IN CUI SI PARLA DI: paziente A-1261, Santa Sede della crionica, esemplari di essere umano, tante ragazze, petti villosi, Optimism One, pisciare nei vasi antichi, la vera natura, messaggeri di sventura, una rete globale di comuni, radicalizzazione, Society for Investigation of Recurring Events, contenitori per il cervello

Evoluzione, vita e morte transitoria del transumanista FM-2030

Questo pezzo è comparso originariamente su The Believer, giugno 2013

 

8 luglio 2000. Un uomo viene infilato in un sacco per cadaveri pieno di ghiaccio, caricato su un’ambulanza e portato in aereo da New York a Scottsdale, Arizona. Alcune ore prima era stato dichiarato clinicamente morto, ma una squadra di tecnici si era radunata intorno a quel corpo devastato dal cancro animata da grande ottimismo.

Giunti nelle strutture della Alcor Life Extension Foundation depongono il corpo, rinominato di fresco «paziente A-1261», su un tavolo operatorio protetto da uno schermo di plexiglas a forma di bara. Per mantenere bassa la temperatura i tecnici l’hanno riempita di azoto iperfreddo, mantenendo così A-1261 in quello che ritengono uno stato liminale – «in pausa», quindi. Lavorano febbrilmente per conservare quel corpo, poiché appartiene nientemeno che a uno dei loro profeti più famosi. A-1261, infatti, era stato (e, speravano, un giorno sarebbe tornato a essere) uno dei più conosciuti transumanisti al mondo, importante membro di un gruppo di futuristi impegnati a sviluppare filosofia, scienze e tecnologia allo scopo di portare l’essere umano alla realizzazione del suo pieno potenziale e, da ultimo, scrollarsi di dosso il giogo dell’invecchiamento e della morte. Tutto lo staff della Alcor, la Santa Sede della crionica, era composto da transumanisti, e per loro la morte era soltanto transitoria: la mente e tutte le idee radicali in essa contenute venivano «criopreservate» fino a quando, in un lontano Futuro, la razza umana fosse stata tanto evoluta da dar loro un nuovo corpo per avviare la Fase Due, quella dell’io-robot. La morte, per un transumanista, era solo un banale pit stop sulla strada verso l’inevitabile resurrezione.

I chirurghi infilano le mani guantate nelle apposite aperture nel plexiglas. Fanno un profondo taglio con il bisturi e poi, dopo aver individuato il punto preciso tra la sesta e la settima vertebra, asportano la testa di Fereidoun Esfandiary.

In quella che definiva la sua vita da «animale umano» – l’«incidente biologico» – il paziente A-1261 era noto al mondo con un’altra sigla: FM-2030.

FM-2030 giunse tra noi a Bruxelles, nel 1930, con il nome umano di Fereidoun M. Esfandiary. Figlio di un diplomatico iraniano, Esfandiary studiò in Iran, Inghilterra e Israele; parlava arabo, ebraico, inglese e francese e visse in diciassette Paesi diversi già prima di compiere dodici anni. Sin da piccolo fu un personaggio dai variegati interessi e dalle molteplici identità. Frequentò il liceo in un istituto multilingue gesuita palestinese a Gerusalemme, dove aspettò pazientemente che gli accadesse qualcosa di entusiasmante. Riempì un quaderno con una lista di studios hollywoodiani, con tanto di indirizzo e attori che vi avevano lavorato, utilizzando una perfetta grafia curva. Joan Crawford, Clark Gable, Hedy Lamar. All’età di diciassette anni Esfandiary fece ingresso in un mondo ancora più grande, quando fu invitato a rappresentare l’Iran ai Giochi Olimpici di Londra del 1948 insieme alla prima squadra di basket del Paese.

In una lettera a un amico scrisse di aver lasciato Teheran per recarsi ai Giochi a bordo di una «enorme e lussuosa macchina volante» dove lavorava «personale di eccezionale bellezza» e da cui si godeva di una bella visuale sul Mediterraneo sottostante. A Londra rimase sbalordito alla vista di tutti quegli esemplari di essere umano – il pesista John Davis, il cestista Bob Kurland, la nuotatrice Ann Curtis – e uscì con le molte ragazze inglesi che gravitavano intorno al villaggio olimpico. Durante i Giochi anche Esfandiary riuscì a spiccare: petto ampio e sguardo austero, corpo robusto e squadrato (mascella, spalle), naso romano, sopracciglia scure e folte, fitti capelli neri pettinati all’indietro, labbra perfette, quasi femminili e una cicatrice, come una coltellata, che gli correva lungo la guancia sinistra.

