Questo pezzo è apparso originariamente su Bennington Review numero 2, autunno/inverno 2016
«Il tuo sorriso mi fa sciogliere» dice, dal suo lato del letto. Le finestre sono aperte, si affacciano su una sera afosa di maggio a New York. È come se il calore si innalzasse dall’asfalto e salisse su, verso le finestre spalancate, trovando riparo nei nostri corpi. Persino lo chardonnay della cena ha avuto bisogno di un cubetto di ghiaccio, a metà pasto. Ora, invece, siamo nella sua stanza, ci spogliamo a luci accese.
«Scommetto che te lo dicono in continuazione, puttanella».
Rido. «I ragazzi con cui ho fatto sesso potrei contarli sulle dita di una mano, e me ne avanzerebbero pure. Tipo questo» dico, alzando il dito medio.
«Sei proprio un ragazzaccio. Qualcuno dovrebbe rimetterti a posto».
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Non mi ha violentato quella notte.
Non è questo che sono venuto a raccontarti.
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Ho guidato da Pittsburgh a New York per conoscere M., eccitato da un uomo per la prima volta da quando ho rotto con Brandon. M. si è appena trasferito in città dalla zona più a nord dello Stato, per un nuovo lavoro. Gli ho chiesto di cosa si trattasse, mi ha risposto soltanto, «Sono un ricercatore all’università». Stando al suo profilo online, senza alcuna foto, risiede in New Jersey. Ha l’accento sudafricano. Mi ha mandato delle foto a torso nudo, ma senza rivelare il suo cognome. «Te lo dico quando ci incontriamo».
È muscoloso, atletico in un modo che rende piacevole abbracciarlo.
Insegna musica, legge i poeti contemporanei, compone.
È il nostro primo appuntamento. Siamo nella sua stanza, dopo cena. Il movimento elastico del suo petto che si espande per poi rilassarsi mi secca la bocca. Mi guarda anche lui, e quando arrossisco sotto il suo sguardo, sorridendo per il suo apprezzamento, mi incoraggia con quella battuta: Il tuo sorriso mi fa sciogliere. Lui è tutto ciò che voglio in un uomo: sincerità, desiderio e un fisico atletico. Qualcuno da sciogliere. Puttanella.
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«Il mio cazzo è progettato per scopare» scrive in un’e-mail, prima di incontrarci. «Se vuoi venire, dovresti farlo mentre ti sto scopando. Quando ho finito di solito ho solo voglia di dormire».
Che razza di persona sono se tutto questo mi eccita? Quasi come la citazione di Breyten Breytenbach che ha in calce alla sua firma: «La memoria esiliata è la lenta arte del dimenticare il colore del fuoco».
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Un uomo che ama la poesia. Un uomo consapevole che esilio e freddezza sono in rapporto diretto. È questo l’uomo che mi avrebbe violentato.
Ma non ancora.
Il suo letto: la miglior notte di sonno della mia vita.
Ricordo l’alba al mattino. Che cosa mi ricordo: il modo in cui la luce restituiva il suo corpo al mondo.
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Ho paura di scrivere il nome del mio stupratore.
C’è una teoria secondo cui i nomi contengono le proprie parole chiave: il nome è sempre all’interno, attende di germogliare dal proprio seme, di venire estratto dalla sua vera essenza.
Un’altra teoria: i nomi sono imposti, e una volta che un nome si lega a qualcosa, la recide, esclude altre possibilità. Il nome come puntura, il nome come un veleno. Denominare una cosa la snatura. La macchia con il colore del nome. Stando a questa teoria siamo noi a tendere verso i nostri nomi, mentre secondo l’altra sono loro a tendere verso di noi.
In qualsiasi modo tu lo guardi, in qualsiasi modo tu lo svesta, è il desiderio che trovi, ansimante al centro del nome.
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Quando ci incontriamo ha indosso una polo verde e dei pantaloncini beige.
Dice che sta andando al funerale della madre di un amico, che tornerà il giorno dopo.
Mi lascia restare nel suo appartamento, un monolocale che divide con il suo migliore amico, ma solo «finché lui non trova un altro posto».
Chi si veste in quel modo per andare a un funerale? Quale funerale è mai durato fino al giorno successivo? E perché il suo migliore amico è in tutte le fotografie della casa? Queste domande appartengono a una sfera di realtà di cui non conosco il nome.
