore di pelle, status sociale, genere, etnia, o il loro mestiere e il luogo in cui vivono, quella maniglia è meno invisibile di come dovrebbe essere, e può diventare tutto ciò che la gente vede in loro. Le linee di demarcazione tra i diversi me che sono stato nel tempo mi sembrano confuse, perché una cosa in realtà non è mai cambiata: mentre vivevo, ho sempre immaginato un futuro bello. Per buona parte della mia giovinezza sono stato soprattutto un essere «fisico», uno sportivo, con qualche raro momento di trascendenza. Poi, quando ho iniziato veramente a leggere, mi sono aperto alla dimensione dell’intelletto. Prima ero un atleta, ero abituato a vivere soprattutto con il corpo: il corpo era il mio strumento fondamentale. Ecco, quella era un’esistenza felice: pensavo meno, ero tutto istinto e movimento; mi ritengo fortunato di essere riuscito a vivere in quel modo finché è stato possibile. Ma quando sono diventato un lettore, al liceo, tutt’a un tratto ho cominciato a vedere con gli occhi dell’immaginazione altre parti di mondo, e a quel punto è venuto fuori un ragazzo diverso, assetato di sapere, desideroso di scoprire i significati dell’esistenza: c’era altro, al di fuori della mia personale esistenza, c’era di più, e potevo andare a cercarlo dentro un libro. Leggere 1984 o L’amante di Lady Chatterley, o le sorelle Brontë, è stato il modo in cui mi sono costruito un universo interiore, diventando nel frattempo una diversa tipologia di persona «fisica». Qualche anno dopo, all’università, ho iniziato a dedicarmi moltissimo alla lettura, allo studio, all’esplorazione di universi sconosciuti. Avevo moltissimo da imparare. La prima porta che ho attraversato a quel punto è stata probabilmente Cime tempestose, e la avvertii come una doppia porta. La seconda è stata Uomo invisibile di Ralph Waldo Ellison. Avevo molte lacune, sia come lettore, sia nella mia comprensione del mondo. Essere bianchi può rappresentare un privilegio, e uno dei privilegi che comporta è una vita tutto sommato protetta. Ma se da un lato vivere protetti può regalare un’infanzia felice come la mia, dall’altro può anche portare all’ignoranza, ad avere enormi lacune culturali ed etiche. Non sto affatto criticando la famiglia in cui sono cresciuto o l’educazione che ho ricevuto, ma resta il fatto che ho dovuto trovare una via d’uscita dall’ignoranza attraverso la lettura. Quando poi ho cominciato a fare il recensore, e a lavorare tantissimo (ero un freelance, dovevo guadagnarmi da vivere!), mi sono imbattuto in storie che raccontavano vite diversissime dalla mia: è stato lì che ho oltrepassato la terza soglia, quella che mi ha reso più simile alla persona che sono oggi. Sì, da ragazzo avevo letto libri tradotti, ma a scuola non li si percepisce mai come tali, un po’ perché le cose che succedono in quei libri non stanno succedendo adesso, e un po’ perché sono tutti morti! (Ride). Poi però ho letto Palestina. Una nazione occupata di Joe Sacco, ed è stato come se qualcuno avesse acceso tutte le luci e aperto la porta di una stanza che conduceva a molte, molte altre stanze. Sto ancora vagando per questo labirinto che si estende senza fine, e altre porte continuano ad aprirsi. 

Ti racconto una cosa: quand’ero all’università io e la mia ragazza siamo venuti a New York in giornata, col treno. Avevamo vent’anni. Siamo partiti da Philadelphia (dov’è lo Swarthmore college, nda) e siamo arrivati alla Penn Station. Abbiamo passeggiato per Midtown, siamo entrati da FAO Schwarz, poi nella Trump Tower per comprare un caffè e un panino, e ricordo che pensavo: «Che figata, siamo nella Trump Tower!». Abbiamo camminato su Fifth Avenue. Poi abbiamo ripreso il treno e siamo tornati a Philadelphia. Quella è stata la nostra gita a New York. Oggi che vivo a New York da più di vent’anni mi capita spesso di incrociare lo stesso tipo di turista, e mi impedisco di fare ironia: io ho fatto la stessa identica gita, le stesse identiche cose. E me n’ero anche dimenticato, fino a poco tempo fa! Poi un giorno ho visto una foto di Donald Trump nella Trump Tower e ho avuto un flash improvviso di quella giornata. All’epoca non pensavo a cosa Trump rappresentasse, a chi fosse veramente, al suo razzismo, al fatto che probabilmente a costruire il suo grattacielo fossero stati lavoratori sfruttati e non protetti dai sindacati… Tutte le cose a cui penso ora quando penso a Trump erano vere anche allora, quel giorno del 1994. Io però non ne ero cosciente. Ero come addormentato. E mi ci sono voluti anni per essere sveglio del tutto. Questa è una delle molte ragioni per cui nel mondo dell’editoria, in posizioni come la mia, avremmo bisogno di più editor di colore. Io sono stato fortunato, perché ho avuto il modo e il tempo di uscire dall’ignoranza grazie alla lettura. Ci sono però tante persone, là fuori, che non ne hanno bisogno, perché non sono cresciute in un contesto protetto, non sono cresciute addormentate: sono sempre state sveglie. Pensa a quello che potrebbero fare, a quello che potrebbero costruire, se avessero accesso ai lettori.