Dopo i Giochi Esfandiary viaggiò per qualche mese in giro per l’Europa, poi si trasferì negli Stati Uniti per frequentare il college. Si fermò a New York, che lo colpì come la città del futuro con la sua immensità («La prima volta che vidi l’Empire State Building non riuscivo a credere ai miei occhi») e l’energia elettrica disponibile giorno e notte («Fa giorno anche quando c’è la luna»). Si spostò a est e visitò Los Angeles, dove fece un giro agli studios Warner Bros. e incontrò alcuni degli attori presenti sulla lista che aveva stilato da ragazzino. «Hollywood è il paese delle meraviglie» scrisse al suo amico. «Bellissima e moderna, piena di sale da ballo, sale musica e lussuosi ristoranti in cui si incontrano tutte le stelle del cinema». Il suo viaggio terminò a Berkeley, dove iniziò gli studi. Era il 1949, ed Esfandiary aveva assaggiato la bella vita e le tante possibilità che offrivano luoghi come New York e la California. Terminò la lettera chiedendo all’amico di raggiungerlo in Occidente: «Ci compreremo la macchina, la radio e avremo tante ragazze, più di quante potremmo mai averne altrove. Vivremo entrambi in questa splendida, soleggiata e bellissima California». Fu lì che cominciò a immaginarsi un futuro senza fine, fatto di abbondanza e lusso. Un futuro eterno.

Negli anni Cinquanta, finiti gli studi, Esfandiary seguì le orme del padre nel campo della diplomazia, entrando a far parte della Commissione di Conciliazione ONU per la Palestina. Ma prima di compiere trent’anni si diede alla scrittura, producendo una serie di romanzi che parlavano di un’identità in conflitto e in continuo cambiamento sullo sfondo di sommovimenti culturali più ampi, e di quelle che lui considerava le restrizioni della cultura mediorientale. Negli anni Sessanta Esfandiary fu testimone dei progressi di scienza e tecnologia, che ampliarono il limite delle potenzialità umane: gli Stati Uniti lanciarono il loro programma spaziale, spedendo John Glenn in orbita a bordo della Friendship 7, mentre allo stesso tempo il Dipartimento della Difesa iniziò a finanziare seriamente la ricerca sull’intelligenza artificiale e il padre della crionica, Robert Ettinger, stabiliva i concetti base della crioconservazione nel suo libro La prospettiva dell’immortalità. Per la metà degli anni Sessanta gli «studi futuri», o «futurologia», o «tecnologie emergenti» erano ormai istituzionalizzati, sulla spinta di teorici come Herman Kahn, logici come Olaf Helmer e architetti progressisti quali Buckminster Fuller. Furono tutti raggruppati in un articolo comparso sul Time nel 1966, intitolato «Futuristi: uno sguardo all’anno 2000», un pezzo che sdoganò quel termine. La generale trepidazione alla prospettiva del nuovo millennio fece nascere anche una serie di iniziative sponsorizzate dal governo: il Comitato per l’Anno 2000, ad esempio, prediceva l’avvento di una «società post-industriale» basata sui servizi, più che sulla produzione, oltre a un «sistema computerizzato di informazione nazionale», con uffici e case «collegati a dei giganteschi computer centrali» che fornivano informazioni, servizi commerciali e bancari. Una ricerca intitolata «L’anno 2000», di cui Kahn fu il coautore, includeva una lista delle previste innovazioni future, dai laser ai sistemi di contraccezione economici, passando per i cercapersone e i «telefoni da tasca».

Gli anni Sessanta segnarono anche l’arrivo della mezza età per l’ex olimpionico iraniano, che continuava imperterrito a indossare gli stessi abiti sportivi di quando era giovane: pantaloncini aderenti e canottiere che mettevano in risalto la pancetta, oppure camicie sbottonate che lasciavano scoperto il petto villoso. Forse fu naturale, vista l’età delicata, ma in quegli anni Esfandiary si dedicò ossessivamente alla ricerca della vita eterna. Invece di rassegnarsi al passare degli anni, decise di sfidare apertamente l’invecchiamento.

