Questo pezzo è apparso originariamente su Brick numero 99, estate 2017

1.

Da piccola avevo paura dell’oceano. Un oceano è profondo davvero e, per me, è qualcosa di totalmente astratto. Sapevo pressoché nulla della realtà quotidiana di spiagge, barche, o delle onde, perché sono cresciuta nel deserto e mi sono trasferita nei pressi di una massa d’acqua di una certa importanza più o meno verso i vent’anni. Dopo quel primo spostamento sono sempre rimasta vicina alle coste. Con gli amici ho passeggiato lungo la battigia in Maine, Oregon, Columbia Britannica, ma spesso ero ancora troppo spaventata per tuffarmi, anche se i miei compagni mi garantivano che l’acqua era innocua.

La maggior parte di quegli amici era cresciuta di fronte, o comunque vicino, all’oceano. L’acqua era una costante delle loro vite. Le aree di bassa pressione, i cicloni, il fatto di ingoiare per sbaglio acqua salata e ritrovarsi la sabbia nelle tasche o dentro le scarpe, per loro era tutto normale e già noto. Io, a differenza loro, non riuscivo a sentirmi vicina all’acqua neanche quando le ero fisicamente vicino. Così, questo vuoto l’ho riempito di romanticismo e paura. Mantenevo un certo distacco figurandomi il mare come il portale mitologico verso un’altra dimensione.

Verso la fine dei vent’anni ho vissuto un momento di profonda depressione; le motivazioni sono impossibili da spiegare, posso solo dire che aveva a che fare con l’amore e la famiglia. Andavo in giro sentendomi esposta, letteralmente e psicologicamente. Abbas, Kaia, Steven e altri dei miei cari dicevano di tenere duro, di lasciarlo passare. Dicevano che mi sarei ripresa e che quelle sensazioni erano temporanee.

In apparenza accettavo il loro conforto, ma dentro di me sentivo ancora la morsa di vibrazioni insostenibili. Decisi che, se non fossi riuscita a trovare un modo per rendere la vita sopportabile entro il mio trentesimo compleanno, mi sarei suicidata annegandomi nell’oceano. Non lo dissi a nessuno. Ero nata a gennaio e immaginavo che l’acqua sarebbe stata fredda abbastanza da darmi una morte veloce.

Poi mi iscrissi all’istituto d’arte, dove persi la testa, più di quanto mi fosse mai capitato, per un uomo della East Coast che adorava l’oceano. La nostra storia iniziò intorno a Natale, poco prima che se ne andasse in vacanza a Puerto Rico con la famiglia. In quel periodo parlavamo sempre al telefono, mentre lui guardava le onde del mar dei Caraibi infrangersi nell’Atlantico e io inciampavo tra le dune di neve, a Chicago.

L’amore andò avanti per alcuni anni. Il nostro stare insieme divenne per me un riparo, e i miei pensieri suicidi svanirono.

Sotto il suo influsso iniziai a nuotare sempre più di frequente. Risalivamo a nuoto il fiume Connecticut, che ci lasciava addosso un profumo legnoso. Ci tuffavamo nel lago Michigan dalle affollate spiagge di Chicago, e l’acqua chiazzata di petrolio e punteggiata di rifiuti era comunque rinfrescante nell’umidità rovente della città che precedeva i temporali notturni.

Dopo due anni la sua famiglia mi invitò ad andare con loro a Puerto Rico. Quel viaggio rese simmetrici l’inizio e l’inizio della fine del nostro amore.

2.

Nel Midwest c’è una regione chiamata Driftless, «senza detriti». Si chiama così perché è rimasta incastonata tra i ghiacciai durante l’ultima era glaciale. Anche senza conoscere i processi geologici che l’hanno formata, è impossibile non accorgersi che la Driftless non ha nulla a che vedere con il resto del Midwest. È tutta montagne boscose e grandi vallate, in netto contrasto con le dolci pianure che caratterizzano la regione. Arrivando in auto da Chicago si attraversano distese di grano e poi montagne come onde, rese affilate da fiumi e correnti che salgono fino a scogliere a strapiombo, da cui poi confluiscono nel Mississippi. È un posto fuori da tutti i radar.

