Questo articolo è apparso originariamente su Hobart il 3 giugno 2019

 

Sei piedi che cercano un appoggio, nel retro dell’abitacolo della Buick Regal del padre di Mark. Sono i suoi amici – Justin, Ish e Andy, giocatori di football al primo anno di liceo, come Mark, dal collo tozzo e ubriachi proprio come lui, corpi addestrati alla violenza, in ballo come lui per qualsiasi avventura. Solo che Mark è seduto davanti, di fianco al padre che guida, mano sinistra centrata sopra il volante, nella destra un Gin Gimlet appena fatto, una parte sciroppo di lime Rose, tre parti gin Gordon – «benzina da strada», come lo chiama il suo vecchio. Dietro non c’è molto spazio per via della merce di contrabbando ai piedi degli amici: un piede di porco, più ruggine che ferro; due mazze da baseball di alluminio dai tempi dei campionati giovanili e un pesante attrezzo da giardino che sembra un cacciavite di un metro a punta piatta e con il manico di gomma. Non ha idea né del nome né della sua funzione originaria, ma suo padre ha pensato che fosse perfetto come arma: «Sembra uscito da Braveheart» ha detto, agitandolo nel garage prima di partire.

«È presto» dice il padre mentre controlla l’orologio digitale sul cruscotto. Cerca di poggiare il suo Gimlet nel portabibite lì accanto, ma la base del bicchiere da due soldi è troppo larga.

«Te lo tengo io?» chiede Mark, da figlio diligente.

«Non si ribalta. Fidati». Spinge l’accendisigari e tira fuori una Merit dal pacchetto sul cruscotto. «Che ne dite, ragazzi? Vi va di fare tappa da Wendy’s? Gli hamburger li offro io».

I tre dietro esultano. «Cazzo sì» dicono. «Potremmo sfondarci di hamburger» dicono.

«Quel che pensavo. Tanto Kim non finisce il turno prima delle dieci. Abbiamo un sacco di tempo per riempirci lo stomaco».

Mark pensa alla sorella durante il turno di chiusura da American Eagle, mentre piega maglioni da fighetti a fine giornata, getta uno sguardo all’orologio e uno fuori dalla finestra verso il Chick Filet nell’area ristorazione, dove lavora la ragazza che, insieme al fidanzato, ha seguito Kim fino a casa le ultime tre notti, minacciando di sfondarle i denti a calci. Mark non conosce i motivi dietro la minaccia o cosa Kim possa aver fatto per innescarla, ma pensa di sapere perché la sorella non abbia detto nulla fino a quella mattina. Guarda il padre, il Gimlet, i suoi amici e le armi ai loro piedi e si rende conto di capirla alla perfezione.

Attendono alla finestra della cassa, la Buick in folle, il motore che gorgoglia. Il padre sgranocchia il ghiaccio rimasto dal Gimlet e racconta la propria adolescenza violenta. «Voi ragazzi non la conoscete, la violenza. Siete cresciuti al sicuro in periferia. Sì, siete finiti in qualche rissa. Non siete delle fighette, questo è sicuro. Ma il Bronx negli anni Cinquanta? Quello era un’altra cosa. Vi ho mai raccontato di quel tale con la coda di cavallo che abbiamo lanciato contro la vetrina di una tavola calda, giù al Queens? Vetro del cazzo dappertutto. Ve l’ho mai raccontata quella?»

Mark l’ha già sentita. Le ha sentite tutte, le brutali leggende paterne. I suoi amici invece no, o forse sì, ma sarebbero contenti di ascoltarla di nuovo. Gli chiedono del vetro nel Queens. Lui racconta, paga gli hamburger, e mentre guidano verso il centro commerciale, come a incoraggiarli, un generale rivolto alle truppe, descrive risse con bottiglie spaccate, botte ai ragazzi neri perché lui era bianco, agli italiani e ai polacchi perché era ebreo, ai ricchi perché era povero. Botte, botte e ancora botte, finché non raggiungono il Riverside Square, tra le poche auto a entrare nel parcheggio mentre tutte le altre escono in un flusso lento verso il traffico scorrevole di un giovedì sera. Mark sa che le storie non sono finite. Non finiscono mai. Ma adesso sono qui. È tempo di fare la loro, di storia.