Abbiamo raggiunto una fase, nella nostra evoluzione, in cui pessimismo, fatalismo e nihilismo non sono più idee filosofiche valide. La nostra è la prima Età dell’Ottimismo. Siamo nell’Anno Uno dell’Ottimismo.

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L’evoluzione umana, sanciva FM-2030, era divisa in due fasi: la prima, quella dell’«animale umano», quella che viviamo adesso, viene determinata dagli «incidenti biologici» che ci portano alla luce; poi c’è la seconda, la «post-animale», quella in cui continuiamo a «metterci alle spalle le nostre origini evolutive» manipolando la nostra stessa biologia e i confini del mondo in cui viviamo. FM-2030 chiamava «transumani» le persone impegnate a raggiungere lo stato post-animale, e il movimento che si formò intorno a quelle idee diventò presto noto come «transumanesimo». Era, ed è tuttora, una comunità di persone per le quali costruire macchine umane superintelligenti o vivere per un milione di anni non sono obiettivi irraggiungibili. Al contrario, i transumanisti ritengono che siano le uniche ambizioni di una persona, che facciano parte del nostro destino comune, e che perciò tanto valga prepararsi e adoperarsi per rendere il futuro non più così lontano.

Il transumanesimo cominciò a prendere forma negli anni Settanta, grazie ai progressi compiuti in svariati campi della medicina e della tecnologia che un tempo erano soltanto materiale da fantascienza – dall’intelligenza artificiale alla chirurgia plastica, passando per la donazione degli organi e l’ingegneria genetica (la Alcor eseguì la sua prima crioconservazione di un essere umano nel 1976). Nel 1970 FM-2030 scrisse il suo primo libro-manifesto sul transumanesimo, Optimism One: The Emerging Radicalism, seguito nel 1973 da Up-Wingers: A Futurist Manifesto. Iniziò a dare lezioni sul futurismo alla New School for Social Research e pubblicò una serie di articoli sul New York Times a proposito delle nuove «telecomunicazioni interattive» e sull’incombente era delle «macchine intelligenti». Le rivoluzionarie scoperte compiute in campi della scienza sempre nuovi ispirarono svariate speculazioni e portarono i futuristi a dividersi – alcuni credono ancora oggi che siano necessarie ricerche lente e iper-specializzate per raggiungere l’obiettivo, mentre altri non si discostano dalle grandiose e superficiali affermazioni dei teorici. Tutti, in ogni caso, hanno da sempre condiviso un incrollabile ottimismo per il futuro.

Fu proprio questo ottimismo il contributo di FM-2030 alla storia di questo movimento – uno sguardo nuovo che, a suo parere, doveva prendere il posto di quella che lui definiva «patetica nostalgia occidentale» per una lista infinita di «età dell’oro» ormai svanite, civiltà i cui movimenti culturali sono, a suo parere, romanticizzati oltre ogni ragionevolezza. «Uno stupido vaso di terracotta trovato in un sito archeologico viene ammirato e portato in tutti i musei europei e americani» scrive. «Ma in Asia i contadini ci pisciano, in quei vasi».

Amare così tanto il passato, riteneva FM, portava gli intellettuali a trascurare le vere sofferenze e la diffusa ignoranza dell’epoca pre-industriale. «Nessuna civiltà del passato è stata grande» scrive. «Erano tutti dei primitivi la cui cultura si basava sulla soggiogazione e sull’omicidio di massa». Guardandosi sempre indietro, verso un passato «illustre» che esisteva soltanto per pochi, i romantici occidentali commettono il crimine culturale più grave in assoluto, agli occhi di FM: minano le reali possibilità dell’epoca odierna e i progressi che l’uomo, grazie alla scienza, ha il potenziale per realizzare. «La scienza e la tecnologia sono diventate il capro espiatorio degli occidentali» scrive. «Gli americani, in particolare, adorano autoflagellarsi» condannando ogni loro progresso come «alienante», «disumanizzante» ed «estraniante dalla natura». Sono tutte stupidaggini, asserisce FM. A chi piange la perdita di un passato più semplice, bucolico e in armonia con la natura, FM prescrive un viaggetto nella giungla. «Lì si può vedere la legge del più forte al lavoro… le grida terrorizzate di un animale inseguito dal predatore, gli strilli d’agonia di una bestia che viene divorata» scrive. «È quella la vera natura».

