IN CUI SI PARLA DI: John Wayne, intrattenimento per famiglie, Gesù hippy, Polk Salad Annie, Ed Begley Jr., Allman Brothers, tavolette del gabinetto rivestite di visone, baite, un uomo di nome Taj, un uomo di nome Tav, fascino del Far West

Un festival rock decreta la fine di una città americana

Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer, numero di luglio/agosto 2012

A undici anni Andy Barker sapeva già che cosa avrebbe fatto nella vita, ossia costruire una vera città del Vecchio West nel suo Stato, il North Carolina. A ventun anni, nelle lettere che le scriveva dalle trincee francesi della seconda guerra mondiale, parlò alla madre del suo progetto, dicendo «è una delle migliori idee che abbia avuto da quando ho un nuovo socio, Nostro Signore». Nel 1954, compiuti trent’anni, Barker trovò l’appezzamento di terra ideale nella zona delle Brushy Mountains alle porte di Statesville, in North Carolina. Chiuse la sua ditta di appalti a Charlotte e si trasferì con la moglie Ellenora e i suoi due figli, Tonda e Jet, in una baita di una sola stanza dove non arrivava né acqua né corrente.

Chiamò la sua città Love Valley.

È possibile che Barker si fosse lasciato un po’ troppo influenzare dalla passione per i film di John Wayne. Ma era anche un uomo pio con una visione ottimista del futuro. Nel 1998 Conrad Ostwalt, un professore di studi religiosi alla Appalachian State University di Boone, North Carolina, pubblicò una lusinghiera esegesi intitolata Love Valley: An American Utopia. «Andy Barker temeva di perdere il concetto di vastità» scrisse. «Non esiste più una frontiera sconfinata per gli uomini del ventesimo secolo… Centrale per la sua visione era la figura del pioniere che nell’immaginario di Barker viveva in armonia con la natura e il prossimo, e conduceva un’eroica vita fondata sull’indipendenza e la libertà».

Al momento della sua morte, nel 2011, Barker aveva ottantasette anni ed era il più vecchio e longevo sindaco ancora in carica della storia del North Carolina. Solo un anno, il 1991, era finito ai ballottaggi e non era stato eletto. Ma in sostanza era comunque lui a gestire tutto, tranne quella volta nel 1971 in cui lasciò volontariamente l’incarico e si trasferì fuori città dopo un disastroso festival rock che lui stesso aveva organizzato (forse ci aveva provato anche perché il sistema fognario della città lasciava a desiderare e quella gli era sembrata una buona occasione per raccogliere denaro).

Il festival era stato profeticamente chiamato Love Valley Thing.

Nei primi anni di Love Valley Andy Barker si preoccupò innanzitutto di mantenere un certo grado di autenticità. Ma traeva pur sempre ispirazione da Hollywood, mai dalla storia; per qualche tempo fece rispettare la regola di massima che i principali edifici affacciati sulla strada apparissero «vecchi di un secolo».

Ancor prima di costruire una casa per la sua famiglia, Barker, aveva costruito una chiesa che qualche tempo dopo si unì al presbiterio del North Carolina, ma che rimase per lo più di stampo ecumenico. L’intento di Barker era chiaro e semplice: «Impegnando i ragazzi nella gestione del posto, li terremo lontani dai guai» scriveva dalla sua trincea.

Nel corso dei primi decenni la cittadina crebbe lentamente; negli anni Sessanta si stima che ospitasse intorno ai settanta abitanti. I primi a installarvisi erano stati i genitori dello stesso Barker, seguiti più tardi da altri che si erano lasciati attrarre dalla promessa di una vita basata sui valori della comunità e sul più ruvido individualismo di frontiera.

