Questo pezzo è stato pubblicato originariamente su Brick numero 102, inverno 2019

Mio padre passa a prendermi all’aeroporto di Charlottetown. Sono a terra per il doposbronza causato dalla fine di una relazione e l’inizio di una sbornia parzialmente ancora in corso. Sono tornato da Hamilton dopo aver provato, senza successo, a trovare un lavoro da quando mi sono diplomato al master in Belle Arti a ottobre. Per fortuna quando viene primavera c’è sempre un posto per me sul ponte di poppa, e a papà l’aiuto fa comodo. Dire che mi sono candidato per cinquecento lavori tra ottobre e aprile è una stima al ribasso. Dire che mi hanno ricontattato in dieci, per posti che mi sono sfuggiti o per cui a detta loro non ero adeguato, è un’esagerazione. Nell’ora e mezza di macchina in direzione est verso Elmira Road, mio padre indica i luoghi di incidenti, delitti, suicidi.

«Qui è dove Tizio e Caio l’han fatta finita».

«Qui è dove ci è rimasto il giovane MacPhee e il primo ad arrivare è stato Tom».

«Qui è dove giocavi da piccolo».

I finestrini sono alzati. Dieci gradi e piove, la pioggia gelata non gela più mentre la neve si scioglie nei fossi e nei campi e papà ha attaccato il riscaldamento a manetta.

Va a pescare da quando era ragazzino. Compirà sessantacinque anni in autunno e negli anni Ottanta si è fatto una piccola flotta. Non è più alto come un tempo, porta i baffi e sta diventando grigio, a volte cammina in un modo che tradisce la schiena malconcia e le ginocchia nuove.

Ci sono cose da fare prima di andare ad astici. Mi sono perso il momento di tirar fuori le trappole, di trasformare la corda in reti a strascico e cime per i galleggianti, di scegliere e accoppiare i galleggianti. Però sono arrivato in tempo per pulire la barca ferma sui blocchi in cortile.

Anche mio fratello maggiore Tom pesca con papà ed è probabile che rileverà la flotta (barca e reti per gli astici) quando lui dirà basta. Tom è un armadio, alto e forte da far spavento, e uno con cui non ho molto a che spartire tranne un lavoro, un cognome e un po’ di geografia. È impegnato a cablare le luci di bordo, lavare i finestrini e cercare di far girare una frizione elettrica mentre io strofino il pavimento, cosparso di terra rossa e aghi di pino. Tom dà la colpa al telone che nostro fratello più grande ha prestato a papà per l’inverno, invece che agli alberi e ai campi di patate tutto intorno a noi. «È più sporca di una vecchia zoccola» dice. Crede sia divertente, e io credo che lo userò in una poesia. A Tom non piacerebbe essere chiamato così, ma è un uomo sensibile. Non dice niente di emotivo, ma nonostante questo dei sentimenti li prova. Tra i pescatori ce n’è più di quanta si sappia, di gente così. Finisco di pulire il pavimento e Tom riesce a far girare la frizione elettrica dopo molti grugniti e imprecazioni.

La casa dei miei è stata costruita nel 1975 per rimpiazzare la roulotte dove vivevano prima. Il vento faceva respirare le pareti e muoveva le sedie sul pavimento. Papà si è dato alla pesca dopo un tentativo fallito di andare a estrarre nichel a Thompson, in Manitoba, e per «tenerci fuori dalla soglia del welfare», cioè dov’era lui quando ha costruito la casa. Grigia e usurata dalle intemperie, la casa ha bisogno di un nuovo rivestimento, nuovi infissi d’angolo. Il tetto è d’acciaio. Ci sono quattro edifici a ovest, con dietro dei sempreverdi. Tre edifici connessi: quello nord, dove in inverno mandavamo la barca in letargo, quello centrale, in origine un pollaio, e il vecchio edificio sud, dove una volta costruivamo le trappole e lavoravamo alle auto. Accanto a quello c’è un edificio sud a noi nuovo, dove si costruiscono le trappole e si taglia l’esca.

L’autista del rimorchio per la barca lascia la strada e fa in retro il centinaio di metri di vialetto verso l’imbarcazione, a sud dell’edificio sud. Nel frattempo papà martella il blocco di sostegno della prua. C’è una conversazione tra papà e l’autista, anche se io non riesco a sentire bene sopra al ronzio dell’argano. Quel che sento a dire all’autista del rimorchio è: «I ragazzi qua non hanno che sogni infranti». Penso alle mie aspirazioni letterarie e accademiche. Al ritmo glaciale a cui striscia il mondo letterario malgrado il suo amore per le scadenze. Allo «sbrigati e aspetta» di qualcosa di cui vuoi far parte ma che sembra non volere te. Alla donna in Ontario per stare con la quale darei tutto, che non vuole aver niente a che fare con me. Al fatto che sto tornando a un lavoro che ho conosciuto per gran parte della mia vita e non mi è mai piaciuto.