Usata nella maniera corretta, la tecnologia permette all’essere umano di spiccare, invece di farsi piccolo dinanzi alla natura. FM prendeva la tecnologia molto sul personale – come si evince da questo passaggio tratto da Optimism One:

Quando vedo un grattacielo non mi sento piccolo. Mi sento anzi enormemente più grande. Sento di essere il grattacielo, o lo sento parte di me… Quando sento il potere di un gigantesco motore di aereo mi esalto, perché so che la potenza e la spinta formidabili che produce vengono da me, dal suo creatore umano.

Anche se FM non aveva avuto alcun ruolo nella progettazione e nella costruzione delle nuove macchine, ciascuna di esse, ogni nuova scoperta in qualche modo ingrandiva la nicchia da lui occupata nell’universo.

Questa visione narcisista della tecnologia, per quanto fosse eccitante, era anche irresponsabile. Herman Kahn descrisse gli effetti orripilanti del fall-out nucleare, ad esempio, mentre Fuller diffuse innovative argomentazioni in favore dell’ambiente e del design sostenibile. FM, invece, rifiutava di farsi tarpare le ali da sciocchezze del genere. Rimase per tutta la vita un accanito sostenitore del progresso, istigando tutti a dedicarcisi con foga e lasciando che fossero altri a preoccuparsi delle conseguenze. I conflitti etici legati all’utilizzo della tecnologia, ora che sono passati decenni, sono ancora più palesi: il prezzo della globalizzazione, l’insorgere della guerra combattuta coi droni, il monitoraggio costante di ogni nostra mossa online. Eppure non c’era spazio per il pessimismo nel mondo di FM. Quello era per i «perdenti», per i «messaggeri di sventura».

Il suo ruolo, invece, era quello dell’eccentrico appassionato, dell’Antonin Artaud del futurismo: uno scrittore la cui produzione era rappresentata da accesi manifesti privi di informazioni supportate dalla ricerca. FM era un uomo di Ampie Vedute – scriveva in grassetto, usava tantissime maiuscole e poche virgole, senza lasciare spazio ai dati scientifici (come avviene in molti movimenti, di solito chi scrive gli incitamenti più stravaganti e potenti non è spesso il fine pensatore cui ci si rivolgerebbe per ottenere le informazioni necessarie a cambiare davvero le cose). FM era il portavoce delle possibilità, spronava a creare «una nuova, visionaria immagine di noi stessi… della nostra situazione in un universo in continua espansione». Come sottolinea in Up-Wingers, l’umanità era sul punto di entrare in un’altra dimensione, la «Sovradimensione», in cui i progressisti come lui non stavano né a destra né a sinistra, ma «sopra»: erano gli Up-Wingers, appunto. L’up-winger «non accetta come permanente alcuna situazione, nessuna tragedia come irreversibile, nessun obiettivo come irrealizzabile». Abbraccia il cambiamento e si esalta a ogni nuovo sviluppo tecnologico. L’umanità non deve più credere che sia la natura a regolare la vita umana, o di essere vincolata alle leggi dell’evoluzione e confinata in un corpo biologico, su un unico pianeta. E non deve più presumere che l’esistenza dell’uomo sia vincolata dalla morte.