Le comunità circostanti della Iredell County erano agricole, politicamente conservatrici, religiosamente più tradizionali e un tantino scettiche riguardo quell’impresa, ma sin dall’inizio fu priorità di Barker conquistarsi la loro fiducia. Il suo savoir-faire era motivo di vanto per Love Valley. Rodeo, balli in piazza, corse di cavalli, spettacoli pirotecnici per il quattro luglio: tutto questo contribuiva a consolidare l’auspicata immagine di una città insuperabile nel campo dell’intrattenimento per famiglie e a portare denaro nelle casse della suddetta. Del resto, costruire una comunità dal niente significava plasmarne l’economia utilizzando lo stesso legno e gli stessi chiodi con cui erano stati eretti gli edifici principali – e inizialmente, bisogna dire, l’approccio alla Uomo dei sogni di Barker funzionò: lui costruì e loro vennero (vennero, sì, e al loro arrivo non ricevettero neanche un bicchier d’acqua. Già, perché per diverso tempo la città rimase totalmente a secco, persino il saloon).

Al termine degli anni Sessanta, tuttavia, la fortuna cominciò a voltargli le spalle. Alcuni tentativi di avviare programmi di formazione per i giovani meno abbienti fallirono miseramente, a una corsa alla terra organizzata nel 1967 non si presentò nessuno e gli appassionati di rodeo furono lentamente sostituiti dai club di motociclisti. Barker fu entusiasta quando nel 1968 la 20th Century Fox dichiarò di aver scelto la cittadina e i suoi dintorni per girare John Brown’s Body, un film ambientato negli anni della guerra di secessione, ma alla fine non se ne fece nulla, come non si fece nulla del programma di trasferimento a Love Valley della tomba dell’eroe del North Carolina Tom Dula – idea alimentata dall’eventualità che fosse passato di lì diretto al luogo del processo e della sua conseguente impiccagione.

Al principio dell’estate del 1970 un festival del rock, a quanto pareva, era l’unica via che Barker non avesse ancora tentato.

Esempi della storia recente sconsigliavano fortemente di imbarcarsi in una simile impresa. Le sfortune di Woodstock risalivano ad appena un anno prima ed erano state seguite dalle tragedie di Altamont; Iredell County ne sapeva già qualcosa da un’esperienza avuta qualche anno prima, quando il crescente successo della musica folk tra i più giovani aveva portato a un picco di presenze di capelloni alla celebre Old Time Fiddler’s Convention a Union Grove (violazioni di proprietà e abuso di droghe risultarono in proteste da parte delle autorità locali, e condussero a uno scisma tra gli organizzatori dell’evento).

Andy Barker tuttavia sembrava sordo ai moniti della storia. Immerso nella sua missione di erigere questa piccola città come antidoto alla più vasta cultura americana, aveva perso contatto con i mutevoli aspetti della stessa, con i suoi sogni e i suoi rischi. Tutti quei giovani, pensava, avevano soltanto bisogno di un luogo sicuro, sano, familiare in cui godersi la loro musica (perché il rock and roll era la loro musica; Andy Barker ascoltava Tommy Dorsey, Guy Lombardo, roba da orchestra).

Love Valley Thing fu organizzato, o non organizzato, in quattro settimane (per Woodstock c’era voluto più di un anno prima che qualcuno salisse sul palco). Furono ingaggiati i Big Brother and the Holding Company (senza Janis, ovviamente) e Tony Joe White il cui singolo Polk Salad Annie era diventato un successo nel 1969: anche numerose band provenienti da tutto il Piedmont si erano fatte avanti. Il gruppo di punta era composto dai giovanissimi Allman Brothers, il cui disco era uscito l’anno prima.

Nel mese di luglio giunse all’orecchio di Tonda, la figlia di Barker, che i biglietti per il festival erano terminati e che ne stavano vendendo altrettanti falsi. Un qualche illustratore di cui nessuno a Love Valley ricorda il nome aveva creato un programma dell’evento che recava in copertina l’immagine di un uomo con la barba, a torso nudo (le braccia tese verso l’alto, le dita a formare il segno della pace, i capelli lunghi, una fascia intorno alla fronte: l’incarnazione del Gesù hippy).

Ai suoi piedi, in lettere cubitali rosso sangue: The Love Valley Thing. Una settimana prima le band iniziarono a confluire in città e il luogo fu predisposto ad accampamento. Gli ultimi chiodi furono conficcati nei recinti dell’arena del rodeo.

E la folla arrivò.