Rientra presto, mentre sto dormendo.
Mi sveglia di colpo.
È un ottimo baciatore.
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violentare (v): indurre con coercizione o suggestione. Obsoleto.
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Alcuni mesi più tardi, ormai abbiamo smesso di frequentarci da tempo, mi sorprendo di vederlo in un supermercato di Pittsburgh, a un distributore in Missouri, mentre ordina un bourbon in un bar di Tucson, il Plush, e in un McDonald’s di Cicero, New York. Passeggia davanti ai surgelati indossando un cappotto. Sul marciapiede con dei jeans larghi. Dall’altra parte della stanza, a una festa, con gli occhi che guizzano per il troppo bourbon. Ha sempre le spalle dritte, la postura disinvolta. Il tempo sembra rallentare e velocizzarsi insieme, come in quei montaggi cinematografici quando la protagonista vede il suo innamorato e all’improvviso l’inquadratura va a fuoco e fuori fuoco. Dimentico non tanto di respirare, ma proprio di avere un respiro. È così che capisco di essere stato saccheggiato: il tempo si è insinuato nel mio sangue, diffondendo il rigor mortis nelle mie arterie con diversi minuti di anticipo. Lo vedo dappertutto. Lui è ogni uomo. Voglio scappare.
Se solo mi avesse lasciato le gambe.
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La prima volta che ci vediamo resto da lui tre notti per il ponte del Memorial Day. Durante il sesso dico «Scopami più forte», e mi chiede di star zitto, per favore, poi mi copre la bocca con una mano visto che non posso o non voglio obbedirgli.
La prima volta che ci vediamo mangiamo gelato al tè verde per dessert, ma «soltanto una cucchiaiata».
Abita nello stesso palazzo della dottoressa Ruth; la incontro in ascensore ma non dico una parola. Immagino che ci senta dall’altro lato del muro, prendendo appunti, dandoci il voto con i suoi cartoncini.
Il suo amico dorme sul divano in soggiorno. È un po’ in carne, come me, e ha un viso bellissimo. Sul comodino c’è una sua foto in bianco e nero con M., vestiti da cowboy. Una sera l’amico prepara la cena per tutti e tre e M. esce a ricomprare il gelato. Il coinquilino si volta verso di me: «Per tua informazione, caro, sono sempre stato io la costante della sua vita. Sono La Madre» dice, le lettere maiuscole che fendono l’aria in Times New Roman. Il giorno successivo, dopo aver fatto colazione, La Madre chiede «Mi daresti ventotto anni?», con il computer acceso davanti e il telefono pronto a scattare una foto. «Non credo» rispondo, pensieroso, nel tentativo di essere sincero. «Ma c’è da dire che sono un disastro a indovinare le età».
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M. ha detto di avere trentacinque anni.
Google diceva che erano quarantadue.
Mentre mangiamo il gelato al tè verde, l’ho invitato a googlarsi, così avrebbe trovato l’articolo che indicava la sua vera età. Volevo che sapesse che sapevo, che non ero uno stupido, che non ero superficiale.
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(Non ho mai pensato all’arte come a una forma di vendetta, a me stesso come vendicativo, ma ora temo che questa cosa si stia trasformando in una ritorsione. E allora? Forse alla scrittura contemporanea potrebbe giovare un po’ più di carne al fuoco. Come dice Anne Lamott, «Se la gente volesse essere descritta amorevolmente, forse dovrebbe comportarsi un po’ meglio».
Meglio che tu lo sappia adesso: se anche questa fosse solo una storia, non sarei io l’eroe).
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La seconda volta che vado a trovarlo, ad agosto, ho la sensazione di aver provocato un litigio tra M. e La Madre.
M. e io ci siamo scritti saltuariamente. C’è una lunga e-mail piena di descrizioni accattivanti che racconta di una corsa di chilometri lungo il Reno. È la lettera che rileggo quando voglio convincermi che ci siano basi solide fra noi, e non una struttura traballante fatta di aria. Si conclude con il racconto di M. che si spoglia come mamma l’ha fatto e si tuffa nel fiume, a purificarsi in mezzo a tutto quel blu.