Alcune delle profezie di FM, i suoi più stravaganti balzi concettuali, si sono realmente avverati. Fu uno dei primi, ad esempio, a scrivere dell’energia solare, della stampa in 3D e della globalizzazione. Presagì con quarant’anni di anticipo la rete mondiale di tecnologia che ci avrebbe permesso di restare sempre connessi grazie alla «telecomunicazione globale», che definì in seguito «UniCom»: «Le nostre stesse psiche si fondono… Può esserci ancora qualche dubbio che stiamo sviluppando in fretta una coscienza universale?» Secondo lui l’individuo avrebbe perso la presa sulle categorie sociali che, storicamente, lo definivano da sempre, «sgravandosi con soddisfazione» dall’identità che gli aveva attribuito il contesto culturale. La visione dell’up-winger di quel futuro non così distante parlava di grandi cambiamenti sociali, una concezione che mescolava lo spirito degli anni Sessanta ai progressi della scienza: il matrimonio sarebbe stato sostituito da legami temporanei, i giovani adulti avrebbero donato sperma e ovuli per progettare geneticamente un numero dato di figli; figli che sarebbero stati cresciuti da una serie di individui sempre diversi a turno, persone che avrebbero fatto parte di una rete globale di comuni racchiuse in cupole dove il clima veniva controllato. Tutti correvano inesorabilmente verso un futuro di interconnessione universale, mappando parti sempre più ampie del pianeta per farvi abitare l’uomo e spingendosi sempre più in là nello spazio. E allo stesso tempo la scienza ci avrebbe portato a sconfiggere la morte, brandendo sulla Terra e oltre lo stendardo del nostro immenso stato sociale di esseri immortali.

FM non si poneva domande, era un portavoce fin troppo zelante della riproduzione selettiva e dell’ingegneria genetica. «Dobbiamo decidere insieme quante nuove vite il mondo può sostenere ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Dobbiamo prendere tutti parte alla procreazione usando le nostre cellule sessuali più sane» scrive. «Che ogni nuovo nato abbia il patrimonio genetico migliore, che ogni nuovo nato appartenga, biologicamente e socialmente, al mondo intero». Come organizzare una cosa del genere, e come determinare cosa fosse «più sano», non erano problemi che lo riguardavano. Durante una conferenza si riferì all’ingegneria genetica come «un campo di ricerca che, senza alcun motivo comprensibile, spaventa le persone». Forse il ricordo ancora fresco della seconda guerra mondiale non poteva conciliarsi, a quei tempi, con quella sua visione del mondo tanto positiva.

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A dispetto del suo rapporto conflittuale con gli aspetti più pratici della tecnologia, FM riteneva che la sua vera vocazione, in quanto futurologo innovatore e autodefinitosi «pianificatore a lungo termine», fosse quella di aiutare a facilitare la transizione verso il Nuovo Mondo per chi era meno visionario di lui. Iniziò a provarci tramite una serie di corsi universitari, prima alla New School, poi alla UCLA Extension. Parlava agli studenti di argomenti come «Attivismo Cosmico», «nuovi stili di vita della post-famiglia universale», «Comunità dell’Età Spaziale», «Planetizzazione dell’umanità» e «la spinta verso l’immortalità fisica». I suoi corsi si concludevano con una sessione di un giorno in cui FM aiutava gli studenti a sviluppare strategie per affrontare quelle sfide, permettendo loro di «affrontare i crolli in famiglia, ridurre al minimo il dolore e i conflitti nel passaggio a nuovi stili di vita… Trascendere la radicalizzazione. Evolversi in una persona universale fluida». Usando i toni sfrontati di un guru dell’auto-aiuto prometteva: «Con un’intelligente pianificazione e tanto impegno possiamo risolvere adesso tutti i nostri problemi, soddisfare ogni nostro più audace desiderio». Portò in giro quel suo messaggio, diffondendolo tra un pubblico estremamente diversificato: pronunciò discorsi allo Smithsonian Institute e a convention di architettura e design; fece da consulente per l’Institute of Life Insurance, il Committee for Elimination of Death e la New Jersey’s Society for the Investigation of Recurring Events. Comparve perfino a fianco di alcuni chiromanti.

