Questo pezzo è apparso originariamente su Hobart il 10 settembre 2019

Eva dorme troppo e perde lucidità. Il caldo come melatonina, al risveglio la getta in un déjà-vu sempre più fitto. È sul sedile del passeggero nel pick-up di Mike. La statale è fiancheggiata da girandole e croci bianche. Ha le mani sulla borsetta. Le unghie sono rosa come wafer alla fragola. Il climatizzatore è morto, e pure il suo telefono. Lo Xanax è quasi finito ma ne prende uno lo stesso. Mike guida con una mano sulla parte bassa del volante e lʼaltra fuori dal finestrino. Fa troppo caldo per preoccuparsi di dove stanno andando o di cosa faranno una volta arrivati.
«Evangeline» dice Mike. Eva apre gli occhi. Sono parcheggiati su un vialetto in terra battuta fuori da una casa. La casa è incuneata tra quelli che un tempo erano terreni a pascolo, ora campi incolti bordati dal filo spinato. Da un unico palo del telefono, tre cavi neri approdano a una centralina elettrica. La casa poggia sui blocchi di calcestruzzo e le uniche decorazioni sono i rattoppi di vernice bianca e una porta a zanzariera. Questo è il primo posto in cui lei e Mike hanno abitato insieme. A poco a poco riaffiorano dei frammenti di ciò che stanno facendo. È stata lei a insistere che venissero a cercare una cosa rimasta dal trasloco. Era rimasta un sacco di roba perché avevano traslocato in fretta, ma Eva si è ricordata di una cosa, ha detto che era importante e adesso sono qui per ritrovarla. Eva vede il passato nel modo in cui un profeta o un oracolo vedono il futuro, con immagini fugaci cariche di significato. Cosa sia poi quello che è venuta a cercare, lo saprà quando lo vedrà.
«Sei sveglia?» le chiede Mike. Le parla come se fossero due estranei quando invece si frequentano da sette anni. È qualcosa nel tono di voce; le parole gli si formano nella parte davanti della bocca anziché nel petto, come se cercasse di essere educato con uno dei suoi clienti dellʼAutozone. Porta la barba lunga in questi giorni, sembra un eroe del folklore americano. Almeno finché non sorride mostrando i denti guasti. Imparerà a non farlo, prima o poi. È già sudato fradicio e finora ha solo guidato. Probabilmente lui sa cosa sono venuti a cercare. Ha una memoria migliore di quella di Eva, o perlomeno lo lascia credere.
Nella casa non cʼè nulla a parte la luce. E le vespe cartonaie che fanno i nidi nel cartongesso e intorno ai varchi frantumati delle finestre. Ronzano nellʼaria in archi ritmati. Eva si sposta in cucina, le sneaker bianche hanno già preso il colore della polvere. Sembra il set di uno show televisivo che guardava tempo fa. Però non ricorda nessuna delle battute. Né come sia andato a finire. Tutti i ricordi più nitidi sono compressi in una vaga inquietudine sotto il peso dei farmaci. Apre i pensili a uno a uno. È tutto vuoto se si esclude la trappola per blatte in un angolo. Venire qui faceva parte di un piano ben congegnato, ma le sue intenzioni si sono aggrovigliate come lenze da pesca per poi inabissarsi. Scorre la punta delle dita sulla polvere del piano di lavoro lasciando tre linee.
«Non cʼè niente qua dentro» dice Mike, comparendo nel vano della porta per constatare lʼovvio.
«Forse è meglio lasciar perdere» dice Eva.
«Magari i tuoi cugini hanno spostato la roba nel fienile» fa lui. Si gratta la barba.
Percorrono il perimetro del terreno seguendo un sentierino sterrato. Mike in testa, le spalle ingobbite, il sudore che gli chiazza la camicia. A lei non dice nulla. Una volta le parlava in continuazione, un flirt ininterrotto. Lei sa che è ancora capace di farlo perché flirta con tutte le donne che incontra. Flirta con la cicciona della CITGO con lʼanello al naso. Flirta con le liceali nella piscina del loro condominio. Flirta con la madre di Eva, anche se la detesta e non passerebbe mai del tempo insieme a lei se non costretto. Per Eva ha soltanto questo silenzio o delle domande di cui conosce già la risposta. Però qualche volta, quando cazzeggiano in preda al Percocet, fa il buffone davanti alla TV. Tipo finge che David Duchovny o Jennifer Aniston gli parlino e gli risponde come se fosse nel programma insieme a loro. A ripensarci non è poi così divertente, però lì per lì le piace.
Se cʼera un fienile, ora è scomparso. Invece, in mezzo a un altro terreno incolto cʼè un semirimorchio, circondato da cicoria e fitolacca.
«Vuoi darci unʼocchiata dentro?» domanda Mike senza voltarsi indietro, già diretto lì. Eva lo segue. Le si sono increspati i capelli per il sudore; con la coda dellʼocchio vede le punte bionde arricciate. Non la ricordava così estesa, la proprietà. Il cielo sembra troppo vicino alla terra, un limpido azzurro estivo.
