Questo racconto è apparso originariamente su Bennington Review numero 5, estate 2018

 

Due bei meloni, almeno una quarta. 4/5/83. Giro con Fiona. 15/5/83. Un tu-sai-cosa di tutto rispetto. Giugno ’83. Primo luglio sveltina, c’era il bambino da andare a prendere.
Si muove contro il rivestimento caldo del sedile – l’ha scaldato lei, con la sua rabbia – e fra le pagine del diario finisce una bufera di pezzetti di plastica vecchia che le impedisce di leggere chi si è scopato ad agosto. O forse il problema è la lacrima che ha nell’occhio. Non che stia piangendo. Che tristezza appuntarsi le date di ogni tradimento, le fa pena. Ah. Tutte quelle sere che rientrava tardi e non diceva una parola. Chissà com’era stanco.
Il vano portaoggetti trabocca di taccuini. La serratura l’ha forzata lei, altrimenti lo avrebbero fatto quelli della liquidazione. Deve averli trasferiti di veicolo in veicolo negli ultimi trent’anni, da quando hanno divorziato, deve averli spostati nel furgone di Patty, poi in quello di Tapestry, che è durata quasi niente. Patty e Tapestry i taccuini non li leggevano, probabilmente, ma magari sapevano della loro esistenza: Patty non ha risposto quando ha provato a chiamare l’ultimo numero trovato su Internet, e Tapestry ha preso lo spazzolino da denti e ha tagliato la corda dieci minuti dopo che è arrivata lei con suo figlio.
Ha ereditato tutto lui. Per quanto misero fosse il loro rapporto, lei comunque ha pensato che non poteva farcela a gestire la situazione da solo e si è offerta di aiutarlo, di accompagnarlo. Aveva anche pensato che ne avrebbe tratto una certa soddisfazione, il buon vecchio benservito. I primi giorni ha dovuto capire come disfarsi del cadavere: l’ospedale, le pompe funebri, il cimitero. Tanto valeva pulirgli anche il cesso.
Il parabrezza dell’auto in cui è seduta è butterato, come si sente lei in quel momento, con la mano su quell’inquietante diario: colpita in faccia dalla rivelazione. Vuole continuare a leggere, e al tempo stesso no. Con lo sguardo attraversa quello che in questa zona delle montagne vale come giardino: masso, masso, residui di erbacce, e un migliaio di corna di cervo, accatastate alla bell’e meglio intorno al capanno, che la puntano come a rimproverarla anche loro.
Piangi? dice suo figlio dopo aver bussato al finestrino. No che non lo dice, nessuno lo dice, sarebbe troppo ovvio; avrà detto, Mangi? Il suo cervello non si capacita di quel che le esce dal corpo. Lui le mostra un altro degli infiniti tagli di cervo che hanno trovato congelati nel freezer di suo padre come infinite pieghe di una fisarmonica. Ne ho trovati ancora, esclama. Un cazzo di banchetto.
Blocca un’ultima lacrima con l’angolo del diario e la spirale di metallo le graffia l’occhio, sono gli oggetti del suo ex che continuano a prendersi la rivincita. Sicuro si beccherà il tetano. Abbassa il finestrino. Un attimo e arrivo.
A quarant’anni, lui è incuriosito, se non preoccupato. Quelli cosa sono?
Nel cercare le date che cadevano durante il loro matrimonio, lei ha sparso una decina di taccuini sul cruscotto e sul sedile anteriore. Teneva il conto delle miglia, dice.
Suo figlio inclina la testa come a prendere la mira. Dove li ha imparati i gesti del suo ex se gliel’ha portato via praticamente subito? Significa Dimmi la verità, ma lei non gliela dice. Trova il sacco di plastica che stava riempiendo di rottami e ci butta all’istante tutti i taccuini rimasti. Continuano a cadere fuori dal sacco o a lacerarne la fragile inconsistenza, la fanno vergognare della fretta che ha di liberarsene.
Lo prendo io, dice lui, e allunga una mano.
Lei esita, poi dice, Lo porto fuori io con le prossime cose che trovo.
Decidi tu, dice il figlio, in quel tono impassibile che aveva suo marito e che voleva dire rabbia. Ma anziché picchiarla scrolla le spalle. Preparo la cena. S’incammina nella foresta di corna diretto alla casa, la carne congelata in mano.
Le vuole bene. È solo che soffre di sindrome dell’abbandono, vivono ancora insieme. Il perché lei non lo sa, non ha mica abbandonato lui, solo suo padre. L’ha lasciato non per i tradimenti – non ne aveva idea, o almeno, non della loro portata – ma per quel tono impassibile e le sue conseguenze. La sindrome dell’abbandono non può avergliela passata il suo ex perché non ce l’aveva, i suoi non si erano lasciati. Quello che aveva era una rabbia impulsiva che durante il loro breve corteggiamento aveva scambiato per passione. Aveva ammirato quella sua certezza che lei gli appartenesse – una strategia di conquista che doveva aver affinato con le due donne successive – e in risposta era scesa a passo di marcia nella cantina dei genitori e in un solo pomeriggio si era cucita un abito da sposa. No, ci aveva messo un paio di giorni, ma sembrava fosse passato un pomeriggio solo, sembrava se lo fosse infilato salendo le scale e fosse andata dritta filata in chiesa.
Cornuto come un bue, si dice. E di una donna?

