Questo articolo è apparso originariamente su Hobart il 23 giugno 2018

 

È per questo che non ti senti mai al sicuro. Lavori in un punto di passaggio. Un punto che non è né qui né là. Una terra di mezzo. È per questo che ogni singolo istante del giorno hai l’impressione che non vada bene niente. È per questo che, nonostante siano due anni che stai fissa al chiosco degli occhiali da sole, ti senti sempre in transito.
Nei punti di passaggio non esiste la buona educazione. Gli uomini schivano gli anziani, a volte li urtano solo per dispetto. Per punirli perché sono ancora vivi e intralciano il passaggio. Tu osservi con risoluta precisione. Osservi perché non c’è altro da fare, perché nessuno compra occhiali da sole in aeroporto.
Non è proprio così. Ricorri spesso all’iperbole perché trasforma il transitorio in concreto. Se dici che nessuno compra occhiali da sole, è una certezza. Qui di certezze non ce ne sono. Non puoi nemmeno dire che almeno gli aerei decollano, perché a volte non è così.
Aspetti quel che speri non sia inevitabile. Hai un piano. Non ti nasconderai dietro il bancone perché c’è una bella differenza fra un nascondiglio e un riparo. L’hai letto in un libro. Un nascondiglio serve a nascondersi e basta: ad esempio dietro una pianta. Un riparo invece ti protegge se c’è una sparatoria. È un riparo che vuoi, e da quel punto di vista il chiosco lascia molto a desiderare.
Hai già scelto la barriera di cemento vicino alle vetrate. Non è lontana dagli uffici riservati al personale. Se e quando potrai, ti metterai a correre. Correrai senza combattere. Non sei una che combatte.
Stai pensando ai fucili d’assalto e alle stragi, e al fatto che forse hai bevuto troppo caffè freddo, quando un uomo in completo elegante comincia a ronzarti intorno, osservando gli occhiali. È un bell’uomo ma non ti degnerà di uno sguardo, non conciata così.
«I miei li ho persi» dice, scrutando le lenti nere a specchio.
Tu non sai bene cosa rispondere. Per terra, accanto ai suoi piedi, c’è un borsone, e la tua immaginazione si scatena. Ti viene l’agitazione.
L’uomo prova una montatura e si guarda allo specchio. Ti domandi cosa faccia per vivere e decidi che lavorerà a Hollywood o nella pubblicità. Hai la sensazione che viaggi spesso, e capisca la sofferenza e il disagio costante che provi.
Hai una tua teoria per cui se le scale e i corridoi fanno paura, specialmente in case sconosciute, è perché sono luoghi di passaggio, non perché infestati dai fantasmi.
«Va tutto bene?» chiede lui.
Forse avevi una faccia sofferente. Rispondi di sì e ti scusi perché hai bevuto troppo caffè. Poi, siccome è carino, gli confessi che non sei abituata ai clienti perché nessuno compra mai occhiali da sole.
«Si sentirà sola» dice lui con un sorriso. È un sorriso ammiccante e tu immagini di invitarlo dietro il bancone per fargli un pompino. Non gli dici quanto sola ti senti. Che da un anno a questa parte non sei più tu e non ne sei sicura ma sospetti che c’entri il chiosco degli occhiali.
«Come fate a restare aperti se nessuno compra mai niente?»
Gli dici che non ti pagano abbastanza per conoscere la risposta. Lui scoppia a ridere. Compra gli occhiali da cinquanta dollari pagando in contanti, il che è strano, e se ne va. Tu rimani lì, ad accarezzare le banconote ancora calde dal contatto col suo corpo nella tasca.
Si siede a un gate non lontano e tu gli fissi per un po’ la nuca. Quando il suo aereo decolla, il gate che prima era vuoto torna a riempirsi. Hai imparato a vederla come la marea. I passeggeri fluiscono e defluiscono come l’acqua, e tu sei il canneto sospinto dalle onde, ancorato al fondo dell’oceano.
Studi il gate e il corridoio in cerca di individui sospetti. Sei una vedetta. Nessuno lo sa che hai occhi di lince. Puoi permettertelo, perché non c’è nessuno che compri occhiali da sole. Hai tutto il tempo di osservare. È un onore, in effetti. E una bella responsabilità.
A dirla tutta, non ti fidi di chi compra occhiali da sole in aeroporto. È gente che trama qualcosa, tranne quel tipo carino che forse prima è venuto a flirtare con te anche se con quella polo nera sta malissimo. Stile golfista dark.
Un uomo per niente bello e con uno sguardo strano si è messo a gironzolare intorno agli occhiali. Bevi un sorso di caffè dalla cannuccia e gli lanci un’occhiata torva, per dirgli che sai benissimo che cos’ha in mente e non lo perdi di vista. Lui capisce perché è intuitivo e si allontana. Lo segui con lo sguardo finché non si mescola alla folla nel corridoio.
Vorresti un altro caffè ma manca ancora un’ora alla fine del turno perciò mastichi la cannuccia e studi i passanti. Se necessario, sei pronta a correre. E non ti fermerai. La cannuccia ti si rompe in bocca.
Da un lato speri che accada qualcosa perché così potresti unirti a loro. Il mondo smetterebbe di passarti accanto. Ne faresti parte anche tu: un membro esclusivo, una cosa sola con la marea. Più tempo trascorri al chiosco degli occhiali da sole, più sei disposta a sopportare dolore e sofferenze pur di risentirti di nuovo umana. Mastichi il pezzo di cannuccia ormai alla deriva, combattuta se sputare o mandar giù.

*

Elizabeth Green vive nei dintorni di Philadelphia. Ha pubblicato su McSweeney’s Internet Tendency, Wigleaf, Necessary Fiction, The Doctor T.J. Eckleburg Review e altri ancora. Per maggiori informazioni, visitate il suo sito: http://elizabethgreenwrites.com/.

Titolo originale, Transitory, copyright @ Elizabeth Green, all rights reserved
Traduzione di Eva Allione