Questo pezzo è apparso originariamente su Brick n.102, inverno 2019

 

Le alghe di mare ondeggiavano in una palude divenuta così profonda con l’alta marea che vi nuotava un piccolo di megattera delle dimensioni di un maggiolino Volkswagen, all’inseguimento di un banco argenteo di piccole aringhe. Faceva le bolle con l’acqua, ricordando un bambino a mollo nella vasca. La sua pelle ruvida, scura, luccicava come la muta di un sub. La madre emise un lungo e malinconico lamento dagli abissi più profondi del canale di Douglas. Il piccolo produsse un lieve getto, una nebbiolina attraversata dall’arcobaleno, mista all’odore di pesce andato a male. Tornò di corsa verso la madre mentre ero nel cortile dietro casa dei miei, nell’affumicatoio. Il sole stava tramontando e risplendeva come oro fuso sulle acque calme, e vedevo le balene simili a ombre scure mentre si allontanavano, una confusione di code e pinne tra sporadici zampilli. 

Camminavo lungo il campetto da calcio a qualche minuto da casa. Il canale di Douglas è circondato dalle montagne. La coltre di velluto dei sempreverdi ricopriva i versanti, sigillati da sterrate e dalla nuova strada industriale che porta a Bish Creek. Le megattere nuotavano sbuffando verso sud, parallelamente alla costa. I gabbiani si lagnavano sorvolando la spiaggia. Un’aquila testabianca atterrò su un grande tronco portato a riva dalla corrente. Sbatteva le ali rivolta a un gruppetto di corvi che l’avevano accerchiata come cattivi pensieri. 

Non vedevamo così tante balene da quando i balenieri avevano sterminato il branco che abitava in zona, quando ancora l’olio di balena andava per la maggiore. Il canale di Douglas misura novanta chilometri, dall’origine fino alla foce, dove ha inizio l’Inside Passage. Io abito vicino alla sorgente, in una riserva affacciata sull’oceano, una ristretta porzione di pianura alluvionale in un paesaggio dominato da montagne granitiche e maree impetuose. Vicino, dopo aver percorso undici chilometri su di una strada tortuosa e ripida in pendenza, c’è la città di Kitimat, costruita dall’Alcan, la compagnia produttrice di alluminio, per dare alloggio ai propri lavoratori. La popolazione che abita in riserva conta dai seicento agli ottocento abitanti. La città ne conta ottomila, ma il numero oscilla a seconda di cali e aumenti nei prezzi dei beni di prima necessità. 

Lungo il canale, vicino all’isola di Coste, c’è uno scoglio a forma di balena. Il grande masso si leva dall’acqua come una lancia, vicino alla riva, dove il mare è comunque abbastanza profondo. Le balene vi si grattano il dorso dai cirripedi e da tutta quella sporcizia che inevitabilmente sollevano nuotando. Quando sono in gruppo, fanno a turno in base alla loro gerarchia. Hanno dei clan, proprio come noi. Combattono e stringono alleanze, a volte si affrontano, altre volte si appoggiano. Alcune sono dei giganti gentili, altre delle canaglie irriverenti.

Ciò che amo di più delle megattere è quanto fermamente riescano a serbare rancore per qualcosa. È un’arte ormai perduta. In quest’era di stucchevoli riconciliazioni da film romantico, la gente ha dimenticato cosa significhi provare vero risentimento verso qualcuno. Quando su YouTube vedi quei video con le megattere che si fiondano a salvare foche o altre specie di balena dall’attacco di un’orca, capisci che quella rivalità si protrae da generazioni. In quanto organizzatrice di cerimonie potlatch, serbo rancori antichi quanto l’Isola della Tartaruga. Non sono cose che ho cominciato io, e che tantomeno non finirò. Sto con quelli del mio branco. Se loro cadono, cado anch’io. Mi sollevo con loro o non mi sollevo affatto.

I primi missionari hanno provato a trasformare gli Haisla in moderni ed evoluti agricoltori. Ma visto che il terreno è poco fertile, la stagione della crescita è breve e il sole non è che un visitatore occasionale nella nostra foresta pluviale; i tentativi di coltivazione erano destinati a fallire sin dall’inizio, e siamo stati giudicati degli scansafatiche. Coltivavamo l’oceano, noi. Campi di vongole e distese di pesci, le nostre canoe per cavalli. La nostra vita, proprio come quella degli orsi e delle foche, delle aquile, dei lupi, dipendeva interamente dal tragitto dei salmoni. Veneravamo la natura e di essa ci nutrivamo, perché facevamo davvero parte di quel paesaggio così vivo. Non eravamo separati da esso, né al di sopra, né tantomeno ne avevamo il controllo. Mangiavamo ed eravamo mangiati. 