Negli anni Ottanta il transumanesimo prese piede, seppur con titubanza, anche sulla West Coast. Fu in quel periodo, mentre insegnava alla UCLA, che Esfandiary decise di liberarsi del suo nome terreno e ribattezzarsi «FM-2030», in onore dell’anno in cui, ne era sicuro, avrebbe compiuto il suo primo secolo. Pubblicò Are You a Transhuman?, un libro pieno di questionari che permettevano di determinare se il lettore avesse o meno uno stile di vita sufficientemente futurista, e fece una serie di apparizioni in TV in cui promuoveva il suo transumanesimo (comparve al Today Show, al Good Morning America e al Larry King Live). Una nuova iniezione di fiducia gli arrivò negli anni Novanta, con il boom di Internet e il sorgere di numerose start-up nel campo della tecnologia. Online il transumanesimo riuscì a svilupparsi, diventando un vero e proprio movimento culturale. Max More contribuì a fondare la prima organizzazione transumanista, l’Extropy Institute, che nella sua mailing list d’esordio vantava personaggi come il padrino della nanotecnologia Eric Drexler e i guru dell’intelligenza artificiale Hans Moravec e Marvin Minsky. L’Extropy organizzò le prime, grandi conferenze transumaniste nella metà degli anni Novanta e cominciò a definire con più cura gli obiettivi del movimento: l’Ottimismo senza limiti di FM fu ridotto a «ottimismo pratico», per esempio, e tutti i transumanisti vennero dichiarati liberi di scegliere se trasformare o meno se stessi grazie alla tecnologia. Nacquero filiali in Svezia, Germania e Olanda, e presto fu fondata la World Transhumanist Association (oggi nota come Humanity+). Il concetto di «singolarità tecnologica» – un momento del futuro in cui l’intelligenza artificiale supererà la nostra – entrò nell’immaginario collettivo grazie al best-seller di Ray Kurzweil del 1999, The Age of Spiritual Machines: When Computers Exceed Human Intelligence, un’opera che rese Kurzweil la più conosciuta celebrità del movimento (è stato nominato giusto l’anno scorso ingegnere capo di Google).

Fu sempre più chiaro come FM fosse un personaggio che aveva avuto un po’ troppa fretta: adesso stavano comparendo sulla scena intellettuali più rigorosi e pragmatici, impegnati a creare qualcosa che potesse durare, che si discostasse dall’eccessivo entusiasmo del suo profeta. Transhuman Reader, la prima raccolta di saggi accademici approfonditi sul transumanesimo, permette di capire la nuova direzione presa dal movimento – è interessante notare che in questa raccolta non compaiono gli scritti di FM. Il suo nome viene citato nel saggio introduttivo di More, che lo definisce «uno dei più onnicomprensivi (sebbene a volte troppo idiosincratico) pensatori transumanisti», «più letterario che accademico», che ha investito di una «natura personale» la sua idea di futurismo.

A dispetto dei grandiosi proclami circa l’illimitato potenziale umano, il transumanesimo è un movimento che parla allo stesso modo di solitudine, insoddisfazione e bramosia. Come scrive FM in Up-Wingers, la solitudine è stata sempre scambiata per un problema psicologico, quando in realtà è semplicemente radicata nella biologia dei nostri corpi come entità singola. «Fintanto che siamo entità biologiche separate» scrive «saremo soli». Per infrangere il limite rappresentato dalla nostra carne, suggeriva di trovare un modo per collegarci a mini-computer ed elettrodi per accedere direttamente alla coscienza altrui, ogni volta che avevamo il desiderio di sentirci più connessi al prossimo. In questo modo, avremmo avuto la capacità di fonderci con gli altri. «Collegarsi direttamente, senza parole o gesti… Collegarci per fonderci e combinarci al prossimo. Essere uno ed essere molti. Essere soli e non esserlo». E, in un’incarnazione ancora più avanzata, saremmo diventati «teleumani», «persone il cui cervello e corpo sono continuamente teleconnessi ad altri cervelli e corpi, sistemi e tecnologie per il bene dell’attimo, della comunicazione istantanea. Bypasseremmo ogni barriera, inibizione e paura che ci hanno tenuti separati nel corso degli eoni».

Questa idea della «fusione» è collegata al concetto dell’«upload mentale» – o «emulazione del cervello», o «transfer mentale» – emerso per la prima volta nei racconti di fantascienza degli anni Cinquanta. Uno scenario ipotetico, di cui si parla parecchio fra i transumanisti odierni, presuppone che un giorno avremo la capacità di scansionare un cervello umano con tale chiarezza e accuratezza che potremmo riuscire a copiarlo e a farne il back-up, come un hard disk, magari scaricandone le informazioni in una sorta di cloud. Quel cervello «scaricato» potrà quindi essere aperto, condiviso oppure utilizzato semplicemente come misura di sicurezza.