Ma non l’ho più sentito dal suo ritorno dall’Italia: neanche un saluto, e di certo nessun invito. L’unico modo in cui sono riuscito a rinfilarmi nel suo appartamento è stato inventandomi una scusa per fare un salto in città. M. mi ha concesso una notte. E quindi La Madre è finita di nuovo sul divano.
A letto, M. dice che è un peccato che mi ostini a usare il preservativo, prende tempo tenendone uno fra le dita, chiuso, agitandolo verso di me come un’offerta. Un sacrificio.
Scoppio a ridere e faccio segno di no.
Siamo sdraiati nudi sul letto, lui è sopra di me, ho le gambe contro il suo petto e le caviglie incastrate nei solchi dei suoi bicipiti definiti.
Dico, Scopami più forte. Dice, Sta’ zitto. Mi infila quattro dita in bocca, le richiude a uncino dietro i denti di sotto. Con l’altro braccio mi blocca le gambe, spingendomele contro il petto. L’aria si ferma attorno a me. Voglio dire, ma non riesco a dire, no.
Ho nella testa il colore del fuoco. Ci impiega trenta secondi, forse meno, a riempire il preservativo e buttarsi sul letto. Osservo questa scena dall’alto, come una terza persona che sa che c’è qualcosa di sbagliato.
Il mio io impiega molto tempo prima di rientrare in me.
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Natale 2008, siamo a casa dei miei in Indiana, mio fratello Dustin sta scartando un regalo di mia madre. Un segnaporta con scritto Mi piacevi di più prima di conoscerti così bene, forse una delle affermazioni più cattive che abbia mai sentito. Ovviamente la adoro, ovviamente mi fa pensare a M., che è ancora l’ultima persona ad avermi visto nudo. Mi piacevi di più quando eri una mia fantasia. Prima che rovinassi la forma che ti avevo dato. Che distruggessi te stesso con la persona che sei.
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Denominare (v): descrivere, nominare. Incastonare in un nome tutto ciò che qualcosa può essere.
Denominare (v): nominare da, nominare per sottrazione, delimitare tutto ciò che qualcosa può essere.
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In bagno, una macchia di sangue galleggia nel water. Un livido mi affiora sul petto.
Lui è sdraiato a letto, con una gamba sollevata, ancora nudo. Le finestre sono aperte, nulla riesce a smuoverle.
Mi faccio strada fra le sue gambe e inizio a leccargli il cazzo moscio finché non torna duro. Lo bacio sulla pancia, sul petto, gli mordo una spalla e gli sussurro in un orecchio, «Scopami ancora». Ci mette un po’ a venire, ma alla fine ci riesce, a malapena, noto, tenendo gli occhi chiusi per tutto il tempo. Mentre pensa a un altro corpo. Quest’altro, disastroso, che abito va a dormire pervaso da un senso di vittoria.
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È mattina, dorme con espressione innocente. Preparo la colazione, uova con mozzarella e spinaci. Dal corridoio mugugna un buongiorno sbadigliando.
«Ho fatto il caffè» dico. Il buongiorno del mio tono potrebbe risultare esagerato.
Poi i suoi occhi si accendono e dice, «Ti ho fatto male stanotte?». Sulle labbra ha un accenno di sorriso.
«Non potresti mai farmi del male» rispondo, e abbasso la testa verso il tavolo.
Mangiamo le uova in silenzio.
Chiedo se posso fermami un altro giorno. È infastidito, ma dice di sì. Trascorriamo la giornata in stanze diverse, ciascuno con la sua colonna sonora. La notte non facciamo sesso. M., La Madre e io ci infiliamo a letto a guardare qualcosa di divertente finché non ci addormentiamo.
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Prima dell’inizio delle lezioni gli scrivo per chiedergli di vederci più spesso. Faccio una proposta: due fine settimana al mese, fino a che non smettiamo di divertirci. Mi risponde, Non posso complicarmi la vita, adesso. Tutte le cose che già sapevo ma che tenevo a bada mi sfrecciano addosso dalla finestra.
Per sei mesi descrivo la cosa agli amici dicendo: «Ma io non ho detto di no».
Non è che sia stato stuprato, dico.
Mi vergogno di tutte le necessità che sento dentro e che lo hanno fatto scappare. Tutte quelle frasi sdolcinate che ho scritto per cercare di farmi amare da lui.