È impossibile stabilire l’esatto numero di coloro che parteciparono all’evento. Cinquantanovemila è un numero plausibile, – che è anche il numero dei pass ufficiali stampati e venduti a cinque dollari l’uno nei principali negozi di Winston-Salem e Charlotte, due delle maggiori città circostanti, nelle settimane immediatamente antecedenti al festival. Un numero imprecisato di avventori pagò in contanti ai cancelli; furono venduti altrettanti pass falsi, spesso a minor prezzo (durante le settimane successive al festival, furono trovati sparsi per la città brandelli di biglietti non del tutto identici a quelli ufficiali). Ma è probabile che la maggior parte del pubblico fosse entrato senza alcun biglietto, passando per i terreni delle fattorie che sorgevano nei dintorni e scavalcando le deboli recinzioni che gli uomini di Andy Baker avevano eretto lungo il perimetro dell’area dedicata all’evento. Non furono soltanto i terreni intorno alle case a essere danneggiati: la gente si accampava ovunque, faceva il bagno nuda nei laghi, abbandonava ogni genere di spazzatura nei canali dei ruscelli.

La prima notte il numero dei partecipanti raggiunse il suo picco: centocinquantamila persone, se non addirittura duecentomila.

Nessuna fonte pare affidabile. Ciò che accadde in quei giorni sembra non aver lasciato traccia, nonostante gli sforzi di Andy Barker di registrare la portata del fenomeno. Quell’estate, infatti, aveva rintracciato alcuni dipendenti della Fox, lasciati a bocca asciutta quando le riprese di John Brown’s Body erano state cancellate, e li aveva ingaggiati per girare un documentario sul festival; creò persino uno studio di registrazione, isolando acusticamente le vecchie prigioni della cittadina (un’altra voce nel suo curriculum: presidente della Love Valley Records). Al termine del fine settimana si contavano ore e ore di filmato, ma nessuno sa dove sia finito (o se non altro Tonda non vuole dirlo, e sospetto che nasconda qualcosa).

Uno dei membri della troupe era un ragazzino di nome Ed Begley Jr., che lavorava come assistente cameraman per racimolare un po’ di soldi, ma segretamente sognava di diventare attore – tra un’apparizione e l’altra nel ruolo dello «studente» ne Il computer con le scarpe da tennis (1969) e dello «studente n. 2» nella serie televisiva Bill Cosby Show (1970). Più tardi ovviamente fece di meglio: comparve in alcune puntate della serie A cuore aperto e in quasi tutti i film di Christopher Guest, e la sua carriera decollò. Ma per nove giorni, quell’estate, si trascinò dietro per tutta Love Valley una videocamera che pesava una tonnellata, per immortalare gli hippy nel loro – e suo – nuovo habitat.

«Non ricordo bene le varie esibizioni,» mi scrisse in una e-mail «è passato tanto tempo» (1970?).

Al termine di quel fine settimana si contarono ventiquattro arresti per droga, pochissimi se si pensa all’uso spudorato e poco accorto che si faceva allora delle droghe («Gli spacciatori ti vendevano di tutto, hashish, mescalina, speed, LSD, marijuana» riportava la United Press International il 18 luglio). Un medico che aveva offerto i suoi servigi per la durata del festival si rivelò essere uno spacciatore; Tonda lo fece beccare dalla DEA attirandolo in casa dei suoi.

Durante l’evento furono un centinaio gli arresti per furto, aggressione e uno per tentato stupro. L’unica vittima – Grant E. McIvors, ventun anni, soldato proveniente da Fort Benning – morì a quanto pare di infarto, probabilmente a causa dell’assunzione sconsiderata di droghe.

Harold Tester, ventisette anni, si beccò una pallottola, che tuttavia non lo uccise, durante uno scontro con il vicesceriffo che aveva fermato lui e i suoi amici sospettando che fossero entrati senza biglietto.

Numerose fonti riferiscono un episodio che ben illustra fino a che punto Barker non conoscesse la gente che aveva attirato a Love Valley. Era il tramonto. Andy Barker si avvicina al microfono sull’enorme palco di legno dando a tutti il benvenuto al festival. Secondo la UPI venne accolto con una standing ovation, e allora disse: «Grazie, bella gente. Lasciate che vi dica che vi amo tutti».