La barca entra in acqua. Salpiamo, facciamo rifornimento. Avviamo lo scandaglio (per sondare profondità e fondale) e il plotter (per monitorare le reti a strascico a volte non bastano i punti di riferimento ambientali). Un’altra ripulita. Tagliamo l’esca e la mettiamo nei sacchetti. Sgombro preso l’estate scorsa e congelato in blocchi da venti chili in un freezer a Souris. Questa volta finiamo quindici scatole, usando una sega a nastro con la guida regolata a 8,25 centimetri, per un taglio di quindici centimetri per dieci.

Mettiamo l’esca alle trappole sul pontile mentre carichiamo la barca. Nel primo carico ci sono centoventi trappole. Lo sgombro nei sacchetti va al capo della corda e due aringhe, a pancia in su, al capo opposto. Caricata la barca, trasciniamo avanti il resto delle trappole impilate a file. Questo serve a innescare le restanti centottanta e ad averle più vicine al pontile per il Giorno della Posa, quando le trappole entrano in acqua. La Posa è il giorno più pericoloso della stagione, con tutta quella corda attaccata a trappole di un peso a secco tra i cinquantacinque e i sessanta chili ciascuna che finiscono in acqua.

È un Giorno della Posa freddo e nebbioso. Mio padre mi fa sedere sopra al carico, dato che ha ingaggiato due uomini (mio fratello minore e un amico) per gettare le trappole e che l’alternativa sarebbe farlo fare a mio nipote, ma lui parla troppo piano. È una cosa che odio, stare seduto sopra la cabina mentre la barca beccheggia con la corrente di nord-est e cercare di trasmettere ordini e grida avanti e indietro, e tutto quel che si dice è monosillabico e ha lo stesso suono: OOH, GIÙ, NO, e ogni tanto, INDIETRO.

Va tutto bene. Niente intoppi. Niente infortuni. Sul pontile, mio fratello piccolo chiede a nostro nipote della rivista porno abbandonata nella stanza di mio fratello più grande.

«Non è mia» risponde lui, dicendo che è di suo fratello maggiore.

«Be’, sapevi che era lì».

La stagione è un confondersi di cieli e acqua grigio scuro, basse temperature, vento non forte abbastanza da bloccarci a terra ma forte abbastanza da procurarci quelle brutte giornate che si chiamano «bruciaculo» o «sciacquafaccia». Svegliarsi alle 3.45 di mattina per uscire dalla baia tra le tenebre per le 4.15. Sull’acqua, il vento è tagliente. L’alba non porta calore, ma altro vento che sale dall’acqua gelida. Aria così fredda da far male. Così fredda che quando ti togli i guanti per pisciare, dalle mani ti esce il vapore. Così fredda che nevica più di una volta.

Facciamo una discreta pesca, ma c’è così tanta corda che gran parte del tempo la passiamo a tirarla. Io misuro gli astici (quelli da tenere sono canner e market; i market sono i pezzi pregiati, che questa primavera si vendono a un prezzo al chilo tra due e tre dollari più alto rispetto ai canner), lego le chele ai market e tiro su le reti a strascico da sei trappole. Questo include togliere gli astici dalla trappola – quelli carichi di uova vanno di nuovo in acqua, così come le femmine più grandi di certe dimensioni, gli altri al piatto di misurazione – cambiando l’esca, e rimuovere qualsiasi cosa non sia un astice, come alghe, anguille, granchi, persici o ricci di mare.

Intorno all’isola la pesca è incostante, anche se qualche porto se la passa molto bene. Certe barche sfiorano quasi ogni giorno i cinquecento chili, e tutti pescano per un prezzo che non conoscono in partenza, un prezzo soggetto a modifiche nel corso della stagione. Per altri, prendere cinquecento grammi per trappola è già molto. Alcuni non arrivano neanche alla metà.

Le nostre conversazioni in barca sono limitate. Che fanno i pesci. Quale esca si sta allontanando, quale si sta per staccare. Chi è quello lì che gira con un mucchio di reti. Guarda quel tizio che è finito così lontano a est. Il massimo dell’emozione è un uomo che ha un sacco di reti tagliate, forse l’intera flotta. Le voci girano, anche se nessuno sa nulla. Viene indetta un’assemblea sulla radio vhf, canale 65, davanti all’edificio dell’autorità portuale. Le cose verranno risolte sul pontile.

