Questo pezzo è apparso originariamente su ZYZZYVA n.113, autunno 2018

La nuova ragazza di mia figlia è grande. Bocca grande, seni grandi, una ciocca di capelli così riccia che sembra si sia fatta la permanente. Mia figlia Beth ha già una ragazza, un maschiaccio in miniatura che passa sempre a trovarmi a Pasqua e a Natale.

Senti a me, dice Donna della classe di karate sbirciando la foto sul mio telefono dalle mie spalle quando ci mettiamo l’uniforme. Sarà un disastro. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.

Non c’è nessuna botte, dico, sanno tutto l’una dell’altra, e sanno a cosa vanno incontro. Davvero moderno. Non è poi così diverso da quando tu uscivi con quell’impiegato delle poste e la sera tardi giravi in macchina per la baia di Baltimora con uno studente di filosofia, no?

Beh, dice Donna sistemando i pantaloni di lino nella mensola più alta dell’armadietto.

In palestra vengo messa in coppia con un uomo, porta i capelli raccolti in una coda e cade a terra dopo un semplice calcio sul sedere. Lui guarda il soffitto. Io guardo lui. Perché anche io ho delle domande. Sono un essere umano, dopotutto. Due fidanzate! Che se ne fa un’unica persona di tutto questo amore?

 

Mentre sto preparando la cena Beth chiama per dire che partiranno dopo il lavoro, affrontando il traffico del venerdì sera per venire da noi, a Est.

Possiamo andare a Chincoteague? dice, mentre il rumore dell’ospedale in cui lavora si insinua lungo la linea telefonica fino a Baltimora. Cara ci tiene a vedere i pony, dice, e io glielo devo.

Come mai? chiedo, ma ha già riattaccato.

Nonostante ora abbia abbastanza soldi, Beth continua a vivere in case scadenti prese in affitto, tra coinquilini e senza tende alle finestre, e ogni anno si trasferisce. Le piace creare condizioni difficili così poi può sentirsi fiera di averle superate.

I cani, due gemelli dal soffice manto bianco, sono ritti sul divano a guardar fuori dalla finestra in attesa della berlina squadrata di Beth.

Se la guardi, l’acqua non bolle mai, gli dico.

Non è vero, dice Mike, avvocato fino al midollo. È solo un modo di dire.

Prendo la spada da allenamento dall’isola della cucina dove l’avevo lasciata, la agito tra la faccia di Mike e la televisione, in cui degli uomini su uno sfondo verde si stanno dimenando.

Attento, dico.

 

Cara precede Beth alla porta d’ingresso ed entra. Mi dà un abbraccio caloroso e poi posa le chiappe fasciate da jeans morbidi sulla lavatrice. Indossa una camicia abbottonata, troppo morbida e ampia per andarci al lavoro. Se non sapessi che è impossibile, penserei: pigiama. Degli orecchini pendenti ma non appaiati. Mi piace già.

Appare Beth carica di roba. Sembra un bambino di otto anni con indosso la giacca, ma più carente di sonno. Si strofina gli occhi con la punta delle dita. Ha ciuffi di capelli grigi a coprire le orecchie, le dà un’aria raffinata. Ha trent’anni ormai, è pneumologa. Quando si muove per abbracciarmi, dalla cintura dei pantaloni il gancio con le chiavi produce un rumore metallico urtando il termos sullo zaino. Mi dà un lungo abbraccio.

Mamma, dice.

 

Sto morendo di sete! piagnucola Cara lanciando un’occhiataccia a Beth. Capisco, l’aria condizionata nella sua auto è rotta, è ancora rotta. Il maschiaccio e io abbiamo smesso da tempo di assillare Beth per farla riparare. Ma nel contesto di questa nuova relazione tutto sembra di nuovo possibile.

Oh santo cielo, dico a Beth. Chiamo il mio contatto, può sistemartela domani.

E con mia grande sorpresa Beth si limita ad abbassare le spalle. Ok, dice.

Hanno già mangiato in macchina i burrito di patate dolci che avevano preparato, ma vogliono bere. Beth, Cara e io ci sediamo attorno al tavolo rotondo della cucina a sorseggiare whiskey da grandi bicchieri di plastica. Mike è seduto in soggiorno e ci dà le spalle. Le molle della poltrona reclinabile marrone cigolano ogni volta che si piega ad afferrare la lattina dal pavimento.

