Questo racconto è apparso originariamente su Hobart il 4 maggio 2018

 

La mia amica Jamie mi porge un fiore di cardo tenendo le dita cautamente ricurve sulle spine. «Mangia» dice. Mai, neanche per una volta, ho dato retta alle sue richieste strampalate. Ma ora che abbiamo sessantatré anni temo che potrei, un giorno o l’altro. Già mi vedo aprire la bocca per accogliere quel violaceo prodotto della natura, sentirlo che mi punge la lingua, le guance e il palato mentre cerco di capire come masticarlo senza restare trafitta. Poi immagino di farcela e di vedere la bocca di Jamie spalancarsi per la sorpresa. Mi viene da ridere.

Poso i manici della carriola, rovisto nel cassone e pesco un cavolo. Le foglie esterne si stanno staccando; all’improvviso, mi pare custodire nel suo cuore verde e compatto l’intero frutto della primavera e dell’estate. «Mangia» dico, spalancando bene la bocca a lasciar intendere che deve farne un solo boccone.

Jamie fa una smorfia, come se avesse sentito un saporaccio. «Mangiati la lingua». Butta il cardo sul prato, e quello sparisce nell’erba alta fino alle caviglie. Tengo a mente di uscire sempre con indosso le scarpe finché non l’avrò trovato.

«Mangia la mia polvere» dico, gettando di nuovo il cavolo nella carriola. Uno sbuffo di polvere si leva per aria.

«Mangiatela tu» dice lei, mettendo fine al nostro gioco di parole. Si volta e calpesta il sentiero di gusci di nocciola che porta a casa mia. Si è alzato il vento, così che ognuna delle mie quarantadue girandole si mette a vorticare. Sembra che la casa sia lì lì per levarsi dalle sue fondamenta. Mi fa sentire felice.

Un’auto imbocca la mia rotonda, tirando su altra polvere da dare in pasto a qualcuno. Una cliente, che ha visto lungo la statale il mio cartello per la rivendita di articoli da regalo fatti a mano, si ferma a far compere mentre è diretta a Seattle. È una ragazza, forse intorno ai venticinque anni. La accompagno verso il giardino fiorito, dove picchetti sormontati da decorazioni in vetro se ne stanno annidati tra le ortensie bianche. «Ti do dieci dollari per quello» dice di un gioiellino blu che me ne è costati venti.

Jamie si spazientisce e fa per dare fiato alla bocca, ma io la blocco prima che gliene dica quattro. «Per dieci dollari, ci sono degli orecchini». Conduco la ragazza a un tavolo su cui ho disposto un po’ dei miei pendenti in fil di ferro. Lei squittisce davanti al paio a forma di chiave di violino e mi allunga il denaro.

Appena se ne va, dico a Jamie di non azzardarsi mai più a farmi scappare i clienti. Ma di colpo mi sento smarrita. Non sono a casa mia. Siedo a un tavolo con sopra una tovaglia bianca e una rosa finta dentro a un vasetto di plastica, e c’è anche Jamie, che ha l’aria invecchiata e mi sta passando un cucchiaio. «Mangia» dice.

«Mangiati la lingua» le rispondo per le rime. Ma ho la voce gracchiante, come se avessi inghiottito un cardo. Abbasso lo sguardo e mi trovo davanti una minestra. Ho una punta di fame. Immergo il cucchiaio nella ciotola, ma sono troppo lontana. Dovrei farmi più avanti, ma la sedia sembra bloccata. Guardo giù; ha due ruote enormi. Jamie allenta i fermi e mi spinge più vicino al tavolo. La minestra non sa di niente. Qui non abbondano né di sale né di spezie. Io non ci voglio stare. Penso a dove altro potrei trovarmi.

Jamie e io siamo in un ristorante messicano per il nostro trentesimo compleanno, con il personale che ci si raccoglie attorno. Uno dei dipendenti regge un sacchetto con dentro un peperoncino. È liscio e verde. Dice: «Mangia». Jamie, tutta tronfia e sicura di sé, afferra la busta e ne ripiega i bordi all’ingiù. Ora tutti in coro ripetono: «Mangia, mangia, mangia, mangia». Jamie addenta il peperoncino. Non dico un morso. Metà del peperoncino. È lì che mastica e ingoia e sorride, annuendo come se niente fosse, finché non appoggia una mano sul tavolo, poi tutt’e due i palmi al muro. Porta una mano alla bocca, si piega in avanti, si piega all’indietro, agguanta il bicchiere di latte, si ficca un salatino in gola. Dopodiché si preme le dita sullo sterno, dice che lo sente andare a fuoco, e finisce a letto, tra i lamenti.