Poi, scrisse l’Australian Association Press, «il sindaco canuto chiese al pubblico di alzarsi e unirsi a lui nel canto [dell’inno nazionale], ma non ricevette reazioni. Molti strinsero e sollevarono silenziosamente i pugni, formando una V con le dita, il simbolo della pace. A metà inno Barker si interruppe, fece a sua volta una V con le dita e disse: “Sono con voi. Però adesso cantiamo”».

Mentre la UPI riportava: «Dopo numerosi e infruttuosi tentativi di coinvolgere le folle, Barker chiese di chinare il capo e “ringraziare Dio per averci permesso di vivere in un Paese in cui queste cose sono possibili”».

E la AAP: «Lo fischiarono quando tentò di convincerli a pregare».

Stando a quanto riportato dalla AAP, qualche ora prima Andy Barker aveva percorso il polveroso viale che attraversava la cittadina «dando il benvenuto ai giovani avventori ed esortandoli a “comportarsi bene”». La domenica mattina si sarebbe ritrovato nel bel mezzo di una faida tra gli Hells Angels e gli Outlaws, che si erano accodati alla folla di capelloni. Tonda osservava la scena dal secondo piano dell’unico motel della città e vide il padre chiedere ai capi delle due bande di deporre le armi (una gigantesca ascia e una catena). Fu ascoltato.

Quella sera Barker crollò sulla veranda di casa sua, e tutti pensarono all’infarto. Ellenora lo caricò sulla station wagon di famiglia e Tonda pensò che volesse portarlo in ospedale. Invece Ellenora guidò per tre ore fino a una pensione di High Meadows, dove erano soliti rifugiarsi per sfuggire alla pressione della città che avevano fondato. Stavolta, tuttavia, si trattava di una vera e propria fuga. Love Valley era stata presa d’assalto da un’orda di invasori.

Al termine del festival la città era ridotta a brandelli e la devastazione generale aveva travolto anche il mondo interiore che Andy Barker si era creato. Era stato talmente ingenuo, talmente ottimista e convinto che lui e la sua città, col suo piccolo festival, potessero rappresentare l’antidoto agli orrori e ai pericoli della società moderna, da non tenere conto – da non immaginare neanche di dovere tenere conto – di ciò che questo implicava. Lo capì solo quando la società moderna si riversò sulla sua Main Street, si accampò nei suoi boschi, demolì le sue recinzioni.

Nonostante tutto gli dicesse il contrario, Barker continuò a credere di avere a che fare con giovani idealisti. «[Papà] non credeva che quei ragazzi si drogassero» dice Tonda. «“Oh no, non sono drogati” esclamava. “Sono solo giovani in libertà”». Ci vollero centinaia di piante di marijuana spuntate in tutta la città, la progenie di tante riserve nascoste e mai più ritrovate, per convincerlo che si sbagliava.

Di lì a una settimana Andy Barker rientrò dal suo ritiro a High Meadows vagamente ristorato. Trascorse qualche mese a supervisionare le operazioni di pulizia e a trovare da fare alle decine di giovani che si erano trattenuti sul posto, ma mentre sia lui che Love Valley cercavano di rimettersi in piedi, l’indignazione generale si fece sentire: un comitato di cinquecento abitanti della comunità si appellò al raffazzonato regolamento della North Iredell Betterment Association per stabilire la portata e la durata dei futuri eventi, e su molte testate locali comparvero attacchi furibondi alla città e ai Barker. Gli affari colarono a picco; alcuni residenti si trasferirono altrove, non sopportando di vedere sconvolte le semplici vite che avrebbero voluto condurre stabilendosi lì. Nel gennaio del 1971 Andy Barker cedette la gestione della Love Valley Enterprises e della città stessa al figlio diciottenne, Jet, e si rintanò sul versante opposto della montagna, dove si rinchiuse in una piccola baita (così come era iniziata, la sua avventura terminò).