Eva si ferma nellʼerba che le arriva alle ginocchia e osserva Mike appoggiarsi di peso sul meccanismo arrugginito del portello. Le mani enormi sull’acciaio. Pare impossibile che possa riuscire nellʼintento, e invece la serratura cede e il portello si spalanca. Ne esce un caldo ancora più denso, un odore di vernice e segatura. Eva raggiunge Mike per guardare nel buio. Il container è pieno zeppo di mobili, scatoloni, materassi. È come se qualcuno avesse avuto intenzione di traslocare e poi non lʼavesse fatto. È decisamente troppo. Ci fosse anche la cosa per cui Eva è voluta venire fin qui, ormai non le importa più.
«Forse è meglio lasciar perdere» dice. Mike però comincia a tirare fuori una rete a molle.
«Cʼè troppa roba qua, bisogna togliere qualcosa» fa lui.
Trascorrono il pomeriggio trasferendo oggetti dal semirimorchio allʼerba del campo. Alcuni mobili devono essere quelli lasciati da loro due, ma è tutto mischiato ed Eva non saprebbe distinguere la loro roba dal resto. Non si parlano ma lavorano comunque senza intoppi, collaborando per spostare gli oggetti più ingombranti. La disponibilità di Mike non è nuova. Si comporta sempre così. Porta a termine i compiti che Eva concepisce per lui. Per convincerlo a venire qui le è bastato dire di aver scordato qualcosa nella vecchia casa, dove non andavano da anni e che si trova a tre ore di distanza dallʼaltra parte dello Stato. Lui ha detto di avere il pomeriggio libero. Adesso stanno spostando un divano nell’afa da trenta gradi e passa. Vorrebbe solo chiedergli che cosa ci fanno qui. Vorrebbe che le ricordasse perché lei li ha costretti a tornare in questo posto. Ma non ci riesce. Le pillole tengono a bada quello che potrebbe essere un vortice di emozioni. È come se qualcuno avesse stampato e plastificato la sua tristezza, tutto il panico, e glieli avesse consegnati. Buono a sapersi.
Tirano fuori due librerie di quercia. Tirano fuori una testiera. Tirano fuori un classificatore. Ci sono otto blocchi di calcestruzzo che trasportano fuori uno alla volta, non perché siano dʼintralcio, semplicemente perché stanno spostando tutto. Questo è chiaro a entrambi. Le ore del pomeriggio evaporano e, in lontananza, un temporale attraversa lʼorizzonte.
Durante una pausa dallo sgombero, Eva vede due cavalli sul terreno poco più in là. Sono uguali alla foto sulla scatola di uno dei puzzle che ha assemblato insieme a sua madre. Sedute al tavolo della sala da pranzo con una bottiglia di Chablis, a incastrare un pezzo dopo l’altro. A Eva sembrava sempre uno spreco quando la madre lo ributtava nella scatola. Lei di solito li lasciava fuori per tutta la notte. Adesso, invece, incastra lʼultimo pezzo, lo guarda, lo toglie di mezzo e rimette a posto la tovaglia.
Mike, ricoperto di sudore e punture d’insetto, con le vespe che gli ruotano intorno come elettroni, rovista nei cassetti di un comò.
«È tuo questo?» le chiede sollevando un abitino estivo spiegazzato. Eva non sa se è questo ciò che è venuta a cercare, ma non le pare. Forse se lʼè scordato anche Mike e rimarranno qui in eterno a cercare qualcosa che nessuno sa.
«Non credo» dice Eva. Mike lo piega e lo ripone nel cassetto. Poi tira fuori un pettine.
«Eccolo» dice e glielo lancia. Eva resta spiazzata da quantʼè pesante.
Sul sedile del passeggero, le sembra di essere leggera come carta da lucido e ha le mani di un bianco cadaverico per aver spostato i mobili. Sfiora la costola consunta del pettine con le dita. Su un lato ci sono tre strass blu. Non si aspettava di trovare questo pettine e adesso non sa cosa farsene. È un pettine dʼosso che Mike aveva scovato in un negozietto dell’usato. Glielo aveva regalato per uno dei primi anniversari, ma non ricorda esattamente quale, né che cosa le aveva detto o dove fossero. Non rimanda a niente, anche se probabilmente ci aveva sperato. Però mentre procedono, mentre gli pneumatici ronzano sotto di loro, le vengono in mente altri strati del piano. Il pettine era servito a farli uscire. Aveva sperato che rivedendo la loro vecchia casa, le loro vecchie cose, si sarebbero ricordati di comʼerano prima, quando il loro amore era in superficie. Quando gli altri vedevano il loro amore e ne parlavano come di un oggetto fisico. Ma è passato troppo tempo. La storia qui sbiadisce rapidamente, come i colori in copertina su una rivista rimasta per tutta lʼestate sul cruscotto. Nulla si conserva. Non può biasimare Mike perché non la ama più. Si volta a guardarlo. Ed è il suo viso, anche con la barba, che finalmente riporta a galla un ricordo nitido come se fosse successo l’attimo prima. Mike dice: «Così». Ha diciotto anni. Come lei. Sono su una barca a nolo sul lago Jocassee. Lui getta la canna da pesca con un movimento semicircolare. La curva della lenza cattura la luce del sole per un istante, come filo dʼargento. Poi scompare, trascinandosi dietro sette anni.

*

Titolo originale, Paper Wasps, copyright @Joseph Worthen, all rights reserved.
Traduzione di Arianna Pelagalli.