Ci piacevano le patate, però. Non richiedono molta cura, così erano perfette quando d’estate dovevamo attraversare il territorio per la nostra caccia al salmone. Avevamo degli appezzamenti vicino agli accampamenti per la pesca, file e file di patate coltivate con sangue di pesce. I carboidrati non sono poi così importanti nella tipica dieta costiera. La nostra versione del riso è costituita dal bulbo di Chocolate lily, che solitamente mangiamo solo se stiamo proprio morendo di fame. È disgustoso. Sembra del normale riso bianco ma ha un sapore di sogni infranti, amaro e stucchevole. Il Glik’sam invece era soffice, giallo. Le radici di questa specie di ranuncolo avevano l’aspetto e il sapore delle patate dolci. Il Glik’sam amava affondare le proprie radici nel fango e noi per trovarlo scavavamo insieme agli orsi, le nostre guide. Provavamo tutto quello che mangiavano loro. Abbiamo gusti simili.

Abito in un appartamento a due isolati da casa dei miei genitori. Mio padre è uno degli anziani, e quando i salmoni migrano viene assalito da una sindrome, cronica e incurabile, che mia sorella chiama «la Febbre da Pesce degli Haisla». Mio padre ha trascorso tutta la vita a pescare e adesso è frustrato dalla mancanza di energia, di forza, che non gli permette di mantenere una barca e avere una rete da pesca. Abbiamo sempre fatto affidamento sul salmone. Non potevamo permetterci la carne, così sono cresciuta mangiando salmone a colazione, pranzo e cena. Mangiavamo tutto, da cima a fondo – la zuppa di testa di pesce è una vera prelibatezza, e ancora ricordo la mamma e la mia prozia litigare per gli occhi. 

La stagione del salmone qui inizia a maggio. Il salmone dell’Atlantico è il primo ad arrivare. La sua pelle è chiara come la carne di halibut e la polpa oleosa e compatta. Si griglia bene, con il grasso che gocciola facendo scoppiettare il fuoco. Anche il salmone reale è grasso, ma rosa, anch’esso perfetto per il barbecue. Il suo sapore è più simile a quello dei salmoni dell’Atlantico che a quello delle altre specie presenti nella Columbia Britannica. Non è un granché in conserva, o affumicato. Il salmone rosso arriva a giugno e rimane per tutto luglio, a volte fino ad agosto. Sono pesci più piccoli dei salmoni reali, più facili da sollevare e portare in spalla. Quando ne tagli una fetta, vedi che la loro carne è di un bel rosso rubino. Friggono una meraviglia. Cotti al vapore, al forno, grigliati – sono sempre buoni. Ma è quando vengono messi in conserva che sono davvero perfetti. Non mi piace lavorarli nell’affumicatoio perché in poco tempo diventano molli e l’operazione richiede un gran numero di persone. Una volta che diventano così molli, l’unica cosa da fare è affumicarli leggermente dal lato della pelle per poi congelarli o conservarli in barattolo. Li si può anche affumicare a freddo dopo un periodo in salamoia, ma la marinatura fa perdere al salmone rosso il suo vero sapore. Preferisco i salmoni argentati per un’affumicatura più tradizionale. Arrivano ad agosto e sul mercato vengono valutati meno rispetto ai salmoni rossi, non avendo lo stesso colore acceso, ma sono più facili da tagliare a fette sottili e mantengono bene la forma. Abbiamo una parola specifica per quel virus che provoca delle bolle sulla pelle fino a corroderla. Non colpisce l’uomo, ma rende il salmone argentato del tutto immangiabile. Due anni fa abbiamo avuto una stagione in cui, su dieci salmoni catturati, otto erano infetti e da buttar via. Non era mai successo. Non è più accaduto, ma la situazione era davvero preoccupante. Quelli sono i salmoni migliori, i nostri preferiti, ma mangiamo anche il salmone keta e quello rosa. Il keta è ottimo affumicato, ma le sue lische sono dure e devono essere estratte per darlo da mangiare a bambini o anziani. Possono bucare la pelle delle guance e, se si incastrano in gola, l’unica soluzione è operarsi. 

A volte, quando la pesca non è delle migliori, si può comprare o scambiare pesce con le altre Prime Nazioni, ma il salmone acquista un sapore leggermente diverso a seconda del fiume in cui si trova. Alcuni nuotano in bacini con un livello superiore di tannino e hanno quindi un gusto più amaro, che si sente soprattutto quando vengono inscatolati o congelati. Alcuni nuotano più a monte per trovare un posto adatto a deporre le uova, quindi sono più maturi, più compatti. Durante la mia residency nella città di Whitehorse, incontravo spesso persone che davano da mangiare i propri pesci ai cani da slitta. Una volta che il salmone ha nuotato così a lungo, è troppo provato dall’età e dalla fatica. Magari non so distinguere i vari tipi di vino, ma di un salmone posso dirti con certezza a quale specie appartiene, dove ha nuotato e quanto lontano è dovuto andare con un semplice assaggio. 

