Questo pezzo è apparso originariamente su Brick numero 102, inverno 2018

Pietra

Ci stavamo raccontando storie di furti quando uno di noi disse, Ho rubato una pietra in un campo di concentramento.
È stato tanto tempo fa, continuò. Mia moglie è ebrea e avevamo iniziato a parlare di visitare un campo di concentramento poco dopo esserci conosciuti. Il fatto che riuscissimo a immaginare una cosa del genere sembrava un segno che eravamo fatti l’uno per l’altra.
Al campo di concentramento, sopraffatta dal dolore, la moglie si era allontanata per un po’ e in quel momento lui aveva notato la pietra. Era per terra, ai piedi di un memoriale dove la gente aveva portato doni di ogni tipo in ricordo dei morti. L’uomo raccolse la pietra, ovale e liscia come vetro, e la tenne sul palmo della mano. Aveva intenzione di rimetterla a posto insieme agli altri oggetti, invece si sorprese a farsela scivolare in tasca.
Non disse nulla alla moglie fino al ritorno in Canada. Ripose la pietra in un piccolo contenitore accanto al letto. Ciò che aveva fatto continuava a suscitargli perplessità e vergogna. Quando infine si decise a mostrargliela e confessò come se l’era procurata, lei la prese malissimo.
Come hai potuto?
Le fece notare che anche lei aveva una pietra: un ciottolo raccolto dalla tomba del trisnonno di lui, un nero, veterano della guerra di secessione.
Non è la stessa cosa, ribatté la donna.
Non lo era. C’è poco spazio in questa vita per le equivalenze. Persino gli angeli che fanno la conta dei crimini non riescono a portare tutto in pari. Ma ogni cosa è un ponte verso un’altra. E senza questi ponti saremmo persi.
L’uomo disse, Ogni volta che litigheremo, dopo le grida, quando parlare ci sembrerà insopportabile, stringeremo ognuno la propria pietra e sarà come stringersi l’uno all’altra.

Uccello

Un uomo trovò un uccello che giaceva a occhi chiusi sul marciapiede. Quando si avvicinò, si accorse che il minuscolo cuore gli si agitava ancora in petto. Prese un sacchetto di carta da un bidone della spazzatura e con una bacchetta di legno vi spinse dolcemente dentro il volatile. Richiuse il sacchetto con una piega e quando se lo appoggiò sul palmo della mano sentì il calore di quel piccolo corpo leggero.
Entrò in un ristorante e spiegò la situazione a una donna che puliva i tavoli.
Lei gli diede il numero di un posto che si occupava di animali in fin di vita. Magari avrebbero accolto l’uccello. Gli lasciò anche il suo, di numero. Disse all’uomo che le ricordava qualcuno che le aveva sorriso un giorno in metropolitana. Era stato un sorriso così straordinario che aveva pensato di mettere uno di quegli annunci dedicati agli incontri fortuiti per provare a rintracciare lo sconosciuto. Non passava giorno senza che fantasticasse su come sarebbe cambiata la sua vita se l’avesse fatto. Gli chiese se quello sconosciuto fosse lui. L’uomo disse di no. E aggiunse, Purtroppo. Non sapeva bene perché. Non riusciva a scorgere nessuna traccia di sé nella descrizione di quell’uomo dal sorriso ammaliante.
Sistemò il sacchetto in macchina sul sedile del passeggero e, imboccata l’autostrada in direzione nord, uscì dalla città lasciandosi i grattacieli alle spalle. Mentre superava i confini urbani sentì un fruscio. Sul sedile al suo fianco il sacchetto tremò. Con una mano lo aprì e l’uccello volò fuori iniziando a girare in tondo nell’abitacolo, disorientato. Temendo che potesse schiantarsi contro il parabrezza o colpirlo in testa, l’uomo accostò. Neanche il tempo di fermarsi che il piccolo uccello giallo e verde si posò sullo specchietto retrovisore, lo guardò negli occhi e si mise a cantare.
Cantò di lontane foreste di querce. Cantò di melodiose distese di grilli, montagne spoglie di fogliame, laghi vasti e blu come il mare, orizzonti inondati dalla luce. Cantò di tutti i suoi viaggi e di quelli dei suoi simili. Cantò la canzone d’amore della vita degli uccelli.
Poi cadde a terra e morì.
L’uomo appoggiò la testa sul volante e pianse. Il cuore gli si schiantò nel petto. Pianse per tutti gli incontri fortuiti che non erano andati come aveva sperato. Pianse per le persone scomparse, che continuano a vagare chissà dove, tormentandoci con il pensiero che da un momento all’altro le nostre vite potrebbero rivelarsi completamente diverse.