Ho sempre voluto venire sulla costa orientale, mi dice Cara. Da quando ero piccola e ho letto quel libro su Misty, un pony che vaga per Chincoteague. Era selvaggia e libera e mangiava piante marine e non gliene fregava un cazzo. Poteva uccidere qualsiasi altro pony senza problemi.

Come mamma, dice Beth, inclinando il bicchiere di plastica verso di me.

Ah sì? Cara posa il volto tra le mani con i gomiti poggiati sul tavolo e sposta il peso da un lato all’altro sulla sedia di legno facendola cigolare come un uccellino che sta covando in un nido. Le sue braccia sono morbide e così anche il petto, dove la camicia diventa più stretta, dove Beth, il maschiaccio e io siamo dure. La camicia è decisamente il sopra di un pigiama.

Sì, dice Beth. Mamma è cintura nera adesso, può atterrare chiunque della sua classe, persino gli uomini. Se fossi un malintenzionato, ci penserei due volte prima di darle fastidio.

Ho sempre voluto combattere, dice Cara. Ho sempre avuto la lotta dentro ma il mondo esterno non mi ha mai fornito l’opportunità di tirarla fuori.

Beata te, dice Beth.

Non starla a sentire, dico, è un cattivo esempio.

L’ho fatta, qualche rissa, dice Beth.

L’eufemismo del secolo, esclamo. Poi ricordandomi aggiungo, Prugna marcia, prugna marcia, dammi un pugno in faccia.

I miei amici a scuola, spiega Beth. Ce lo dicevamo sempre. Poi al college la notte giravo per il campus ripetendolo finché qualcuno non lo faceva.

E poi mi chiamava piangendo, dico.

Non piangevo mai, dice Beth.

 

Mike sta già dormendo ma accendo comunque la lampada sul mio comodino. Riesco a sentire Beth e Cara che parlano in fondo al corridoio nella stanza degli ospiti, i loro piedi che si muovono sulla moquette e poi il silenzio.

Mike si gira verso di me e inizia a fare domande.

Joan, dice, cosa succederebbe se comprassimo il Tip Top Diner? Perché il sale scioglie la neve? Che te ne pare della faccia del presidente?

È un lato del padre che Beth non vede mai. Queste domande si evolvono in altre domande.

E se mettessi la mano qui? chiede Mike.

I capelli mi si sono incastrati sotto la schiena. Mi formicolano i piedi.

Non lo fare, dico.

Quando mi alzo per prendere un bicchiere d’acqua, nell’altra stanza c’è silenzio ma dalla porta filtra una striscia di luce. Mia figlia è in ginocchio, penso, e con la bocca afferra la zip dei jeans di Cara.

Mike crede che non sia normale, che ci siano cose che i genitori non dovrebbero sapere dei figli. Una volta in tv ha sentito un padre dire Too much, troppe informazioni.

Chissà se si riferisce al fatto che so che a volte, quando è di buon umore e ben disposta, a Beth piace avere un frustino sul sedere, tanto per. Chissà se si riferisce al fatto che so cosa si prova ad avere tutta la mano di una donna che si torce dentro di te.

È come se ti sgonfiassero, mi ha detto Beth una volta.

In senso positivo?

In senso positivo.

Anche cosa si prova ad avere un polmone umano tra le mani e sgonfiarlo. Il polmone è una cosa come un’altra, mi ha detto. Che è capace di morire.

Credo che noi genitori siamo consapevoli di tutto questo in ogni caso, quindi fingere è da falsi, da ingenui. Per esempio, io ho colto il momento preciso in cui la luce sessuale di Beth si è accesa. All’improvviso lei aveva un corpo e le altre persone anche.

Era il giorno di San Patrizio del ’95 o ’96. Aveva all’incirca 10 anni. Al piano di sopra Mike e i nostri amici si stavano comodamente sbronzando. Todd, il fratello di Mike, era goloso e gli piaceva correggere pinte di Guinness con bicchierini di Bailey’s, dolce e appiccicoso. Gli piaceva il disegno che quella cosa lattiginosa creava nella birra scura, ma ogni volta aspettava troppo, fino a che non si coagulava.