Questo è il Corso Base di Salmone, per chi è cresciuto sulla costa. Quando comincio a piagnucolare perché devo preparare più di quaranta salmoni, mio padre mi ricorda sempre che la nonna era capace di farne da sola centinaia e centinaia con un’unica affumicatrice. 

«Non aveva mica scadenze da rispettare» borbotto io.

Le Prime Nazioni della costa erano come le formiche in quella storia per bambini, tutta l’estate a lavorare per nutrirsi poi durante l’inverno. Quando la neve incominciava a cadere, allora la stagione sacra aveva inizio. Davamo feste per trasmettere la nostra cultura alle generazioni più giovani attraverso danze, canti e storie. Questi festeggiamenti, i potlatch, andavano avanti per giorni, a volte per settimane: una celebrazione, una riaffermazione dei nostri legami culturali, dimostrazione legittima dei diritti del capo e del clan. Avevamo per l’occasione scrittori, musicisti, tessitori e intagliatori a cui veniva chiesto di creare prodotti di grande valore per i capi che li avevano ingaggiati. I capi regalavano poi questi tesori ai loro invitati, oppure li gettavano tra le fiamme per mostrare a tutti il loro disprezzo nei confronti del continuo accumulo di ricchezze. A tutti veniva dato del cibo. Se lavoravamo duramente, la nostra era una bella vita.

Noi delle Prime Nazioni sulla costa della Columbia Britannica abbiamo fondato la nostra cultura sul salmone. Queste cerimonie sono possibili soltanto grazie all’abbondanza di cibo che il salmone ci porta. Dire che ci piace il salmone è riduttivo; equivale a dire che nell’Artide fa freschino o che c’è un po’di traffico a Toronto. Quando protestiamo contro gli oleodotti o gli allevamenti ittici, protestiamo in realtà non solo contro una minaccia alla sicurezza del nostro cibo ma alla nostra identità. Provate a immaginare la Francia senza formaggio. La Grecia senza olive. La Germania senza birra. 

Papà era solito fissare la sua rete vicino al promontorio. Aveva una piccola barca, una rete da pesca con dei tappi di sughero nella parte superiore, piccoli pesi in quella inferiore e un’ancora. Una delle estremità della rete era legata a riva e il resto si allungava sull’oceano, tenuta ferma dai tappi e da una grande boa. Per riuscire a catturarli dalle branchie si ha bisogno, a seconda della specie di salmone, di un particolare tipo di rete. Le reti da pesca possono costare fino a mille dollari. Pescare per la consumazione significa pescare per la propria famiglia e per quella allargata. Alcune famiglie contribuiscono alle spese per la benzina e la manutenzione della barca. Altre no.

Tradizionalmente era il capo di uno dei clan a decidere quando gli Haisla potessero andare a pescare. Bisognava lasciar passare un certo numero di salmoni prima che ne autorizzasse la pesca. Ci mettevamo vicino alle foci dei fiumi, ma alcune leggi promulgate dopo il Contatto hanno fatto sì che in seguito ci dovessimo spostare nell’oceano, il che era sicuramente meno vantaggioso. Solitamente i pescatori cercano di cogliere qualsiasi segno o scandagliano le acque con dei rilevatori. Una volta che comincia la risalita dei salmoni ciascuno presidia la propria postazione, e tra le varie reti viene concesso un certo margine di manovra. Non se ne parla granché, perché la pesca commerciale è davvero faticosa. Bisogna controllare la rete ogni tre, massimo cinque ore. Papà cominciava a controllare la sua all’alba e finiva verso il tramonto. Quando i pesci nuotano velocemente, a volte è necessario farlo ogni ora. Se si ha un lavoro fisso, si è costretti a prendere dei giorni liberi o dei permessi. Sono necessari poi una barca e dei soldi per la benzina. Se ti sistemi nel posto sbagliato, poi devi riposizionarti, o rischi di fallire miseramente. Nulla è più scoraggiante della grande fatica di preparare una rete per poi tirar su nient’altro che alghe e piccoli pezzi di legno. 