«Non sono più il mio corpo» scrive FM. «Questo corpo è soltanto una mia estensione fisica. Gli organi in esso, la carne, il liquido, gli scarti, gli arti e le ossa, tutto ciò sta diventando un optional per la mia esistenza». La carne sta per diventare lo scarto del nostro io primitivo, sempre meno necessaria alla sopravvivenza. È quella parte di noi che funziona come un «robot guasto». FM lo dice in modo ancora più netto: «Che c’è di tanto sacro in questo cosiddetto corpo naturale, tanto da lasciarlo incontaminato? Che c’è di così bello in un fegato o in un rene animale, o nella carne, nella pelle? Anche il culo di un cavallo ha la pelle. Che c’è di tanto romantico nell’atto di defecare?»

FM riteneva che nulla fosse «artificiale», che qualsiasi cosa fossimo in grado di procurarci sulla terra fosse sufficientemente «naturale». Riteneva che dovessimo aspirare a diventare più umani di quanto non fossimo, degli esseri umani fatti dall’uomo. In quel senso, ecco che il post-umano diventava ultra-umano.

Non ci siamo scelti il corpo. Non abbiamo avuto voce in capitolo a riguardo. Ci è stato imposto dall’evoluzione, influenzata dall’ambiente ostile. Ma adesso possiamo ricostruire il corpo umano, rendendolo bello, vario, fluido, durevole. Un qualcosa che esprima la nostra nuova visione.

E come si fa a diventare più umani degli umani? FM elenca una serie di possibilità. Suggerisce di impiantarci negli occhi «micro-laser, micro-radar e sonar» per vedere attraverso gli oggetti e da lontanissimo, antenne nelle orecchie per «ricevere voci e suoni da qualsiasi luogo sul pianeta e nello spazio», e magari perfino branchie e ali per viaggiare in modo più versatile. Dopotutto già negli anni Settanta il corpo veniva ricostruito, manipolato, adattato. Facciamo un salto in avanti di trent’anni, al periodo in cui il corridore sudafricano Oscar Pistorius iniziò a gareggiare alle Paralimpiadi del 2004 (prima che diventasse il protagonista di vicende macabre): ecco che ci siamo trovati di fronte a un campione con delle falci in fibra di carbonio al posto delle gambe. Molti ebbero la sensazione che fosse nata una nuova specie di cyborg, che non tentava di riprodurre il corpo umano ma che lo migliorava, gli dava abilità superiori.

Ma Pistorius, cui avevano amputato le gambe all’età di undici mesi, aveva un bisogno, una chiara disabilità fisica che è stata risolta con quegli arti non umani. Sarebbe tutto un altro paio di maniche – molto in linea con le idee di FM – se un essere umano richiedesse che le proprie gambe perfettamente funzionanti venissero sostituite con, mettiamo, una serie di protesi studiate per spostarsi su dei terreni diversi. Perché, se è possibile definire fisicamente transumano, o post-umano, uno come Pistorius, il concetto più ampio alla base del transumanesimo parla di una scelta: spinge il transumanista ad abbracciare una nuova definizione di «sano», «normale», «umano». Almeno per il momento, finché l’apocalisse rimane solo una prospettiva lontana e siamo impegnati nella corsa spaziale verso Marte, c’è ancora un elemento di «gioco» in tutto questo. A eccezione magari di una persona transgender, che può scegliere di farsi operare per il bisogno di vivere in un corpo diverso da quello in cui è nata, la stragrande maggioranza della gente non si sveglia la mattina in preda al bisogno di farsi sostituire alcune parti del corpo con macchinari avanzati e futuristici.

È qui che subentra una sorta di desiderio compulsivo di controllo. Il transumanesimo – almeno quello di FM – ha come obiettivo ultimo quello di poter compiere scelte infinite. Quando possiamo progettare geneticamente e modificare chirurgicamente ogni elemento del nostro io biologico, e ritardare criogenicamente ogni scalino dell’invecchiamento, che cosa siamo, se non un animale progettato in laboratorio? Se non una creatura dal futuro indeterminato? E se veniamo creati meccanicamente e diventiamo un ammasso di parti combinabili e collegabili fra loro che contengono il nostro cervello, che cosa resta di umano, nei nostri corpi? Se eliminiamo l’angoscia di invecchiare e il processo di deterioramento, che cos’è che ci rende veramente umani?