Mi piacevo di più prima di conoscermi così bene.
Rimango casto per sei mesi.
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Impiego altri sei mesi prima di riuscire a usare la parola «stupro». Prima di potermi definire una «vittima». Le vittime di stupro hanno:
– sei volte più probabilità di soffrire di disturbi post-traumatici da stress;
– ventisei volte più probabilità di abusare di droghe;
– quattro volte più probabilità di considerare il suicidio.
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È inverno, sono nel nord dello Stato di New York e la neve arriva alle finestre. La mia macchina è nel parcheggio, tutto è silenzioso e sto guardando un episodio di The Real Housewives of New Jersey quando esco fuori dal mio corpo. Cammino in un paesaggio innevato. Sento il peso di una pistola in mano, è la cosa più pesante che terrò mai. Cammino senza problemi nei vialetti spalati, indosso pantaloni rossi e una t-shirt grigia, raggiungo gli alberi in lontananza dietro casa. Non mi volto a guardare la strada, invece mi infilo la pistola in bocca, all’inizio solo per sentire le labbra aprirsi su di essa, sorpreso dalla familiarità del metallo contro i denti, da come afferma la sua superiorità, che è reale, non riesco a impedirgli di raggiungere il palato invaso dal freddo. Non sento niente. Il mio io svanisce come il rumore della neve che si posa su altra neve. E poi anche quel suono inizia ad allontanarsi, sempre più impercettibile…
E quando torno nel mio corpo, in me stesso, la puntata è finita e io tremo dal freddo, che mi è entrato dentro senza avvertirmi, senza che me ne accorgessi.
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A volte sono a letto da solo che penso a pettorali scolpiti, braccia muscolose, onde sull’addome. Sto piegando lo spazio, piegando lui per formare un corpo che soddisfi le mie esigenze, lo rendo concreto, un oggetto con cui giocare.
Finché non vedo i suoi occhi. Un blu acceso come una fiamma. La mano si ferma, scottata, provo imbarazzo e cerco, di nuovo, un asciugamano.
Questo rituale. Più notti di quante mi piaccia ammettere. Dare avvio alla tenerezza più privata, e poi fermarla.
O, peggio, portarla a termine perché non riuscivo a smettere di premere sul livido del ricordo di lui.
*
Quella prima notte, da soli nel suo appartamento, guardavamo dalla finestra il George Washington Bridge, la luce che trapelava dalla sua struttura, una lunga macchia scintillante visibile da lassù, al nono piano. Gli stavo parlando del mio libro preferito, Un altro mondo, che inizia con Rufus, il protagonista, che si getta da quel ponte. «È per questo che ti piace?» mi aveva chiesto, esterrefatto, scioccato. Avevo balbettato una risposta. La morte non è più o meno affascinante di qualsiasi altra banale sofferenza, mi ha detto.
Più tardi, M. ha messo su un disco registrato con un amico in un’antica chiesa inglese. Il suono non assomigliava a nessun altro pianoforte avessi sentito in vita mia, era di una bellezza così inquieta e a tratti discordante che non riusciva a contenere tutte le sue eco. Ogni nota si trascinava anche nelle due successive. M. mi ha spiegato che avevano sollevato il coperchio del vecchio pianoforte verticale, scoprendone le corde. Poi l’amico si era seduto a suonare i tasti e lui si era disteso sopra il pianoforte, stuzzicando o frenando le corde, per modificare le vibrazioni con la mano.
A volte ripenso alla melodia. Penso che quella registrazione contenesse un avvertimento: un tasto premuto, una corda stretta con forza. Era diventata una lezione: quando vieni cambiato, non puoi tornare come prima. Ma non conservi nemmeno la forma che ti ha dato lui.
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A cena, l’ultima volta che l’ho visto – il giorno dopo avermi violentato – mi dice: «Il mio più grande rimpianto è che da bambino, per quanto tentassi di sedurlo, mio zio non mi abbia mai molestato». Mi fissa arrotolando la pasta con la forchetta. Non l’ho mai visto così vulnerabile.
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A volte, quando lo racconto, le persone sovrappongono lo stupro a ciò che sanno di me.
A volte quel fatto non si incastra nella cornice che mi contiene.