Trascorreva le giornate dedicandosi al suo orto e alle sue api. Ellenora andava a fargli visita nel fine settimana. Un giorno un giornalista del Charlotte Observer si presentò alla sua porta e nel suo articolo descrisse l’edificio che si trovò davanti: i pavimenti ricoperti di moquette, l’aria condizionata. Barker accennò anche al fatto di voler rivestire di visone la tavoletta del gabinetto.

Barker fece ritorno a Love Valley all’inizio del 1972, ma il fantasma del festival continuò ad tormentarlo per anni. Una volta che riuscii a mettermi in contatto con lui, mi parlò del festival in termini del tutto positivi. Disse che aveva decretato il successo degli Allman Brothers e che Love Valley Thing era stata la Woodstock del Sud. In altre occasioni fu meno nostalgico. Intervistato nel 2010 da Go, la rivista della compagnia aerea AirTran, espresse tutta la sua frustrazione per come erano andate le cose e la rabbia che covava da quarant’anni: «È stata la mia rovina».

Nel complesso, probabilmente riscosse del denaro da una persona su dieci tra gli intervenuti. Tonda afferma di aver dovuto racimolare centocinquantamila dollari per far fronte alle spese del festival. Fu di fatto la loro rovina.

Mi reco a Love Valley a metà gennaio, quando ancora la cittadina sonnecchia e ammazza il tempo in attesa della stagione estiva. Per le strade sterrate si aggirano famiglie in jeans e felpa col cappuccio in sella a pasciuti ronzini. La via principale, a parte le lucine natalizie che ancora adornano le entrate dei negozi e l’occasionale insegna luminosa che si accende e spegne, ricorda più che mai il Far West. All’interno del Silver Spur Saloon campeggia una gigantesca stufa, che tuttavia emana un ben misero calore. Ad appena qualche metro dal fuoco, infatti, si muore di freddo e l’unica traccia di vita è rappresentata dagli animali imbalsamati sparsi per il locale. In un angolo, dietro una pesante testa, si nasconde un palco. È qui che si esibiscono oggi le band. Tutte le band. Secondo quanto affermato sulle locandine attaccate ovunque, qui si svolgono anche lezioni di Zumba un paio di sere a settimana.

Love Valley è chiusa al traffico, ma il divieto a quanto pare vale solo per la Main Street, che non occupa più di un isolato. Il resto della città non è altro che un ammasso di case dal tetto in lamiera e le pareti in vinile, con un rimorchio arrugginito per cavalli nei cortili. Le vie portano il nome dei nipoti di Barker: Tori Pass, Drew Trail. I cactus si sprecano.

Negli anni successivi al festival Love Valley ha resistito. Il rodeo è stato riaperto e con la sua atmosfera hippy e il ritrovato immaginario da Far West, è diventata il rifugio ideale per gli artigiani: fabbri, pellai, ricamatori. Sono tornati anche i motociclisti e con loro anche le occasionali risse.

Tuttavia l’impatto del Love Valley Thing continua a farsi sentire ancora oggi. La comunità odierna è nata da quel festival, così come le piante di marijuana che da allora popolano la città. «Sono un prodotto del festival» dice un cameriere del Silver Spur Saloon. Si chiama Taj, da Taj Mahal, la leggenda del blues. Ha le braccia tatuate e dal cappellino Guinness spunta una lunga e sottile coda castana. Suo padre, il cui nome è Terry ma che tutti chiamano Honky, era partito alla volta di Love Valley dal Mississippi nel 1970, aveva attraversato tutto il Sud imbottito di acidi, si era perso e infine era giunto in città una settimana dopo la fine del festival. Non se ne era più andato. Aveva incontrato una donna e Taj era arrivato poco dopo.

Un uomo di nome Tav (senza legami di parentela con Taj) mi racconta una storia simile. Avevo lasciato un messaggio sulla bacheca di un sito di fan degli Allman Brothers chiedendo se qualcuno avesse degli aneddoti sul festival, e la sua è stata l’unica risposta che ho ricevuto, un’e-mail lunga una pagina e mezzo. Conosceva bene gli Allman Brothers (pare che suo padre gli avesse lasciato la casa sul lago vicino Macon per registrare Idlewild South, il loro secondo album); li aveva visti esibirsi all’Atlanta International Pop Festival il fine settimana precedente, ma non era riuscito a recarsi a Love Valley – era sempre sotto acido ed era rimasto scioccato quando un amico era finito in manicomio per un brutto trip. Ma scrisse: «Poi è arrivato un angelo, un tizio di cui non ricordo il nome, ha fermato la macchina e mi ha detto salta su, so io dove portarti. Ti porto a Love Valley».