L’obiettivo principale dei transumanisti non è mai stato soltanto quello di migliorare l’umanità, bensì quello di sconfiggere il suo avversario più grande, la morte. Certo, non tutti i sostenitori di questo Progresso parlano di immortalità – è un obiettivo talmente ampio, presuntuoso e impensabile da proiettare chi lo persegue direttamente nel regno degli eccentrici senza speranza. Ma come diceva FM, «Oggi non si è mai troppo ottimisti». I transumanisti, nella loro crociata contro il tempo, hanno iniziato ad acquistarsi un po’ di immortalità sotto forma di costose assicurazioni sulla vita. Con qualche crioprotettore e parecchio azoto liquido l’umanità, o almeno le migliaia di persone affiliate alla Alcor, attualmente l’azienda criogenica più grande del Paese, ha ricevuto la semi-possibilità semi-scientifica di una vita radicalmente estesa. Morire di una morte clinica, dormire e svegliarsi eoni più tardi, quando l’esistenza è diventata tutt’altra cosa. In questo senso, però, dove sta l’immortalità? Secondo FM, dal punto di vista lontano degli anni Settanta, l’immortalità sarebbe arrivata dopo trenta, quarant’anni – ossia adesso, più o meno. Ancora deve succedere, ma nel frattempo la Alcor ha messo in ghiaccio 117 persone, sia a corpo intero che soltanto la testa (o «neuro»). E nel mese di marzo di quest’anno conta 985 membri attivi in lista, in paziente attesa di essere calati in una bara di alluminio.

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La fine della vita animale per FM-2030 giunse di sorpresa. Aveva sessantanove anni, era ancora lontano dal secolo di esistenza terrena che il suo nuovo nome intendeva evidenziare, ma soffriva di cancro al pancreas – di solito una condanna a morte, seppur non credesse che tale malattia fosse terminale. Forse fu per questo motivo che, a dispetto di anni e anni in cui aveva promosso la crioconservazione, non prese accordi per conservare il proprio corpo dopo la morte. Non c’erano membri della Alcor pronti a imbottirlo dei medicinali necessari e a metterlo in ghiaccio. No, l’io biologico di FM fu portato in obitorio, dove lo staff perse minuti preziosi a discutere su come archiviare la morte di un uomo il cui nome era una coppia di iniziali. Erano già passate trenta ore quando il corpo di FM arrivò al quartier generale Alcor, in Arizona.

Quando gli staccarono la testa dal collo, il corpo fu portato via in vista della cremazione. Rimase solo la testa, con tutto il suo complicato contenuto. Aprirono due buchini nel cranio, attraverso i quali monitorare l’attività cerebrale mentre i chirurghi eliminavano il sangue restante e lo sostituivano con un cocktail di conservanti chimici. La testa, imbullonata a una specie di manico per essere sollevata più facilmente, fu inserita in un contenitore da cui fuoriuscivano bianche volute di gas. In quella posizione, capovolta in un cilindro di alluminio, fu calata con cura in una scintillante capsula argentata: un acquario di alluminio lungo tre metri. E lì rimase, insieme ad altri cinque neuro pazienti all’interno di un cerchio di corpi completi, sommersa in azoto liquido, a 125 gradi sotto zero.

Fu così che cominciò: con l’attesa indefinita. Che va avanti ancora oggi, tredici anni più tardi.

Senza le sue idee e i suoi sogni, il paziente A-1261 non è altro che una testa recisa in attesa di un corpo che potrebbe non arrivare mai, un cervello che potrebbe non ricollegare mai al mondo esterno i suoi miliardi di neuroni. Il suo è il volto della speranza – ma poco più di quello. Un volto, immerso al contrario nell’azoto liquido.

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Alex Mar vive a New York. I suoi scritti sono apparsi su Oxford American, Elle, The New York Times Book ReviewEpic, The Virginia Quarterly ReviewTin House The Best American Nonrequired Reading 2015. È autrice del libro Witches of America e regista del documentario American Mystic.

Titolo originale: Man of the Future @ Alex Mar, 2013, all rights reserved