Questo pezzo è apparso originariamente su Brick numero 104, inverno 2020

Nel 1985 mia cugina abitava a Toledo, in Ohio. Diventammo subito amiche, come succede quando da piccoli si scopre di essere parenti. Mi somigliava molto, ma aveva l’accento. Le sue vocali suonavano diverse dalle mie e il suo lao era impeccabile. Era bravissima a imprecare, e io le andavo dietro, anche se ero più grande di qualche mese. Era una calda notte di luglio. Eravamo inseparabili. Durante il giorno ci eravamo infilate di nascosto nella stanza di suo fratello e avevamo trovato una scatola di lettere d’amore. Le ragazze gli scrivevano, gli confessavano i loro sentimenti, i desideri, gli mandavano le loro foto – quelle scattate a scuola, che stanno perfette nel portafoglio. Mi chiesi come ci si sentisse a essere amati in quel modo. Io non avevo mai ricevuto lettere come quelle, nessuno mi dava delle fotografie. Un tempo mi prendevano a pugni o mi tiravano i capelli, e io dovevo essere quella che reagiva, che picchiava più forte, che tirava i capelli finché non se ne veniva via con le ciocche in mano. Nessuno mi provocava più. Per me un pugno era un pugno, ero fatta così. Mia cugina ed io ridemmo pensando a quanto quelle ragazze amassero suo fratello, a come sperassero in una telefonata, a come ci rimanessero male quando passava loro accanto in corridoio senza dire niente. A quelle ragazze cadeva il mondo addosso per le cose che faceva, e la loro felicità dipendeva da quello che non faceva. Mi piacque leggere quelle lettere. Non erano i miei sentimenti, e mi mancava appena qualche anno per capire davvero come ci si sentiva. Dopo esserci stancate di leggere le lettere d’amore di suo fratello – ce n’erano così tante – andammo nella stanza accanto alla cucina a guardare i vermi che tenevano in un secondo frigorifero.
Ce n’erano scatole e scatole. Era quello che facevano i suoi per vivere allora. Raccogliere vermi. Non so dove fossero gli adulti in quel momento. Probabilmente a casa di qualcuno. In realtà c’era tanta gente in giro, ma per qualche motivo non erano a casa quella sera. Non era insolito che fossero tutti a cena qualche casa più in là. O forse c’erano e non li avevamo notati nel nostro mondo. Quella sera, non volendoci separare, rimanemmo stese insieme nel buio a raccontarci cosa volevamo diventare da grandi. Solo due vocine, che ridevano piano. Eravamo in camera dei suoi genitori. A un certo punto sentii una scatola sotto il letto e mi chiesi cosa fosse, cosa contenesse. Visto che era buio ed ero stanca, pensai che lo avrei scoperto più tardi, e mi addormentai. Il giorno dopo, con mia cugina di fianco, andai a cercare quella scatola sotto il letto. Dentro c’era una pistola di metallo. Non avevo mai visto dal vivo un’arma da fuoco. La presi in mano e come i cowboy nei film gliela puntai contro. Premetti il grilletto una volta. Una volta. Premetti il grilletto. Era completamente carica, eccetto una. Qualcuno non si era preoccupato di quella. Quella. Dissero a suo padre cosa avevo fatto, e quel pomeriggio si mise a urlare, a me, alla mia curiosità e meraviglia, e al mio essere così stupida. Avere quell’età, sette anni, e non sapere cosa «cazzo è una pistola». Io non capivo perché un uomo dovesse tenere una pistola in casa, di cosa avesse paura, perché si sentisse minacciato da qualcuno. Lo avrei capito molti, molti anni dopo. Sarebbe stata una telefonata alle tre del mattino. Ci dissero che era morto. Non fu niente di originale. L’abbiamo già sentito tutti. Una relazione. Un marito che voleva vendicarsi. Oggi mia cugina è viva. È sposata e ha due figli. Uno andrà all’università quest’anno. È quello che vorrei per lei. È felice. Non la vedo da tanto. E penso a lei spesso. Chi siamo, e cosa sarebbe successo se fosse andata diversamente. Quanto sono strette e vicine queste due cose.

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Titolo originale, My Cousin and I, copyright @Souvankham Thammavongsa, all rights reserved.
Traduzione di Linda Traversi.