Questo racconto è apparso originariamente su Hobart il 29 maggio 2017

Il bambino col cappellino blu scava di nuovo nella ghiaia del parco. Sceglie con cura alcuni sassi e li sistema in fila. È concentrato e quando sua madre gli dice che è ora di andare, si mette a urlare.

Dall’altra parte della strada rispetto al mio ufficio c’è un’area giochi dove trascorro le pause pranzo, su una panchina, un po’ di sollievo dalle luci fluorescenti e l’aria stantia. Ho imparato a conoscere le famiglie, i bambini più cattivi, quelli imbranati. I genitori che costringono sempre i figli a scusarsi e quelli che li lodano anche se hanno appena fatto a fettine un compagno sparpagliandone gli organi interni sullo scivolo.

Sembra che anche i genitori mi conoscano. La madre con le gemelle dai capelli rossi si fa sempre in là, mi lascia il posto che preferisco sulla panchina. Quando sei una donna puoi guardare i bambini. Puoi venire ogni giorno al parco senza spaventare nessuno. Non fai paura. Al massimo sei un po’ triste. Forse si preoccupano per te, credono che tu sia sola. Forse pensano che tu desideri ciò che hanno e provano pena per te. Ma no, non sei un uomo, non sei una minaccia.

È uno dei benefici di essere una donna. In teoria dovrebbe compensare il fatto che, quando hai compiuto trentasei anni, tuo marito ti ha lasciato per una ragazza di venti. Prima di chiudersi la porta alle spalle ti ha detto che sarebbe meglio che restaste amici. Certo. Come no. Figurati. Gli hai sbattuto la porta in faccia. E l’hai chiusa chiave.

***

Nel fine settimana vedo la mia migliore amica, andiamo a pranzo in un locale vicino a casa mia. Lei ordina un whisky anche se sono soltanto le undici. «Non esco un granché» mi dice facendo spallucce. Non molla i figli da quando le è nato il secondo, sei mesi fa, e ha l’aria folle di una che è rimasta per troppo tempo nel bosco da sola.

«Lascialo perdere» mi dice. «È un coglione. No, peggio, un foruncolo su un coglione».

È questo che mi piace di lei. La sua empatia è diretta come un incidente d’auto.

«Dovresti bere qualcosa» mi dice.

«Rimarrò sola per sempre» dico.

«Sai quanto darei per restare sola anche per qualche minuto?» chiede. «Ora come ora è il periodo più lungo che passo da un anno a questa parte senza che un altro essere umano mi si appenda a qualche parte del corpo».

Finalmente arriva la cameriera e ci prende l’ordine. La mia amica mi ordina un whisky.

«Senti,» mi dice «hai un sacco di tempo».

«Un sacco di tempo per cosa?»

Lei piega la testa da un lato, come a dire: Andiamo, lo sai, non farmelo dire.

È uno dei benefici di essere una donna. Il tuo corpo ti comunica una data di scadenza. Non ti viene la tentazione di sprecare tempo.

«E poi» aggiunse «se non ti riesce avere figli, forse è anche meglio. Sono dei mostri».

Appoggio i gomiti sul tavolo e mi prendo il viso tra le mani. «Non so come fare a ricominciare» le dico.

«Ho letto che quando stai parecchio tempo con una persona, il cervello ti si assuefà» dice. «Anche se quella persona non ti piace. È un legame chimico. A livello evolutivo è un modo per tenere unito il branco».

«Niente lezioncina di scienze a caso, grazie. Dimmi solo cosa fare».

«Ti serve una sbandata. Devi rompere il legame».

***

Ho avuto un appuntamento. È stato più facile di quanto credessi. A quanto pare se hai Internet c’è sempre un uomo, da qualche parte, pronto a toccarti. In teoria dovrebbe essere uno dei benefici di essere una donna. Dovrebbe compensare per le mestruazioni. O la paga più bassa. Oppure non lo so, per i tanga.

L’ho incontrato in una panineria alla moda, un posto pieno di «tartufato» e «con sottaceti» sul menù. Durante l’appuntamento ho mentito. Era un modo per creare intimità senza essere troppo intimi. Per muoversi stando fermi, come su un tapis roulant. Ho detto al tizio di essere cresciuta in un ranch nel Wyoming. Bugia. Gli ho detto di essermi rotta il braccio due volte. Bugia. Gli ho detto che al liceo sono stata campionessa di hula hoop quattro anni di fila. Questo era vero. Devi concedere qualcosa, di tanto in tanto.

Sono uscita con un altro tizio. Con altri quattro. E poi sette. Uomini calvi, uomini alti, uomini con pantaloni cachi, uomini con magliette della loro band post-punk, uomini che vivevano con la madre e uomini con loft sciccosi. Ho allenato la provvisorietà. O magari ho allenato la mia stabilità, mentre intorno a me tutto cambiava.

Ho visto tutti soltanto una volta. Uno, invece, l’ho visto due. Era educato e gentile, e aveva quello stile ordinario e inoffensivo che è impossibile sia apprezzare sia detestare. Quando sono andata a casa sua ho lasciato le scarpe accanto alla porta, ordinatamente, così che fossero facili da ritrovare. Non sono rimasta tutta la notte, mi sembrava una cosa troppo sciocca. Siamo persone adulte, con orari e un lavoro. Abbiamo la comodità della nostra casa. I cuscini esattamente in quel modo, la manopola della doccia che sappiamo con precisione di quanto aprire. E non avevo alcun desiderio di dividere il letto, ora che avevo finalmente smesso di dormire soltanto sulla destra. Nel caldo di luglio mi allargavo al centro del materasso, senza lasciare spazio per nessun altro, a forma di X, come una stella marina.