«Kim ha detto che guidava una Toyota Camry verde con vetri oscurati e spoiler. Non ci si può fidare dei vetri oscurati. Significa che hai qualcosa da nascondere» afferma suo padre, mentre si accende una sigaretta e spegne l’auto. Sono davanti all’entrata principale. «Occhi aperti, ragazzi. Toyota Camry verde guidata da due idioti che non sanno a chi sono andati a rompere il cazzo. E non dimenticate di scegliere il vostro ferro. Dobbiamo intimidire. Una macchina a caccia di guai».

Ish sceglie lo strano attrezzo da giardino. Andy e Justin, da bravi atleti, prendono una mazza ciascuno.

«Che si fa se non sono intimiditi?» chiede Mark.

«Che?» risponde il padre, vedendo a fatica oltre gli strati di fumo che ricoprono l’interno del parabrezza, pur di non aprire il finestrino alla fredda notte di gennaio del New Jersey settentrionale.

«La ragazza del Chick Filet e il fidanzato. Che si fa se non sono intimiditi?»

«Suppongo che dovremmo fare qualcosa di intimidatorio».

I ragazzi dietro esultano, stappano un altro giro di Rolling Rocks dalla cassa portata dal padre. C’è puzza di birra, fritto, fumo e sudore.

«Tipo cosa?»

«Ti ho mai raccontato di mio zio Larry? L’allenatore di Sugar Ray?»

«Sì, papà».

«Lo chiamavano “Lolly”. Sai perché?»

«Perché era dolce come uno zucchero».

Suo padre ride. «Te l’ho già raccontata quella, eh? Be’, è vera. Il tipo più dolce mai incontrato. Generoso, anche. Andava a spezzar gambe per i Teamster quando non rimediava da lavorare sul ring».

I ragazzi dietro se la ridono. Andy tiene la mazza tra le gambe come un’erezione di metallo. Altre risate.

Una macchina si avvicina piano, una berlina scura di cui Mark non distingue né marca né modello.

«La vedi? È una Camry?»

«Non saprei. Si vede a malapena dal parabrezza» dice Mark, ma non fa una mossa per pulirlo. La macchina prosegue oltre l’entrata, verso il parcheggio di fronte al cinema.

«Ti ho mai raccontato di quei furgoni postali che andavamo a rubare? Quelli sì che erano bei tempi. Gran posti in cui crescere. Peccato per voi, ragazzi, non averli vissuti».

Kim esce dal centro commerciale. Suo padre la vede, gira la chiave nel quadro quel tanto che basta per farle gli abbaglianti. Sembra piccola nonostante sia lontana soltanto una decina di metri. Minuta, pensa Mark. Diversa dalla sorella maggiore, più come una persona normale, una persona piccola in un mondo grande. Apre la portiera per raggiungerla, lasciando il piede di porco incastrato tra il cruscotto e il sedile. La berlina, però, ritorna, avanza piano in direzione della sorella.

«Quella lì? Mark, è quella la macchina? È una Toyota?»

Mark ha un piede a terra e uno nell’abitacolo. Riconosce l’auto. È una Toyota. Verde.

«È una Toyota» dice, mentre il suo stomaco si contorce.

«Che modello?»

Mark guarda e non vorrebbe dirlo, ma non può opporsi al padre, al peso del suo passato. «Una Camry».

Il padre apre la portiera e fa schizzare nel buio la Merit fumata a metà. «Ci siamo ragazzi, si va in scena».

*

Kent Kosack è uno scrittore e dottorando all’Università di Pittsburgh dove insegna composizione e scrittura creativa. Sta lavorando a un romanzo e a una raccolta di racconti. I suoi lavori sono stati pubblicati, o lo saranno prossimamente, su Sonora Review, Tin House (Flash Fidelity), the Cincinnati Review (miCRO series), Columbia Journal, 45th Parallel e altri. Per informazioni, il suo sito è: www.kentkosack.com.

Titolo originale Make and Model, copyright @Kent Kosack, all rights reserved
Traduzione di Sara Tuveri