Tav era amico di una band chiamata Flood, che doveva suonare al festival. I componenti del gruppo si trattennero in città dopo l’evento, nonostante avessero perso tutto quando un roadie era finito in un lago con il loro furgone. Non si fa cenno a questo episodio nel brano che registrarono nei paraggi della città, Love Valley, U.S.S., in cui invece rendono omaggio ad Andy Barker e alla sua «ospitalità».

Taj, che deve la propria esistenza all’amore del padre per questi luoghi, rappresenta la nuova generazione di abitanti di Love Valley, del tutto insensibile al fascino del Far West. Mi racconta di non essere mai montato a cavallo, più che altro perché crescendo ha iniziato a odiare quella finta vita da cowboy (e perché una mountain bike non ha bisogno di essere sverminata). Per lui Love Valley non ha mai simboleggiato una via di fuga dalla società; a scuola lo prendevano in giro perché era nato nella città dei cowboy, e nella città dei cowboy lo prendevano in giro perché era un piccolo hippy (nella comunità c’era tensione fra cowboy, hippy e motociclisti, e come in tanti minuscoli centri abitati del Sud, c’era sempre chi non si faceva gli affari propri, il razzismo e una generale ristrettezza di vedute). Come fanno spesso i ragazzi, non appena poté Taj lasciò la città.

Per quasi dieci anni passò da un lavoro a un altro senza avere fissa dimora; iniziò a vivere in una tenda e non gli dispiaceva, ma poi arrivarono l’inverno e la neve. Il padre gli fece visita il giorno di Natale, vide le condizioni in cui versava e lo fece tornare a casa per rimettersi in sesto e risparmiare un po’ di denaro. Doveva essere una misura temporanea, dice Taj, ma sono passati tre anni. Ora, a ventinove anni, apprezza Love Valley in un modo che da ragazzino non gli era mai riuscito. Ora gli hippy si tatuano e i cowboy fumano erba, le risse sono rare. Taj dice di essersi «integrato». E poi ha degli amici, ha la sua mountain bike e anche se non è un granché lavora al saloon. Gli domando se pensa mai di andarsene. Mi risponde subito e con fermezza: «No, non me ne vado più. Questa è casa mia».

Forse Andy Baker si era immaginato di lasciare un’eredità ben diversa quando fondò Love Valley, ma il suo spirito infesta ancora, in senso buono, le vie del paese. Quando sono arrivato ho avvertito immediatamente la sua assenza, e non lo dico con fare nostalgico da hippy. Accanto alla sua vecchia casa in Main Street c’è ancora il suo posto auto vuoto, e un cartello di legno recita in lettere rosse: Andy Baker – Sindaco. Sotto ce n’è un altro su cui si legge: Riservato al nonno migliore del mondo. È come se fosse partito per un viaggio e ci si aspettasse di vederlo tornare in ogni momento.

Ad ogni modo la sua famiglia non ha adottato lo stesso atteggiamento «ospitale», almeno non per portare denaro nelle casse di Love Valley, e mi sento di dire che non ha tutti i torti. La città ha imparato dai propri errori. I motivi per cui Love Valley non dovrebbe organizzare un festival oggi sono gli stessi per cui non avrebbe dovuto farlo allora, ossia per mancanza di risorse, per l’impossibilità di controllare il perimetro e mancanza di personale che sappia gestire più di poche centinaia di appassionati di rodeo.

«Me ne vado» dice ridendo Tonda. «Se qualcuno ci riprova, me ne vado».

*

Rachael Maddux è editor e scrittrice. I suoi saggi sono apparsi su The Paris Review Daily, Oxford American, The Believer e Guernica. Vive ad Atlanta, in Georgia.

Titolo originale: The Woodstock of the South @Rachael Maddux, all rights reserved