Questo pezzo è apparso originariamente su Bennington Review numero 7, autunno/inverno 2019
Quando mi imbattei per la prima volta nel negozio di cactus ero più giovane, e bella come si è belli da giovani. Ma ero anche squattrinata come si è squattrinati da giovani. Dalla mia avevo solo esperienze e riflessioni, l’osservare di continuo dal di fuori le vite degli altri. Quei cactus nella vetrina del negozio erano un incanto; non ce n’era uno uguale all’altro. Alcuni avevano lunghe spine, altri escrescenze bulbose; alcuni mi arrivavano al ginocchio, altri misuravano appena un dito. Certi avevano fiori che sbocciavano come corone sulla loro testa. Ognuno a suo modo era perfetto, e io li volevo tutti.
Non avevo il coraggio di entrare nel negozio. Se l’avessi fatto il titolare mi avrebbe guardato, avrebbe notato i miei vestiti e i capelli e sarebbe giunto a determinate conclusioni. Ero il tipo di persona che meritava un cactus? Il tipo di persona in grado di prendersene cura e accudirlo per tutta la vita? Io stessa non ne ero sicura. Stavo per trasferirmi in un’altra città, chissà se il cactus sarebbe sopravvissuto a un evento così traumatico.
La città in cui mi trasferii era più piccola e meno cosmopolita di quella da cui venivo, ma con più gente giovane e squattrinata. Lì i cactus si vendevano per strada e non nei negozi ma, per qualche motivo, non sembravano gli stessi. Di tanto in tanto pensavo al negozio di cactus, ma non comprai mai neanche una pianta per il mio appartamento. Quando alla fine me ne andai, era spoglio come il giorno in cui ci ero entrata, con le pareti bianche e nemmeno una tenda alle finestre.
Ho vissuto in tanti posti, in molte città, e in ognuna i cactus si vendevano in modo diverso: su stoffa in un mercato all’aperto, in una serra, in abitazioni private, oppure nei musei. A volte venivano considerati un bene prezioso, altre oggetti così comuni da poter esser presi gratis. Mi ero imposta di non comprarne nessuno perché avevo sempre in mente quel primo negozio di cactus e avevo segretamente giurato a me stessa che, se mai avessi deciso di prenderne uno, l’avrei acquistato lì.
Anni dopo tornai nella città del mio primo negozio di cactus. Era cambiata, divenuta più vecchia e saggia come speravo di aver fatto anch’io. Ma conservava ancora il suo brio con tutti i nuovissimi, esaltanti negozi alla moda di shorts da discoteca, trucchi cangianti e centrifugati al gusto di biscotto. Pensai di rintracciare il mio negozio di cactus, ma non volevo essere il tipo di persona che cerca spasmodicamente ciò che vuole. Desideravo che capitasse per caso, che fosse un dono del destino.
Quando finalmente lo trovai, fu una sorpresa. Non si trovava nel quartiere dove credevo che fosse, ma in uno più vecchio, residenziale e non più alla moda. Lo riconobbi a prima vista, il suo aspetto familiare mi attirava. Stavolta sarei entrata comportandomi come fossi a casa mia, visto che ero in quella fase della vita in cui avrei meritato che lo fosse, in cui riuscivo a vedermi ottenere ciò che desideravo.
Suonò una campanella quando superai la porta a vetri, sulla maniglia c’era scritto SPINGERE, anche se avrebbe dovuto dire TIRARE. All’elegante bancone bianco non c’era nessuno.
C’erano cactus dappertutto, in piccoli vasi lungo le pareti, sul bancone e su ogni altra superficie disponibile. Ce n’erano persino alcuni sospesi in aria dentro gabbiette metalliche appese dal soffitto. Ognuno, così ricco di dettagli, perfetto nella sua imperfezione, era finto.
Tutti avevano uno stoppino in cotone.
Erano splendidamente realizzati, alcuni con spine lunghe e appuntite capaci di pungere e far sanguinare, altri con flessuosi aculei aggrovigliati che al tatto parevano ragnatele; alcuni avevano fiori così delicati e flessibili da sembrare veri. Li toccai tutti, e piccoli forellini si formarono sui miei polpastrelli. Ogni cactus unico nel suo genere, inconfondibile. Nessuno controllava, nessuno venne al bancone. In sottofondo della musica soft e neanche un rumore. Stavo osservando anni e anni di duro lavoro: ecco come era cambiato il negozio rispetto a prima. All’epoca, c’erano pochi cactus adagiati su ripiani sgombri; ora invece il negozio ne traboccava, ed era quasi pacchiano nel suo eccesso.
Sul bancone c’era un lungo fiammifero con la punta rossa di fosforo. Fuori il sole stava iniziando a calare, ma in quella città il buio arrivava sempre in fretta. Sfregai il fiammifero. Accesi ogni cactus, ogni fiamma un fiore, finché il locale non fu invaso dalla luce. Erano fatti per questo. Né acqua né vento, ma calore e luce. Guardai la cera colare lungo i fianchi dei cactus, estasiata alla vista delle perle che si formavano sui ripiani. Niente vento a spegnerli, c’era solo il mio fiato a farli tremolare. Ecco quel che avevo costruito, era per questo che ero venuta. Finalmente. Quei cactus erano tutti miei. Non sarebbe arrivato nessuno. Eravamo solo io e loro, fioriti di fuoco, che si scioglievano fino a sparire. Non avrei saputo immaginare niente di meglio.
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Titolo originale, Cacti Prickle, copyright @ Su-Yee Lin, all rights reserved.
Traduzione di Alex Di Nepi Finzi.