La Driftless ha i suoi microclimi. È l’habitat di piante uniche nel loro genere, di animali che sono impossibili da trovare anche solo nella valle più vicina. Essendo rimasta così al riparo dalla riconfigurazione climatica più brusca, ora la Driftless costituisce il rifugio biologico di ciò che resta dell’antichità.

Credo che questa descrizione sia fedele. O perlomeno, è il mio ricordo della spiegazione poetica che ne fece Billy quel giorno, bevendo una Hamm’s mentre un gruppetto di noi galleggiava nel Kickapoo a bordo dei gonfiabili. Le nostre chiappe fasciate dal costume congelavano a mollo nei fori della ciambella, mentre il resto del corpo, asciutto, arrostiva sotto il sole di luglio. La sua descrizione mi faceva sentire come se ci stessimo nascondendo all’interno di un vuoto mistico nella storia del continente.

Ero nel fiume ad ascoltare Billy che descriveva la Driftless perché ci trovavamo in una residenza per artisti, insieme a qualche altra decina di persone; ne sto scrivendo adesso perché una di loro è annegata la scorsa estate. Era in campeggio e si è tuffata nel Mississippi di notte, ad agosto, per poi non riemergere più. Si chiamava Virginia e aveva ventinove anni.

Gli artisti, i designer, i filosofi, i cuochi e tutti i radicali che insieme gestiscono questa residenza utopistico-bucolica avevano organizzato una commemorazione per Virginia, domenica scorsa. Questo gruppo, quando non si riunisce nella Driftless, lavora in quella che un tempo era la sede di una ditta di pompe funebri, nel quartiere Pilsen di Chicago.

Non ero presente alla commemorazione per Virginia. Mi trovavo a New York per un evento stranamente analogo, un’altra commemorazione messa insieme da un gruppo di artisti per una vita bruscamente interrotta. Un’altra donna.

Lo scorso mercoledì sera, nel Queens, una bibliotecaria e poetessa è stata assassinata dal suo coinquilino. Pare l’abbia uccisa senza una motivazione reale, solo rabbia casuale, follia, ubriachezza. Ora è in carcere a Rikers Island.

La poetessa bibliotecaria si chiamava Carolyn, aveva ventisei anni. Era un membro molto amato di un gruppo di persone unite dall’impegno verso l’arte, la lettura, la scrittura, il manifestare e il riflettere insieme.

3.

Il tempo ultimamente è stato umido, del tipo che passa dal caldo appiccicoso del giorno al freddo bagnato della notte. È difficile vestirsi nel modo giusto quando la stagione è così mutevole.

La commemorazione per Carolyn si è tenuta nello spazio di lavoro con annessa biblioteca che aveva contribuito a creare. La lunga stanza era piena fino a scoppiare di persone forti e affascinanti, proprio come la loro amica assente.

Un microfono acceso era posizionato in mezzo alla stanza. Chiunque poteva alzarsi e condividere un pensiero. Tutti i partecipanti sedevano sul pavimento o su sedie pieghevoli, oppure stavano in piedi o appoggiati alle pareti. Kevin ha detto che somigliavamo a una catena montuosa ammantata di nero. Chi stava vicino alla porta si stringeva nel cappotto, mentre quelli in cima alla sala si erano messi in maniche corte. Io mi ero appoggiata alla finestra, sentivo fresco alla schiena mentre le guance arrossivano per il pieno di gente. Mi sentivo come davanti a un falò.

A turno vennero lette citazioni, poesie, frammenti di diario ed e-mail. La maggior parte delle persone leggeva dal cellulare e concludeva il discorso a braccio. Blateravano in uno stato di isterismo latente, spesso parlando al presente come se la donna dei loro racconti fosse nella stanza. E lei ci sarebbe stata, non fosse stato per quei surreali eventi reali.

Adjua intrecciò ricordi in un lungo filamento di parole che ci avvolse tutti. Rachel stazionò sempre nei pressi di alcol, patatine, pomodorini, e dei cupcake portati da Emily. Era un pubblico più da whisky che da pasticcini; barcollavano sempre più, riempiendo il bidone della plastica di bicchieri vuoti. Kevin iniziò a biascicare, lasciandosi scappare qualche esclamazione in arabo. La busta racchiusa nel cartone del vino fu strizzata fino a svuotarsi. Gabe versava secchi di Four Roses a chiunque ne volesse. Ognuno si prendeva cura degli altri.