***

Cenano con uno spezzatino di cervo improvvisato con verdure congelate, dado e aceto di vino. «Cenare» è una parola grossa: fanno sparire gli alimenti dalla circolazione. Hanno già setacciato la casa per assicurarsi i beni meno deperibili: ad esempio il letto a barca che lei tanto adorava. Al suo ex, che non lavorava mai per più di un mese di fila ed era sempre senza un soldo, piacevano le cose vecchie e di qualità. Forse era di qualità anche lei? Quando si erano separati non era vecchia, anzi, era troppo giovane per affittare un furgone e portarsi via il letto a barca, e troppo giovane per immaginare di odiarlo a tal punto da lasciarlo a dormire sul pavimento, troppo giovane per pensare che i pugni non fossero colpa sua. Immagina di andarsene di nuovo, seguita da una nuvola di fumo, alla prua di un mezzo preso in affitto che ha la forma del legno scuro e ricurvo del letto, spronando i cavalli sulla distesa di sabbia.
Hanno quasi finito la cena quando suo figlio alza un po’ troppo il coltello. Non se lo vede a riaprirsi le cicatrici sui polsi, ma ha il coltello alzato, e il polso piegato. Lei abbassa gli occhi sul piatto, ed è un sollievo scorgere con la coda dell’occhio che lui è tornato a tagliare la carne. Il suo ex non ha mai cercato di farsi fuori, gli è venuto un infarto. È l’unico caso in cui suo figlio ha preso l’iniziativa. Naturalmente secondo suo figlio anche l’infarto era colpa sua, doveva chiamarlo di tanto in tanto, anche che non riesca a trovare un buon lavoro è colpa sua, o forse è stata colpa sua se non ha perso abbastanza sangue da restarci secco. Ora sta dicendo che forse con i soldi della vendita della casa può trasferirsi a New Orleans. È un bel gruzzolo.
Lei annuisce. Lui che se ne va di casa? Se lo vede, felice a New Orleans insieme al suo amico Peter, ma non riesce a vederlo gay, così come non riesce a vedere i diari, le date e i nomi incriminanti. Ma suo figlio porta ormai la brizzolatura di una virilità avanzata e affrancata da moglie e figli. Gli vuole un bene dell’anima, anche se ha certe altre idee che lei non capisce. Dice che venderà la casa per conto suo. Che lei può tornarsene a casa, e spedirgli le sue cose per posta. Può vivere lì finché non chiude un contratto.
Fra tutti quei coltelli e i fucili e i taccuini a spirale infetti di tetano che non sono ancora arrivati al cassonetto? A occupare l’ultima dimora di un padre perso all’improvviso, nel tentativo di stabilire un contatto nel silenzio e nella solitudine di questo luogo isolato? Soltanto lui e le cicatrici che ha sui polsi? Non credo proprio, dice lei.
Quando ho lasciato l’esercito, dice lui con quel tono impassibile, continuando a tagliare, pensavo di aprire una fattoria. Magari in Louisiana mi compro una piantagione di noci pecan.
I pecan costano cari, dice lei.
Il suo nuovo marito – dopo vent’anni è ancora nuovo – non le ha dato abbastanza denaro per il biglietto aereo di ritorno. Hanno due conti correnti separati, e lei il suo non l’ha mai visto. In cambio, lui paga per tutte le spese che approva, e suo figlio è una di quelle che non ha mai approvato. In tutti questi anni è stata lei soltanto a provvedere a lui, insegnando a scrivere ai bambini, vendendo manufatti che le spellavano le dita e, negli anni di magra, lavorando pure come babysitter. Ora suo figlio è ricco, o lo sarà. Non che si debba sdebitare.