Da come la capisco io, «risolvere le cose sul pontile» significa fare a botte. Questo non accade. Gli uomini che hanno indetto l’assemblea girano intorno alla questione. Un tipo con gli occhiali da sole e una giacca Harley Davidson accusato di giocare sporco al largo beve caffè e fuma, le spalle tese. C’è uno che dice che questo tipo di cose dà al porto una cattiva reputazione e dobbiamo smetterla con stronzate del genere. Vuole una donazione per l’uomo che ci ha rimesso le reti, che nel frattempo sono state sostituite: cento dollari da ogni capitano. L’accusato schiaccia la sigaretta sotto il tacco dello stivale.

«Veniamo al punto, cazzo» dice. «Non ti ho tagliato io la rete, razza di stronzo». Parlando direttamente all’accusatore: «Tu piantala di sputare sentenze. Cazzo, non sono stato io».

Non si risolve niente.

Poi dice: «C’è una parola per ciò che penso di quello lì. È da qualche parte tra sifilitico e stronzo sul dizionario».

La stagione procede. Abbiamo forse cinque belle giornate. I guanti vengono consumati dal lavoro, e ogni mercoledì le mani sono un cuscino di spilli. La mia routine da una poesia al giorno si interrompe per via di una onnipresente monotonia in cui mi viene difficile creare. Il sabato sera e la domenica che ho liberi non bastano a niente di più che mettere insieme idee per delle cose. A farmi sapere che ho una smania di scrivere e dimostrare a un amico di Hamilton che aveva torto. Quando ha saputo che stavo valutando l’idea di stare sull’Isola del Principe Edoardo, mi ha espresso il suo rimpianto di non essere mai andato in una grande città degli Stati Uniti per provarci sul serio con la recitazione, da giovane.

«Che c’è di cui scrivere laggiù? Niente. Ti serve una cazzo di città».

Questo mi ha dato sui nervi. Ho pensato: Ti faccio vedere io. Gliel’avrei fatta vedere, a lui e alla mia ex, che sono più che un semplice pescatore sfinito dai dispiaceri. Ma poi mi è sbollita. Cerco di prevedere il mio futuro, cose che devono ancora succedere e di cui valga la pena scrivere. Il Giorno dello Sbarco. Mettere via le trappole. Il fatto che papà pensa di sostituire il pavimento del bagno.

Intorno a metà giugno si inizia a catturare meno. Questo mi dà la possibilità di tenere alta la testa. Nelle giornate limpide si vedono non solo le pale eoliche che incombono sopra gli alberi e le scogliere di arenaria lungo la riva orientale dell’isola, ma anche quelle giù per la Northside Road che sembrano giocattoli. A sud del faro di East Point, il fantasma scosceso del Capo Bretone oltre lo Stretto di Northumberland. L’estremità orientale dell’isola è così bassa sull’acqua che il Capo Bretone ci vede come nient’altro che acqua.

Nel corso della stagione, mentre mi organizzo per degli impegni (mi hanno chiesto di partecipare a un incontro sulla poesia con Richard Harrison, di fare da lettore alla serata della Writers’ Guild a giugno e leggere a Fredericton a luglio) e cerco di scrivere e prepararmi per un’intervista con il Guardian dell’Isola, mi sento dire come devo fare queste cose da parte di persone a cui della mia scrittura non importa niente, se non per l’immagine che dà di loro. È una cosa che ti isola, lo scrivere qui. Non molti amici leggono o sono interessati. Lo stesso per i familiari. Nessuno di loro ha mai capito cosa volesse dire frequentare il Banff per la poesia, essere ammesso al master in Belle Arti a Guelph, avere un libro in uscita. Ma quando vengono a sapere del libro, si dichiarano entusiasti. Quando scoprono che fanno parte del suo dna, che hanno avuto un impatto su di me, sulla mia vita, allora ecco che sanno come scrivere e di cosa scrivere. Come leggere e come comportarsi. Alla serata, di loro non viene nessuno.

Quando si parla di vita e lavoro, papà dice che stiamo solo cercando di cavarcela. «Non cambieremo il mondo con quello che facciamo». Lo dice nel cortile vicino ai suoi edifici, chino su colossali trappole per astici che non hanno voluto saperne di pescare. «E non ci serve pensare che lo stiamo cambiando o che lo cambieremo. Non conta poi tanto. E quando moriamo, chi cazzo se ne frega? La tua famiglia, sì, e qualcuno dirà che gli importa, ma aspetta un paio di giorni. Ti dimenticano come se non ci fossi mai stato». È una delle giornate migliori della stagione. Sole caldo, cielo limpido. Una brezza fresca da est che tiene alla larga le zanzare.

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Titolo originale, Nothing but Water, copyright @ Chris Bailey, all rights reserved.

Traduzione di Stefano Ternavasio.