Pelle

Dopo il divorzio, mia madre partì per il Kenya. La particolare varietà di cristianesimo evangelico che aveva sposato usava il lavaggio dei piedi come forma di battesimo, e lei attraversava il Paese in lungo e in largo per lavare i piedi di uomini e donne e bambini, molti dei quali restavano dapprima spiazzati, ma poi si abbandonavano alle cure di quella donna così alta e devota.
Sei mesi dopo tornò a Toronto e lasciò la chiesa che aveva scelto da così poco. Ma il suo impulso a lavare i piedi altrui non si spense. Contattò un’organizzazione che dava assistenza ai rifugiati al loro arrivo e chiese di poter offrire i suoi servizi a chi varcava quella porta. Certo, non tutti quelli che si rivolgevano all’associazione erano disposti a farsi lavare i piedi, ma c’era comunque chi si lasciava condurre alla sedia di plastica che mia madre aveva sistemato nell’angolo di un ufficio. Mise un asciugamano sul pavimento di fronte a Ibrahim di Idlib. Con dolcezza gli sfilò i calzini, nuovi come gli scarponi invernali al suo fianco, e lo invitò a immergere i piedi in una bacinella d’acqua bollente. Gli sollevò il piede destro per portarselo in grembo e iniziò a insaponare la pelle rovinata, passando le dita sulla membrana tra l’alluce e il secondo dito, e poi tra il secondo e il terzo, soffermandosi su ciascuno per distenderlo. Lui osservava quella figura concentrata con sguardo incerto, paralizzato. Ogni giorno dell’ultima settimana era stato come un assedio per mano dell’ignoto. La donna che gli teneva il piede prese una lima e gli sfregò i calli induriti sui talloni. Con un dito fece pressione su un punto sotto il piede che liberò in lui un flusso di sensazioni tanto potenti da farlo gridare. Poi una parte di sé, aggrovigliata da anni come quel bambino rannicchiato in preda al panico sotto il tavolo della cucina allo scoppio della prima bomba, riuscì a distendersi un po’. Mia madre gli massaggiò entrambi i piedi con olio di mandorla finché la pelle non si fece di seta, poi li ricoprì con i calzini e lo restituì al mondo mentre si asciugava le lacrime dagli occhi, con andatura differente, almeno per un po’.
Quando gli amici ci chiedevano come stava nostra madre, tendevamo a rimanere sul vago, imbarazzati dalla sua strana fissazione. Ma lei continuava a insistere che chiunque arrivi in un Paese nuovo merita di essere toccato e non c’è posto migliore dei piedi, una parte del corpo così vulnerabile, trascurata, ricca di terminazioni nervose.
Quando da piccoli ci metteva a letto non ci baciava mai; ci massaggiava le dita dei piedi. Se nell’arco della giornata ci succedeva qualcosa di brutto, un episodio spiacevole nel cortile della scuola, lei aveva la capacità di trovare il punto sulla pianta del piede che riportava a quel momento, e con la pressione delle dita il dolore scivolava via. Intuiva il nostro umore in base alla forma delle nostre impronte.
Tempo dopo, quando stavo per diventare madre anch’io, mi disse che i piedi erano la parte più sensibile del suo corpo. A ogni passo sentiva i sensi esploderle dentro, una scarica che partiva dal basso per risalire. L’erba che schiacciava sotto i piedi spingeva a sua volta contro di lei. Era un’esperienza così travolgente che faceva di tutto per smorzarla: portava scarpe con la suola più spessa che riuscisse a trovare; si sfregava le piante con carta vetrata; non andava mai in giro scalza. I piedi erano la zona più erogena del suo corpo; non riusciva a raggiungere l’orgasmo senza un dolce, costante sfregamento all’arco metatarsale del piede sinistro. Mio padre, a quanto pareva, si era stancato delle sue stranezze.
Cosa facciamo con chi non è come noi? Come ci avviciniamo alla pelle di un altro quando niente può prepararci ai misteri che nasconde? Sul letto di morte, mio padre chiamava mia madre. A malapena cosciente, continuava a ripetere il suo nome. Quando alla fine lei comparve, avvicinò una sedia all’estremità del letto, sfilò il lenzuolo da sotto il materasso e gli posò le mani sulle caviglie. Lui gemeva come un piccolo animale silenzioso mentre lei lo accarezzava con la spugna umida e con le dita premeva, lenta e metodica, sulla sua carne deperita.

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Titolo originale, Three Tales, copyright @ Catherine Bush, all rights reserved
Traduzione di Ilaria Oddenino