Come Carolyn a New York, anche Virginia faceva parte di un gruppo, a Chicago. Entrambe erano il genere di donna che tiene doverosamente a bada i propri sentimenti ma che allo stesso tempo te lo fa notare con una risata e un’alzata di occhi. Purificava la biblioteca con un rametto di salvia e appendeva avvisi sul riciclaggio. Virginia collaborava all’organizzazione di reading e cene, sociali e intimi allo stesso tempo. Quando era il suo turno, lavava i piatti. Entrambe sapevano bene quanto fosse indispensabile il lavoro che tutti trascurano, e quanto fosse necessario parlarne per rendere omaggio a tutto ciò che manda avanti le nostre vite.

Mi immagino la commemorazione a cui non ho preso parte in parallelo con quella a cui, invece, mi trovavo. Entrambi gli spazi sono arredati con quelle sedie e quei tavoli pieghevoli che a quanto pare si trovano in qualsiasi posto gestito da artisti. Sono le sedie che tiriamo fuori e mettiamo via in vista degli eventi e ciò che li segue.

Immagino che il gruppo di Chicago abbia organizzato un vero e proprio banchetto. Probabilmente c’erano insalate guarnite con fiori o cialde di parmigiano, piatti a base di carne e altri vegetariani e vegani. È un gruppo di persone premurose.

A me pare che una differenza tra New York e Chicago sia questa: chi si trova al centro di un territorio ha più spazio per costruire case, e di conseguenza per cucinare e aggregarsi nei luoghi domestici. O perlomeno, quel gruppo di artisti aveva sempre trattato il cibo come il legante che in effetti può essere; una parte del loro programma riguarda proprio la realizzazione di ricettari.

4.

Stavo raccontando di quel Natale a Puerto Rico.

Abbiamo trascorso una settimana circondati dalla sua famiglia, serate a cucinare insieme e bere e mattine a giocare a racchettoni in spiaggia. Ci allontanavamo raramente dall’area intorno alla casa presa in affitto. L’edificio era circondato da piante a me sconosciute, tra le quali una il cui polline invisibile provocava a tutti un fortissimo prurito passeggero. C’erano anche molti animali mai visti prima, come le lucertole lunghe un dito che affollavano il vialetto per stare al sole e sfrecciavano via se qualcuno si avvicinava troppo. Io desideravo tantissimo avvicinarmi. Non me lo concessero mai.

La nostra prima notte lì fummo svegliati da un terremoto, e da quel giorno prendemmo a scherzare sulla prospettiva di morire annegati in uno tsunami, ma io ero davvero convinta di trovarmi in una bolla sicura.

Il nostro ultimo giorno andammo a una nuova spiaggia. Mi misi a giocare fra le onde. Per la prima volta, l’oceano non mi spaventava. Il mio amore disse, «Devi lasciarti cullare da lui».

Si allontanò per esplorare l’altro lato della baia. Io mi asciugai e rimasi a scherzare con suo fratello. Poi, dato che presto saremmo andati a pranzo, decisi che valeva la pena nuotare un’ultima volta prima di tornare in aereo nel freddo inverno nel Nordest.

Appena entrai in acqua mi accorsi che la marea era cambiata. Fui trascinata giù prima di avere il tempo di riflettere. La corrente mi strattonò e mi ritrovai dove non toccavo più. Un altro colpo, e arrivai quasi alle scogliere sul lato sinistro della spiaggia. Prima che riuscissi a rendermene conto, stavo per annegare lottando contro gli scogli affilati.

In quel momento di panico sopravvenne un pensiero limpido, pacifico: Se non vuoi morire, devi essere tu a salvarti. E a quel punto mi era chiaro che nulla, in me, desiderava la morte.

Costringendo all’improvviso i muscoli a reagire afferrai gli scogli aguzzi, incastonati di conchiglie, aggrappandomici. Dovevo arrampicarmi tra un’onda e l’altra, una serie di colpi senza sosta. Continuavo a venire spinta contro le rocce, ferendomi le mani, i piedi, i fianchi. Il mio nuovo bikini rosso si aggrovigliò fin quasi a sfilarsi, e provai vergogna. Era curioso, quell’aggrapparsi al pudore nel bel mezzo di un momento critico.

