BC: Una delle cose che più ci è piaciuta di Lions è che i personaggi non sono sottoposti al tuo giudizio. Tu, in quanto autrice, non dici al lettore cosa provare, cosa presumere, cosa dare per scontato relativamente ai personaggi. L’hai fatto con cognizione di causa?
BN: Assolutamente sì, e per molte ragioni. Come lettrice non mi piace quando l’autore fornisce informazioni per spingermi ad amare o odiare un personaggio. Non la ritengo una cosa onesta e, leggendo, ho la sensazione di ripetere a pappagallo le parole di una canzone già scritta, invece di scriverne una per conto mio man mano che procedo nella lettura. Non mi costruisco un mio significato. C’è anche da dire che non ho mai conosciuto una persona che fosse solo buona o solo cattiva, una persona che fosse facile da giudicare come a volte capita con i personaggi dei romanzi. La volta in cui mi ci sono avvicinata di più è stata quando ho conosciuto una persona molto malata, e quindi rassegnata – ma è tutta un’altra cosa, non ho potuto fare a meno di provare compassione, anche se non ne avevo intenzione. Ci sono molti altri motivi per i quali tratteggio i personaggi in questo modo, ma forse il principale è che quando scrivo tento di tirare fuori qualcosa dall’ombra, di conoscere una cosa che non sono mai stata in grado di spiegare o comprendere. Questo mi costringe ad aprirmi alla possibilità che i personaggi «peggiori» abbiano in realtà un cuore d’oro, e viceversa.
BC: Sia Lions che Lamb sono ambientati nel West, in particolare in Colorado. A noi però sembra che la tua idea di West sia del tutto particolare. Puoi dirci qualcosa di più?
BN: Sono nativa del Midwest e, da quando mi sono trasferita all’ovest, non ho mai avuto la sensazione di appartenere davvero a quei luoghi, li ho sempre guardati con gli occhi di un’estranea. Mi hanno affascinato (per un po’!), come spesso ci affascinano le cose che non conosciamo. Sotto molti aspetti le storie sul West che girano da centinaia di anni nel nostro Paese sono solo favole, leggende, luoghi comuni o spudorate menzogne. Questo, combinato a un interesse nei confronti della capacità tutta umana di illudersi con un mucchio di storielle, mi ha convinto a eleggerlo ad ambientazione dei miei romanzi.
BC: Hai vissuto in Colorado, in una ex cittadina di allevatori che è ancora in piedi solo per miracolo (e che magari non lo sarà più quando il settore delle birre artigianali smetterà di fruttare). Che cosa rende una determinata esperienza più degna di essere analizzata in un romanzo rispetto ad altre? Perché non scrivere invece un lungo saggio, o un memoir?
BN: Be’, diciamo che per me Lions è una metafora, un qualcosa che non avrei potuto tratteggiare con altrettanta efficacia in un saggio o un memoir. L’intelletto, la nostra cosiddetta capacità di razionalizzare, è uno strumento utile, ma resta soltanto questo, uno strumento, che per esperienza so essere imperfetto, perfino nelle sue versioni migliori. Essere umani non significa solo saper analizzare qualcosa logicamente o filosoficamente. Per me la scrittura è un altro strumento con cui esprimere, definire e percepire il mondo che mi circonda. In questo senso la vostra è una domanda molto interessante… Perché scrivere di determinate esperienze piuttosto che di altre? Mi capita spessissimo di parlare della mia vita con un amico o un familiare, e di sentirmi dire: «Ehi, dovresti scriverci una storia!». Ma io non provo lo stesso entusiasmo (e quindi altrettanto spesso rispondo: «Scrivicela tu, una storia!»).
BC: In Lions sono le storie di tanti fantasmi a legare le varie parti del romanzo. Perché hai deciso di scrivere di fantasmi?
BN: Credo che a volte le storie di fantasmi – che in pratica sono modi molto stravaganti di spiegare qualcosa – sostituiscano la realtà quando la verità è troppo difficile da sopportare. A mio parere quello che succede a Lions è inequivocabile, è una storia di dolore, ambizione e amore perduto, ma se cerchiamo una storia diversa perché crediamo che debba per forza essercene una – visto che ammettere le proprie colpe è troppo doloroso – be’, così facendo complichiamo e ingarbugliamo ciò che in realtà è in bella vista, chiaro e semplice, pronto a mostrarsi a noi se solo lo volessimo. La gente di Lions, come alcuni lettori, si lasciano facilmente sviare dalle storie di fantasmi.
E poi c’è che le città fantasma, come tutti i luoghi abbandonati e in rovina del West, sono posti stupendi. Non avrei proprio saputo inventarmi un’ambientazione più bella e struggente, una che fosse stata altrettanto viva, selvaggia e disperata.
BC: Lions è dedicato a tuo padre e all’esperienza che hai vissuto al suo fianco mentre era malato. Nel libro questa dolorosa meditazione si trasforma in qualcosa di meraviglioso. Tuo padre è riuscito a leggere l’ultima stesura di Lions? Come ha reagito?
BN: Grazie per le vostre parole gentili. Vorrei sempre rendere mio padre fiero di me con il mio lavoro, ma purtroppo no, non è riuscito a leggere la versione finale del romanzo. È riuscito a leggere la dedica, però, che ha commosso sia lui che mia madre fino alle lacrime. Una delle prime cose che ha dovuto abbandonare durante la malattia è stata la lettura, una delle sue più grandi passioni quando stava bene. Gli ultimi giorni che ho trascorso con lui siamo sempre stati in veranda a guardare gli alberi e il cielo, e abbiamo parlato, ascoltando musica.