Quando sono ritornata a casa per la prima volta, tutte le mattine aiutavo papà a controllare la sua rete. Mentre la barca si avvicina alla rete, di solito riesci già a capire se c’è stata sconfitta controllando se i tappi di sughero stanno galleggiando. Nel caso in cui siano sommersi, speri allora che non sia un tronco, altrimenti bisogna toglierlo sporgendosi dalla barca. Tiri su la rete e ti spingi verso riva lungo di essa. Puoi davvero farti i muscoli. La rete è pesante, anche senza pesci. Nel mentre ne tiri via alghe e meduse. Se riesci a prendere qualche pesce, lo trascini su e lo liberi dalla rete. Se sono ancora vivi li colpisci fino a ucciderli o tenti di trattenerli mentre si agitano nervosamente sul motoscafo. A volte nella rete rimane giusto qualche testa o coda di salmone. Le foche nuotano lungo le reti e ripuliscono tutto. Quelle teste scure fanno capolino fuori dall’acqua, e ti guardano con i loro occhi neri e scintillanti. Non c’è modo di fermarle, neanche aspettandole sulla barca impugnando un fucile. 

Papà non è un grande fan delle foche. Fa finta di sparare loro quando le vede scaldarsi al sole appoggiate ai tronchi a Minette Bay, ed esulta se le vede fuggire rincorse dalle orche. Le foche seguivano i salmoni durante la deposizione delle uova quando pescava nel Kitlope. È un fiume largo e poco profondo, appena di più con l’alta marea, ma comunque abbastanza limpido da riuscire a vederne il fondo. Le orche seguivano a loro volta le foche, le pinne dorsali a squarciare la superficie mentre sfrecciavano oltre la barca di papà. Le orche sono cacciatrici molto agguerrite, e papà le guardava avvitarsi e saltare oltre gli scogli per trascinare le foche verso l’oceano. 

Ci sono varie specie di orca. Alcune si nutrono principalmente di salmone. Hanno tratti più tondeggianti, più delicati, e vivono per quasi tutto l’anno sulla costa di nordovest. Quelle con le pinne appuntite e i tratti spigolosi, invece, sono più inclini a mandare le foche fuori dall’acqua con un colpo di coda, facendole rotolare in aria come un volano. Le orche che vivono più in profondità nell’oceano tendono a comportarsi come fossero degli arieti. Acquistano velocità e colpiscono con forza le altre specie di balena, sbranandole mentre sono ancora stordite. 

Gli Haisla possiedono un legame più stretto con quelle mangiatrici di salmoni. Quando il mondo era ancora giovane ed eravamo in grado di mutare la nostra pelle, ci univamo in matrimonio gli uni con le altre. Ci consideriamo ancora consanguinei. Quelli del clan dell’orca le chiamano «antenate». Le orche ci fanno visita, e ogni tanto ci avvertono di tempeste in arrivo comportandosi in maniera strana, arenandosi sulla spiaggia o trascinandosi fin sopra il molo. Riescono a sentire cose che per noi sono impercettibili. 

Quando scrivo sto interpretando e traducendo il mondo Haisla con termini inglesi. A volte la resa è goffa e non riesco a far corrispondere le parole ai concetti. Non che la mia comprensione dello xaislakala sia eccezionale. Ma poi l’obiettivo si sposta, e il contesto culturale fa sì che quando dico, ad esempio, «famiglia» in inglese, ciò che intendo è in genere il nucleo familiare. Quando invece lo dico in lingua Haisla, per capire di cosa sto parlando serve conoscere bene la genealogia della costa per intendere almeno i cugini di primo grado con i loro matrimoni, per non parlare poi del risalire alle generazioni precedenti. Il concetto di tempo contiene in sé tanto i miei potenziali pronipoti quanto tutti gli antenati, fino a tornare a quando univamo la nostra pelle a quella degli animali, le altre creature ad abitare il nostro mondo. 

E poi ci sono momenti che semplicemente si sottraggono alle leggi del linguaggio umano, non importa quale lingua tu stia usando. Ricordo quella volta, seduta nel nostro motoscafo, il motore esterno sollevato per non farlo impigliare nella rete. Eravamo vicini alla boa, iniziavamo a tirare su la rete. Ero così concentrata sulla rete e incantata dallo sbattere delle onde sulla barca che non mi sono accorta di loro fino a quando non sono affiorate in superficie, i corpi più lunghi del piccolo motoscafo, le pinne a fendere la superficie quando saltavano su; ci hanno studiato per un po’ e se ne sono andate. Quella sensazione di stupore atterrito che un piccolo mammifero prova in presenza di un cacciatore unita alla più assoluta e incondizionata certezza che non ci avrebbero mangiati. Erano venute solo a salutarci. Facevano ancora parte del nostro mondo, anche se col tempo avevamo dimenticato i loro nomi per come ce li avevano detti. 

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Titolo originale, The Salmon Eaters, copyright @ Eden Robinson, all rights reserved.
Traduzione di Sabrina Pezzopane.