La gente osservava dall’alto delle scogliere, mentre il mio amore accorreva dalla spiaggia, urlando a squarciagola. Mi trovò aggrappata agli scogli, tentavo di risalire nell’intervallo tra due onde. Ci incontrammo a metà strada, sullo scoglio su cui io mi ero arrampicata e lui era disceso. Entrambi dovemmo risalire di nuovo. Fu questione di pochi istanti, in realtà.

5.

Cominciai a scrivere questo racconto lo scorso anno, in Grecia. L’idea mi venne a Tsagarada.

Eravamo arrivati al villaggio costiero sul tardi, una sera di settembre, e anche se c’era ancora un po’ di fresco il giorno seguente fu avvolto da una splendente luce tiepida. Faceva ancora abbastanza caldo da nuotare, e quelli di noi che vivevano a nord volevano farlo prima di dover rientrare nelle rispettive città, dove era già arrivato l’autunno.

Ci infilammo i costumi e scendemmo il sentiero ripido e cosparso di erbacce con le nostre infradito ai piedi. Il mare Egeo era di quel turchese che si vede nei volantini, un colore così saturo da rendere pacchiane tutte le nostre foto. Ma scattammo comunque.

Foto del mare. Dei pilastri di marmo bianco per metà emersi, per metà sommersi dall’acqua. Attorno a noi in spiaggia, una decina o poco più di altri gruppetti, famiglie con completi color ghiacciolo, amanti intenti a leggere sdraiati uno di fianco all’altra su teli turchi.

Marcyn fece un bagno prima di andare a esplorare la costa. Klara, in piedi nell’acqua bassa, filmava le onde. Sven e Friedrich si allontanarono a nuoto. Dopo essermi lasciata cullare dall’acqua uscii a osservare il panorama, per asciugarmi al sole.

Di fianco allo scoglio più grande nuotava una coppia, padre e figlia. Lui era un uomo robusto, con un costume a slip, e cavalcava le onde con la figlia paffutella. Lei aveva lunghi capelli ricci che le ricoprivano la faccia a ogni colpo di onda, la pelle appena meno abbronzata di quella del padre. Genitore e figlia si muovevano su e giù in armonia.

Dopo un po’ di tempo in acqua decisero di salire su un grosso scoglio. La figlia faticava a trovare dei punti di appoggio, e il bikini continuava a calarle. Il padre rimase dietro, a sostenerla ridacchiando. Aiutandola con l’ultimo balzo, le diede una pacca e un bacio sul sedere. Una volta saliti entrambi, rimasero in piedi a sorridere, mentre intorno al loro approdo si affollavano ondate di gente.

Iniziai ad avere strani pensieri. All’improvviso fui sicura che la ragazzina sarebbe scivolata, o che il mare di lì a poco avrebbe spinto contro gli scogli o trascinato a fondo qualcuno, riempiendogli i polmoni fino a farlo soffocare.

Nonostante queste premonizioni non accadde nulla, erano solo dei turisti che si divertivano al mare.

Il nostro gruppo si ricompose. Scattammo un’ultima foto alle onde verdi e blu prima di risalire la collina.

Quel terrore rimase comunque con me, anche se continuai a comportarmi da persona felice. La sera raggiungemmo Atene.

6.

È ad Atene che ho scritto questo racconto, in un edificio annidato tra negozi cinesi e bordelli contrassegnati da luci chiare. Ogni volta che passeggiavo per il quartiere incrociavo qualche uomo che usciva da un bordello. Ogni incontro mi provocava un fremito di timido interesse, una curiosità imbarazzante, come se per sbaglio avessi interrotto un momento privato. Gli uomini sembravano dei reietti, dei pregiudicati. Mi immaginavo le donne con cui erano appena stati, donne che non potevo vedere ma che sapevo essere in quegli edifici, occupate in scambi intimi.

Maria, una signora del posto, mi raccontò che una volta aveva bussato a tutte le porte per invitare il vicinato a una festa di quartiere, ma solo i proprietari dei bordelli, tutti uomini, le avevano aperto. Non ebbe mai occasione di parlare con le donne. Dopo anni e anni passati a insistere con quelle feste di quartiere, il risultato migliore era riuscita a ottenerlo quando alcune donne erano uscite sui balconi dei bordelli a tirare coriandoli.