A volte quel fatto la ingloba, è come un tetto troppo pesante, e ciò che ero va in pezzi, le mie fondamenta collassano, divento una rovina, inabitabile perché è il fatto ad abitare in me.
Mi piacevi di più prima di conoscerti così bene.
*
1. Perché non lo hai denunciato alla polizia?
2. Quanto ci vuole a dire la parola «no»?
3. Pensi che a una parte di te sia piaciuto?
4. Come ti è venuto in mente di raccontarmelo?
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È la sera di Natale del 2014. Sono a casa dei miei in Indiana. Mio padre, disabile, è andato a dormire, e siamo solo noi tre fratelli a fare compagnia a mia madre.
CJ cita una mia poesia che inizia con: «Una sera di agosto un uomo mi preparerà la cena / per poi violentarmi nel suo letto». CJ vuole sapere: è tutto vero? Siamo fratelli, ma non particolarmente vicini. Ma sta chiedendo un’intimità che non nego a chi legge le mie poesie online, e cioè a dei perfetti sconosciuti.
Provo di nuovo una sensazione strana. È vero, rispondo.
E poi, come sempre, lo è ancora di più.
Mia madre smette di parlare con Dustin. Che cosa è vero?, vuole sapere.
CJ dice, Che tuo figlio è stato strupato.
Che cosa?, risponde mia madre.
Che cosa?, faccio io.
Strupato? Diciamo insieme, nello stesso tono. Ci guardiamo, le teste inclinate di lato.
Sposta la R, risponde lui.
C’è un momento di pausa. Qualcosa che cambia posizione, nell’aria.
Oh, dice mia madre, voltandosi a guardarmi. Questo spiega molte cose.
Che cosa spiega?, chiedo, con calma. Ma nessuno risponde.
Che cosa spiega? Lo dico più forte, ma nessuno risponde.
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Denominare: il mio corpo assorbe la mia esperienza? Il mio corpo è forse il deposito di ciò che mi accade, un archivio di verbi transitivi?
Denominare: se il mio corpo muore, allora non sono più una vittima di stupro?
Denominare: la fantasia sull’uomo è composta dalla fantasia sulla pistola.
Riconciliarsi: nei casi in cui il trasgressore sia un amico o un conoscente, circa il 71% degli stupri non viene denunciato.
Riconciliarsi: nei casi in cui il trasgressore sia uno sconosciuto, circa il 44% degli stupri non viene denunciato.
Quando il trasgressore ti ha reso uno sconosciuto ai tuoi stessi occhi non ci sono moduli da compilare, nessun modo di registrarlo.
Non c’è modo di denunciare le parti di te che vanno perse.
Quando il trasgressore ti ha reso uno sconosciuto ai tuoi stessi occhi, a volte tu (sconosciuto) ti ribelli a te stesso (conosciuto).
Questo è un altro modo in cui impari ad amare il tuo nemico.
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Martin. Il suo nome, sorprendentemente, è da sfigato. È il nome di una specie di uccello della famiglia delle rondini. Due sillabe che pronuncia con enfasi, accentandole entrambe. Mar Tin. Due note colpite con forza. Uno spondeo, come «strazio». Quasi innocuo. Deriva da Marte, protettore di soldati e contadini, padre dell’Impero Romano.
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Mi piacevi di più quando eri il nome che conoscevo io.
Mi piacevi di più quando eri un fatto, senza eco.
Potevo mettermi al centro di te, e tutto intorno vedevo solo un paesaggio che aveva senso.
Quando l’orizzonte si è allargato, sei cambiato.
Sei diventato un frutto del colore dei lividi, raccolto e messo in una botte. I piedi di qualcuno ti schiacciavano trasformandoti nel piacere fermentato di qualcun altro.
Mi piacevi di più quando eri inviolato.
Mi piacevi di più in fondo a quel pozzo, in cui non abbassavo lo sguardo prima di vedere la tua faccia laggiù, tra la luce soffusa.
Mi piacevi di più quando non dovevo affrontare il fatto che la mia stessa umanità era stata rimpicciolita.
Prima che mi accorgessi che era la violenza a legarci.
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Titolo originale, I Liked You Better Before I Knew You So Well, copyright @ James Allen Hall, all rights reserved.
Traduzione di Federica Principi