Dopo il goffo brancolare del sesso ho seguito la pista lasciata dai miei vestiti, come briciole di pane, fino alla porta. Le scarpe in attesa di riportarmi a casa. Mi piace casa mia. Quando non c’è nessuno che possa sentirmi faccio pratica con la frase «Questa è casa mia. Vivo qui con me». Ma ancora, dopo tutte queste settimane, mio marito non è tornato a prendersi i vestiti. E a volte apro in fretta la porta dell’armadio, sperando di cogliere una giacca e un abito in qualche atto incriminante. Ma sono sempre immobili. Impassibili e imperturbabili com’è stato lui.

***

Le ore piccole che faccio agli appuntamenti mi lasciano esausta e perennemente in ritardo, il mattino dopo, e devo mettere insieme il pranzo raffazzonando qualcosa dal frigo.

Un mercoledì, in pausa pranzo, vado al parco e mi metto in equilibrio sul ginocchio un panino tutto battuto con burro d’arachidi e marmellata. Osservare le famiglie al parco è un po’ come un rituale, con i genitori nella parte dei sacerdoti. Il rituale della guarigione: dove ti fa male? Vieni che ti do un bacino. Vedi? Tutto a posto. Il rituale del perdono: chiedi scusa. Più convinto! Okay, tu digli che è tutto a posto e stringetevi la mano. Bene, andate a giocare.

C’è sempre lo stesso bambino, sempre lui, che ogni giorno scava nella ghiaia, tira fuori dei sassi e li sistema in fila. Adesso si avvicina per mostrarne uno alla madre. È seduta sulla panchina accanto a me. Io gli rivolgo un cenno del capo, come un’amichevole sconosciuta.

«Che cos’hai lì?» gli chiedo.

«Gli piacciono i sassi» dice la madre.

«Fossili» la corregge lui. «Sono fossili».

Solleva una piccola pietra marrone a forma di tubo.

«È un crinoide, viene dall’oceano. Li chiamano gigli di mare, ma in realtà sono animali. Anche se rimangono sempre in un posto».

Assumo un’espressione di esagerato interesse.

«Le persone credono che gli animali debbano muoversi per forza. Ma per essere un animale non devi mica fare nulla, solo startene fermo e fare l’animale».

«Be’, allora io me la sto cavando bene a fare l’animale» dico.

«Penso di sì» dice lui.

***

Mio marito si fa vivo a settembre. Suona il campanello di casa nostra come il visitatore che è.

«Sei qui per le tue giacche?» chiedo.

«Sono venuto per te. Mi manchi».

«Sono passati mesi».

«Ho fatto un errore. Mi dispiace. Ora sono tornato».

Mio marito si siede sul nostro divano e aspetta di vedere la mia reazione. Vorrei che ci fosse un adulto a istruirci. Stringigli la mano. Ora andate a giocare. All’improvviso mi sento stanca, voglio tornare a letto e sdraiarmi come una stella marina. Le stelle marine si riproducono in modo asessuato, si strappano uno dei bracci e lo trasformano in una famiglia. È uno dei benefici di essere una stella marina.

«Credo che dovremmo parlare» dice. «Dimmi come te la sei passata».

Quando mi sento confusa cerco di pronunciare frasi semplici: non male, in realtà. Sono stata in tanti ristoranti nuovi. Hai l’aria stanca.

Quando finisco le affermazioni inizio con le domande: Hai visto qualche bel film? Sei stato tu a chiudere con lei o è stata lei? C’era qualcosa da chiudere?

Quando non riesco più a processare le risposte alle domande, passo agli ordini: smettila di piangere. Dovresti dormire sul divano. Dovresti farti una tazza di tè. Chiudi la porta a chiave prima di addormentarti.

Perfino con lui in fondo al corridoio, raggomitolato sul nostro piccolo divano, mi ritrovo comunque a dormire di nuovo sul lato destro del letto. Esco presto, prima che si svegli. Spengo il cellulare. Quella notte dormo a casa della mia migliore amica. Quando riaccendo il cellulare vedo che ha lasciato un messaggio. La voce di mio marito è ghiaiosa. Parole allineate l’una all’altra, come sassi.

Cancellalo. Spacca il telefono e seppelliscilo. E un giorno, tra molti anni quando sarai vecchia davvero, tiralo fuori come un fossile. La plastica non si deteriora, avrà lo stesso aspetto che aveva quando l’hai sepolto. Sistema i pezzi rotti in fila e seguila, come una freccia. Vedi dove punta. Vedi se punta verso dove sei.

*

Shannon Heffernan vive a Chicago, dove lavora come giornalista per WBEZ. I suoi scritti sono apparsi su The Indiana Review, Annalemma e su Columbia Journal grazie al premio messo in palio dalla Columbia University per il miglior racconto breve. I suoi articoli le sono valsi numerosi premi da parte del Chicago Headline Club e della Illinois Associated Press, oltre a un Murrow Award.

Titolo originale: Gravel @ Shannon Heffernan, 2017