Ero seduta a leggere un articolo sul nostro terrazzino bianco. Tentavo di sfuggire al caldo pesante dello studio. L’estate continuava a precipitare brevemente nell’autunno, per poi tornare. Ero perennemente sudata, in disordine con i vestiti del viaggio lavati a ripetizione nel lavandino. L’articolo che stavo leggendo delineava l’ipotesi di un accademico, secondo cui la guerra in Siria era il risultato dello stress sociale dovuto ai cambiamenti climatici. L’autore ipotizzava che la guerra civile e la crisi dei rifugiati fossero soltanto l’inizio di una serie di catastrofi simili legate al clima. Innumerevoli altre persone sarebbero finite in mare alla ricerca di nuove case, più sicure, perché le loro terre erano diventate inospitali. Tutto il Mediterraneo orientale stava diventando arido, e altri cambiamenti sarebbero presto accaduti.

Una volta finito di leggere accesi il pc e mi imbattei in una vignetta. Raffigurava alcune persone in una barca, per metà fuori dall’acqua e per metà sommersa. Le persone più in basso cercavano di uscire dal mare, mentre quelle in alto li osservavano sorridendo. Un fumetto usciva dalla bocca di uno di loro: «Sono così felice che non si sia bucata la nostra parte».

7.

Verso la fine della commemorazione per Carolyn mi misi a parlare con Adjua. A tratti, durante la conversazione, lo sguardo di una di noi si fermava, seguito da quello dell’altra, su un gruppo di persone piangenti strette in un abbraccio, e smettevamo di parlare. Singhiozzavano un momento strette le une alle altre, poi smettevano. Continuava ad accadere, era una specie di schema ritmato, la coreografia di un lutto.

Sono le 20.06. Il tempo tra quando scrivo e quando leggete si espande. Mentre ci allontaniamo la pressione aumenta. Mi sento come se stessi per chiudere una lettera, con l’urgenza di dire ciò che avevo intenzione di dire fin dall’inizio.

Molto spesso scrivere si riduce a questo, al desiderio di dichiarare che una persona – Dylan o Klara, Friedrich o Sven, Carolyn o Brian, Virginia o Ben – era viva e che io l’ho conosciuta. Si riduce spesso al semplice desiderio di dire che l’ho vista straordinariamente viva in qualche occasione mondana, in un salotto, un parco, a passeggio per strada o in spiaggia. Tutto quello che voglio fare è descrivere con esattezza quel momento passato insieme, seduti sul tetto di un palazzo a osservare le luci della città e tutti i punti rimasti al buio. Nelle città di mare lo sai che gli spazi neri sono occupati dall’acqua.

Ho scritto questo perché dobbiamo rendere più attuale il nostro modo di ricordare. Alla gente servono commemorazioni più semplici possibile, ma non banali. Una commemorazione è un modo pubblico per non dimenticare. Una commemorazione è una lode. L’obiettivo è onorare la fine senza sminuire la complessità di tutto quello che c’è stato prima. Questa è una commemorazione alla me che è morta quando non sono morta. È un racconto alla memoria delle donne che ho conosciuto un poco, e per tutti quelli che non ho mai conosciuto e che hanno attraversato i mari.

Lodate il confine, il limite, la fine. Lodate la battigia, la costa, e l’isola. Lodate gli spazi indipendenti, le biblioteche di Bushwick gestite dagli artisti. Lodate i ritrovi tra artisti di Pilsen, dove ognuno porta qualcosa da mangiare. Lodate il cielo sulle campagne del Québec, la sua tela acquerello che passa dall’arancione acceso a un pesca sbiadito, al caramello, al tortora sempre più scuro fino a un blu che è quasi nero. Lodate le date precise, le ere glaciali. Lodate chiunque attraversi un confine. Lodate i detriti e la loro assenza. Lodate ciò che è precario. Lodate l’onda che vi trascina via, e tutte quelle che non lo fanno.

*

Titolo originale, The Drift and the Driftless, copyright @ Joni Murphy, all rights reserved.
Traduzione di Federica Principi