Le corna sono mie, gli dice lei, quei cervi sono morti prima che nascessi tu. Il figlio non protesta quando le vende per mettere insieme i soldi per un biglietto aereo. Tutti quei Bambi morti sono le donne dei diari, si dice, ed è giusto ricavarci qualcosa. Invece del volo, spende il denaro per affittare un furgone e portarsi via il letto. Suo figlio può dormire sul divano in soggiorno finché non vende la casa. La mattina della partenza trascina il letto fuori, passando accanto alle corna rimaste, mentre il figlio è dentro a fare calcoli su calcoli per capire se anziché vendere conviene affittare, e lei trascina la struttura in legno sui sassi e sulle rocce arenarie e su quel che rimane delle piante soffocate dalla sabbia, fino alla vettura, cercando di capire come farcela stare. La appoggia allo sportello. Un bel ciliegio duro. Che bel falò ci verrebbe!
Torna dentro per cercare il liquido per l’accendino. È sicura di aver visto la bomboletta in un cassetto pieno di utensili spaiati, ma no, dovrà passare in rassegna una delle latte piene di vecchi pomelli e mini-chiavi inglesi e chiodi arrugginiti, i posti in cui lui di solito teneva le sue cianfrusaglie. A viverci insieme qualcosa ha imparato.
Invece di avventurarsi fra la spazzatura della cantina in cerca delle latte, si siede sulla vecchia sedia a dondolo nella stanza accanto a dove sta il figlio. Ancora non ci crede a quel che ha trovato nei taccuini. Leggendo quella roba è come se si fosse esposta, è stato come trovarsi un pomeriggio in spiaggia completamente nuda, col sole che batte. Non le sarà sfuggito un Lei dormiva o un Non se ne accorgerà accanto a ogni data rivelatrice?
Ora ha un ronzio nella testa. La scrolla come un cavallo, e guarda con sospetto agli angoli e al soffitto. Si mette in piedi al centro della casa e sente più forte il ronzio. Non è il tipo di moglie che coltiva aiuole variopinte o indossa caffetani sformati da vecchia, ha le unghie curate e dipinte. Cosa starà facendo nel loro letto questo marito nuovo, mentre lei si prende queste due settimane per disfarsi del cadavere del marito vecchio e vendere quel mucchio di corna e magari farsi tutta la strada di ritorno col letto a barca al rimorchio? Forse non vuole trovare il liquido per accendini, forse ha trovato qualcos’altro.
Ha detto che andava a pedalare. Come se fosse in una squadra. Forse è davvero in una squadra e si scopa i compagni uno dopo l’altro. Ma no: è pronta a scommettere che la bicicletta se ne rimane lì, al contrario di altri oggetti che ha in mente lei.
Tesoro, gli dirà rientrando in anticipo, io in flagrante delicto non so come si scrive.
Lui dirà che è latino, mica italiano. Una volta è stato a Roma senza di lei, se lo ricorda, anche a distanza di anni. Quando sono arrivati in aeroporto lui l’hanno lasciato salire, ma lei no. Si era sbagliato a prenotare il biglietto. Si sarà visto con qualcuno in quel luogo di amanti del latino, per una bella vacanza? Sente di nuovo quel ronzio, al posto della voce di lui, quel suono alla non-ho-fatto-nulla che gli sfugge dalle labbra come una nota stonata.
Suo figlio in cucina mette su il caffè. La radio sta blaterando con le sue incessanti interviste strappalacrime, le sue addolorate notizie di borsa e variazioni sul tema «crisi immobiliare», quando finalmente la chiama il marito.
C’è rumore anche qui, dice.
Dove sia lui lei lo dovrebbe indovinare.

*

Terese Svoboda è autrice di libri di narrativa, memoir e poesia, oltre che traduttrice e regista. I suoi scritti sono stati pubblicati da New Yorker, The Atlantic, Paris Review, Narrative, One Story, American Poet, Poetry, Times Literary Supplement, Tin House, Slate e altri. Per maggiori informazioni: teresesvoboda.com.

Titolo originale, Burn the Bed, copyright @ Terese Svoboda, all rights reserved

Traduzione di Eva Allione