Solo che quella a letto tra i lamenti sono io. Jamie è seduta che mi guarda. Le chiedo se la pancia va meglio. Lei dice che sta bene. E io mi rendo conto di non starci capendo più niente. Nel mio cervello qualcosa non torna. Non ho trent’anni. Ne ho di più. «Possono mettermi a posto?» domando.

«Sicuro» dice Jamie. Ma ho sempre capito quando mentiva. Tranne una volta.

«Non riesco a passare a prendere i festoni per Halloween» dice Jamie. «Devo andare a casa e fare il bucato». Non è me che guarda, ma la tv nel mio soggiorno, il presidente Jimmy Carter in piedi su un palco, mentre lei giocherella con il gancetto di una delle otto zip sulla sua giacca di pelle. Se ne va a casa e io mi allontano in macchina da sola, anche se proprio non capisco. Halloween è la sua festa preferita. Non si perderebbe mai l’occasione di comprare scheletri terrificanti per via di un mucchio di panni sporchi.

A metà strada verso il negozio, mi accorgo di aver dimenticato la borsa. Faccio dietrofront. La macchina di Jamie è in fondo al vialetto di casa, e con lei anche quella di mio marito. Warren doveva essere al lavoro in negozio, ma così non è, e Jamie è tornata a casa per fare il bucato, ma adesso è qui, e io entro e sento risa e gridolini provenire dalla camera da letto. Poso la mano sulla maniglia e mi fermo. Ho un pezzo di carbone piantato in gola, e brucia.

Jamie sta ancora cercando di convincermi a mangiare. Ma stavolta la tovaglia è blu, e io siedo a tavola con una margherita finta, anziché una rosa. La ricopro di strilli per aver distrutto il mio matrimonio, solo che mi escono le parole sbagliate, e allora i membri del personale arrivano a calmarmi, e anche Jamie è lì a calmarmi, e io non credo abbiano capito perché sono arrabbiata dato che insistono a dirmi che la purea di mele mi è sempre piaciuta.

Ho la mano sulla maniglia. La giro, spalanco la porta ed entro in camera. La corrente d’aria fa turbinare una ventina di sfere rosa e viola per la stanza. Alla mia vista, Warren rimane deluso. Jamie molla apposta la presa sul palloncino che teneva alla bocca; quello strepita di qua e di là, poi finisce sul pavimento. E così pure lei. Ho mandato in fumo la mia festa a sorpresa.

Siedo al tavolo blu, e stanno ancora tentando di convincermi a mangiare la mia purea di mele, vanno avanti a ripetere che mi piace. Ne prendo una cucchiaiata e sento in bocca la sua consistenza granulosa, umida e vellutata. È vero. La purea di mele mi piace.

Sono sdraiata su un asciugamano al Sand Lake Park, da sola, di sabato. Tutte le amichette con cui esco sono a lezione di danza, e anch’io ci ho provato, ma sono la dodicenne più scoordinata del mondo e comunque non riesco mai a ricordare i passi. Jamie, la ragazza nel mio corso di matematica che ha sempre uno spasso di risposta pronta alle battute di John Eventhaller, stende il suo telo accanto al mio. Stiamo a guardare la gente che si tuffa a bomba e fa le capriole dal trampolino.

Jamie mi offre una mela rossa, dicendo: «Mangia». L’ha morsa da una parte. Io la giro e addento l’altra ancora intonsa. L’acqua luccica. Il sole mi scotta sulle spalle. Io mastico e ingoio, poi do un altro morso.

*

Il lavoro di Susan Kemp è apparso, tra gli altri, su HowlRound, The Writer’s Workshop Review e The Blue Lake Review. È editor del blog Hart Crowser. Sta lavorando a un romanzo intitolato AguaGeddon e a una raccolta di racconti in collaborazione con altri autori. Per maggiori informazioni, visitate il sito SusanWKemp.com.

Titolo originale, Eat, copyright @Susan Kemp, all rights reserved
Traduzione di Marina Calvaresi.