Questo racconto è apparso originariamente su Hobart il 3 dicembre 2018

Suo marito coltivava gli jalapeño in giardino, insieme a timidi pomodori cuore di bue e a qualche pallido cetriolo. Aveva provato con la lattuga e persino con le angurie Sugar Baby ma, appena mature, i procioni avevano spaccato le scorze verde scuro per estrarne la polpa succosa, lasciando le bucce tra le foglie di lattuga strappate. Gli jalapeño tenevano duro contro ogni intruso, maturando un liscio splendore e una pienezza lussuosa che la mettevano a disagio, vista la quantità di tempo che suo marito passava a incoraggiarne la crescita e a lodarne vitalità e colore.

Lei non faceva giardinaggio, non era affascinata da quelle forze naturali che facevano venire le bolle in fronte al marito e gli incrostavano le unghie, al punto che quando la toccava non riusciva a pensare ad altro se non a vermi, letame e pelle squamata dal sole. Questo non le impediva però di fare caso alla tenerezza con cui guardava crescere il raccolto. In giardino non c’era un rubinetto, quindi riempiva l’annaffiatoio color rame nel lavello della cucina facendo di continuo avanti e indietro. Giorno dopo giorno.

Lei osservava dalla finestra della cucina. Alcune settimane prima del raccolto, aveva preso una coppia di mastini inglesi con l’intenzione di farli accoppiare e vendere i grossi cani per qualche soldo. Le piacevano la stazza e la dentatura, il modo in cui tiravano il collare quando li portava fuori, il «collare a strozzo», come l’aveva chiamato il cassiere del negozio di animali guardandola con disapprovazione. Le punte di metallo premevano contro le pieghe spesse di pelle del collo non appena provavano a correrle avanti, impedendo ai cani forzuti di trascinarla dove non voleva andare. Erano troppo grandi per stare in casa, e allora mordevano le catene delle loro nuove gabbie abbaiando al passaggio di suo marito, che agitava felice l’annaffiatoio color rame sul suo pezzetto di fango. I pomodori erano maturati del tutto, la timidezza iniziale celava una forza che adesso faceva piegare gli steli fino quasi a spezzarli. Lei odiava i pomodori crudi e, quando lui li cospargeva di sale e glieli masticava davanti tra gemiti di piacere, con quei globuli rosati e gelatinosi accumulati ai lati della bocca, le strappava sempre una smorfia di disgusto. 

«Prova. Stavolta ti piaceranno. Sono freschissimi!» le diceva.

Aveva visto i cani defecare nell’orto quando li aveva fatti uscire di notte a scorrazzare, aveva visto le scie luccicanti delle lumache e le impronte dei procioni.

«No, grazie» rispondeva.

Divise i pezzi di fegato di mucca, comprati in blocco e poi conservati in un ampio secchio bianco. I cani erano tranquilli, stanchi di abbaiare. Suo marito aveva passato tutta la mattina a strappare, attorcigliare, diserbare e ripiantare. Il lavandino grondava sangue, carico di carne cruda che preparava per le ciotole di vetro già colme di grumi di riso cotto e croccantini. Doveva iniziare presto a far accoppiare i cani se voleva permettersi il loro mantenimento, e l’uomo che glieli aveva venduti le aveva venduto anche il fegato. Dicevano che aiutava molto. Aveva iniziato a cucinare fegato con le cipolle anche per sé e suo marito, scottandolo appena perché sanguinasse al taglio. Teneva d’occhio entrambi in cerca di cambiamenti nella loro virilità, ma decise di smettere di sprecare i pasti dei cani non appena il marito prese a dire di coltivare cipolle per il fegato la stagione successiva. Di lì passava a parlare dei peperoncini, quegli splendidi peperoncini. E ancor peggio, a dire che aveva intenzione di portare in mostra ai vicini quegli orrendi pomodori bavosi, e quei peperoncini maturi e lisci come la seta. Gli avrebbe raccontato quanto tempo ci avevano messo a crescere, cosa avrebbe piantato l’anno successivo, gli avrebbe offerto un assaggio e chiesto un parere senza nascondere l’orgoglio nella sua voce.

Mentre preparava le ciotole con riso e croccantini, lo aveva osservato dalla cucina scegliere il meglio del raccolto, pregando Dio che i cani glielo calpestassero una volta per tutte. Lui aveva provato a dargli un paio dei pomodori più piccoli. Perlomeno li avevano sputati, ma non troppo in fretta. Non abbastanza in fretta.

Appena uscì per dare da mangiare ai mastini, fu ancora più arduo non considerare la fatica che comportava quel suo lavoro: il caldo, il sudore, il modo in cui ti costringeva a piegare la schiena. Si fermò un attimo di troppo, mentre i cani leccavano nelle ciotole quel che restava del pasto. Lui si voltò, raggiante, con il cestino pieno. Le mostrò lentamente, pazientemente ogni esemplare, presentando ciascuno come fosse un vero e proprio piatto.

«Ho lasciato alcuni jalapeño a crescere ancora. Diventeranno rossi, più piccanti, più dolci».

«Sono due cose diverse».

«Interessante, no?»

«Quindi questi non sono nemmeno piccanti?» si lamentò lei. Suo marito alzò un sopracciglio.

«Be’, un po’ di grinta ce l’hanno».

Lei prese il più grosso dal cestino, lo scrutò come fosse un nemico e lo addentò, mordendo fino alla punta delle dita. Continuò a masticare, incurante del sapore e della piccantezza, deglutendo e prendendone uno dietro l’altro. Lui la guardò buttare quelle teste mozze una ad una, una pila che cresceva fra i latrati dei mastini, fino a che non scomparvero tutti.

*

Margaret Spilman è originaria del West Virginia, è cresciuta in Kansas e ora vive nella Bay Area. Si è laureata alla San Francisco State University, dove era editor di narrativa per Fourteen Hills: The SFSU review. È stata fra i sei autori selezionati per la PEN Emerging Voices Fellowship nel 2014. Il suo racconto «Muscle Memory» ha vinto il James Kirkwood Literary Prize. Di recente i suoi scritti sono stati pubblicati su Catapult, Indicia e The Rattling Wall.

Titolo originale The Care And Feeding Of Growing Things, @ Margaret Spilman, all rights reserved
Traduzione di Agnese Capaccioli