Questo racconto è apparso originariamente su Hobart l’11 gennaio 2018

 

La mattina dell’aborto guardai una maratona di Teen Mom 2 nella tele-scatola. L’avevo costruita con del cartone riciclato. I miei amici vedevano i loro programmi antiquati con gli occhiali, ma io preferivo il vecchio metodo, con l’iScreen infilato nella fessura che avevo praticato con il temperino e tenendo il collo nell’apertura a mezzaluna su un lato della scatola. Ci avevo ritagliato persino un cerchio perfetto per una lunga flexicannuccia, che mi consentiva di bere dalla borraccia mentre me ne stavo comodamente a letto.

Lo schermo mostrava giovani donne con bambini, alcune addirittura incinte una seconda volta mentre i loro pargoli sguazzavano in piscinette gonfiabili. Sentivo gli schizzi d’acqua attraverso gli upgrade sensoriali. Le madri avevano l’aria stanca delle persone che hanno rinunciato alla propria vita per quella di qualcun altro. Avevano nomi antichi come Chelsea, un vecchio quartiere di York ai tempi in cui veniva ancora chiamata «New». Mia madre mi aveva parlato di questo programma, delle cose che aveva imparato sulla contraccezione consapevole nei siti che scorrevano in basso sullo schermo. Quando era ancora viva le avevo chiesto cosa ci fosse di consapevole nella nascita di un bambino. «Non molto, Temerity» mi aveva risposto.

Più tardi, in clinica, la dottoressa muoveva le labbra a tempo con il messaggio preregistrato che la legge le imponeva di riprodurre prima di ogni procedura. Attendevo la raschiatura come l’ultima volta, quando ero troppo giovane per avere un figlio. Stavolta ero troppo vecchia.

C’era stato un periodo, prima che il lavoro mi stringesse nella sua morsa, durante il quale avrei potuto prendere in considerazione l’idea di rinunciare alla mia autonomia. «Sono orientata sulla carriera» avevo detto a mia madre al tempo. «Qual è la parola alla quale sto pensando?» aveva chiesto al suo iScreen, che aveva trillato con l’accento australiano impostato per ricordarci il mio defunto padre: Egoista.

Finita la registrazione, la dottoressa tornò alla sua vera voce, estrasse un tablet da una tasca interna e mi chiese se preferivo tenerlo in mano o se doveva prendere la tele-scatola dallo sterilizzatore. Cos’altro dovevo vedere? Il messaggio registrato era finito, cos’altro avrei dovuto sopportare prima di poter riavere indietro me stessa? Il mio corpo mi apparteneva, sapevo di non voler creare un altro cittadino. «Opzioni, in caso volesse considerarle. Quarantacinque secondi dai nostri sponsor. Si sdrai, le prendo un succo». Mi aiutò a stendermi per farmi sorbire lo spot.

Mi misi la tele-scatola in testa. Era elegante e argentata, di quelle in cui le pareti scomparivano nel nulla mentre tutto intorno veniva proiettato un panorama. Lo spettatore diventava parte integrante della scena. Non ci ero abituata. La mia scatola fai da te di cartone mi permetteva solo di fare da spettatrice, non di partecipare alla storia di qualcun altro.

Vidi un agnellino animato in un marsupio. Un logo. Apparve una donna che sembrava una versione più giovane di me, e l’agnello svanì.

Se ti dicessi che potresti far sviluppare il tuo bambino in una sacca? Sì, lo so (risatina), è quello che succede normalmente. Ma se la sacca si trovasse all’esterno del tuo corpo? Se invece di farti ingrossare e ingrassare, di stancarti, di farti gonfiare le caviglie, di distrarti dal lavoro, il tuo piccolo potesse trovare una sistemazione diversa?

Entrai nella scena insieme a lei mentre cinguettava, delicata e floreale. Disse che mi avrebbe rivelato un segreto e in quel momento mi rilassai, come se avessero già cominciato a somministrarmi l’anestesia. La donna si spostò attraverso uno spazio bianco, fino a una scatola. La seguii. Sollevò la scatola e rivelò una sacca traslucida di plastica robusta. All’interno c’era un feto piegato su se stesso, quasi come il lobo di un orecchio. Un lobo che nuotava. Non aveva volto o mani, ma risultava lo stesso fotogenico. Sorrisi, notando come un sorriso e un lobo abbiano la stessa forma.

Il sistema extrauterino è disponibile in varie dimensioni per consentire al feto di crescere finché tu, la madre, non sarai pronta a prendertene cura. Le misure partono dai tradizionali nove mesi, passando per la crescita post-fetale di alcuni anni, fino ad arrivare alla maturazione completa.

La donna avanzò oscillando le anche. Si erano ingrandite? O era il sistema iPersonalize della tele-scatola che rendeva tutti più simili a me? Avvertii lo spostamento d’aria mentre si muoveva attraverso lo spazio bianco apparentemente infinito. In qualche modo aveva reso il mondo più grande.

Raggiunse una tenda rossa e, con un volteggio, le dita come forbici, la tagliò. C’era un bambino all’interno di una sacca. Abbastanza grande da andare alle elementari, faceva piroette in un liquido viscoso seguito da una scia di lunghi capelli. Non riuscivo a vedere se fosse un maschio, una femmina o un bambino intersesso, ma percepivo la soddisfazione. Vedevo qualcosa di protetto, senza limiti.

Il tuo bambino sembra felice! E lo so che ti stai chiedendo: è al caldo? Certo, le nostre sacche sono sempre mantenute alla temperatura corporea! Ma sicuramente non è la tua unica preoccupazione. Nella sicurezza di una biosacca i bambini evitano anni di esposizione all’inquinamento, alle sostanze tossiche e il trauma psicologico indotto da una nascita tradizionale! E spetterà a te decidere quando sono pronti per uscire dalla biosacca.

Con un Bio-baby, l’indipendenza del tuo bambino comincia con la tua.

Mi allungai a toccare la sacca per sentire i 37 gradi di temperatura. C’erano dei cavi agganciati, era un sistema nel quale il liquido amniotico veniva pompato all’interno da un tubo rosso e aspirato fuori da un tubo blu. Mormorava come se stesse respirando.

Lo spazio bianco sfumò. Sapevo che la dottoressa era tornata ma non potevo vederla. La pubblicità andò avanti. Sentivo l’odore di un succo appena spremuto, forse carota e barbabietola, qualcosa che era vissuto nell’oscurità e aveva preso colore grazie alle vitamine. Nella sacca il bambino nuotava e piroettava. Si fermò abbastanza a lungo per fissare la telecamera. Quegli occhi stavano guardando me.

*

Melissa Ragsly è associate editor per A Public Space, e i suoi scritti sono comparsi, tra gli altri, su riviste come Best American Nonrequired Reading 2017, Epiphany, Green Mountains Review, Joyland e Cosmonauts Avenue. Il suo sito web è melissaragsly.com.

Titolo originale: Bio Baby, @Melissa Ragsly, all rights reserved
Traduzione di Umberto Manuini