Todd aveva portato i figli, quattro maschi e una femmina. Lei era minuta ma più grande di Beth. I maschi erano seduti sul pavimento a scacchi della cucina e pigiavano dei bottoni con i pollici, mentre Beth e la bambina erano di sotto a guardare un film. Uno di quelli ambientati ai tempi della Bibbia. La porta del seminterrato era aperta, e il rumore degli zoccoli e degli uomini che venivano impalati sulle lance da combattimento arrivava fino a sopra. Ma quando tornai per prendere altro ghiaccio laggiù c’era silenzio, tutto immobile, come se avessero tolto la cassetta o l’avessero finita da un po’. Da quel momento la porta della sua stanza rimaneva sempre chiusa dopo la scuola e la forchettata di purè sospesa per un minuto intero prima di raggiungere la sua bocca.

Un’altra volta rimasi a guardare fuori dalla finestra della cucina mentre lei e i compagni maschi correvano nel nostro prato verso gli alberi. Dopo gli alberi c’era un parcheggio e poi la scuola. Erano selvaggi, i nostri bambini, ma racchiusi in un contenitore ermetico. I ragazzi stavano in piedi vicino agli alberi e lanciavano bottiglie di alcolici tra i rami. Beth camminava lentamente sull’erba. Era ubriaca. Lo capii dal modo in cui le braccia penzolavano molli e da come si toglieva i capelli unti dagli occhi con le mani invece di scuoterli via come un bambino in piscina. E poi una ragazza raggiunse Beth alle spalle. Beth si fermò e si girò verso di lei. Sollevò il viso. Aspettò a lungo di essere baciata.

 

La mattina mi alzo presto con i cani. A Mike piace restare a letto a pensare. Tra le mie gambe i cani si rotolano e si mordono mentre li porto a passeggio per la strada e penso, Bene, ok, questo è vivere. Si sistemano ai piedi dell’asciugatrice che romba. Entra Beth mescolando una tazza di cereali.

Dov’è Cara? chiedo.

La notte lavora per una linea di assistenza, dice Beth. Dormirà ancora a lungo.

Beth mi parla dei suoi pazienti, un uomo che ha atteso due anni per un trapianto di polmone e poi è andato a fare paracadutismo, se l’è perforato ed è dovuto tornare in ospedale.

Alcuni non imparano mai, dice.

 

Ho insistito per lavare i vestiti sudici con cui è arrivata e adesso acchiappo un paio di mutande blu con su degli orsi verdi. Non solo sono maschili ma sono proprio fatte per il pene, con il risvolto e tutto il resto.

A che ti serve il buco con il risvolto? chiedo. È per moda o cosa?

Smette di masticare i cereali.

Mi dispiace, dico.

A me no, risponde. Chiedimi quello che vuoi. È per entrambe, dice.

 

Qualche ora dopo Cara compare in soggiorno con la maglia del pigiama ma orecchini diversi, grandi labbra rosse in argilla. Lei e Beth indossano gli stessi pantaloncini di jeans tagliati con le stesse frange bianche sfilacciate che pendono sulle cosce. Dice buongiorno a me ma non a Beth.

Pony, dice. Pony, pony, pony!

Mettiamo i cani in macchina e usciamo dal complesso residenziale per andare nella strada a due corsie che, passando per la palude e sul ponte, ci porta a Chincoteague. Cara è seduta dietro con i cani e li coccola accarezzando loro il pelo e agitando le zampe.

Mike non voleva venire? chiede.

No, rispondo. Non è un tipo da spiaggia.

A quest’ora sarà in giardino, che ama più di ogni cosa e a cui si dedica solo quando io non ci sono.

Passo il caffè freddo gigante del Dunkin Donuts a Beth, che lo mette nel portabicchiere e poi sintonizza la radio sulla mia stazione metal preferita. La nebbia si è dissolta presto e c’è già il sole. È una bella giornata.

Cara leggeva sempre un libro su un pony che viveva a Chincoteague, dice Beth. Lo leggeva ogni sera prima di andare a letto, e anche quando la mamma andava a spegnerle la luce lei continuava a leggere. Nascondeva una torcia ai piedi del letto sotto le coperte.

Gliel’ho già raccontato, dice Cara.

Ma ciononostante Beth si gira sul sedile per sorridere a Cara. Non sorride molto, quindi è bello vederla così.

Mi chiedo se dovrei sentirmi in colpa, infedele al mio amore per il maschiaccio che una madre non ce l’ha e una volta mi ha mandato una cassetta di pere per la Festa della mamma. Ma a dirla tutta, non mi sento così.

Lasciala perdere, ho detto a Beth una volta parlando del maschiaccio. Erano state per ore fuori dal garage. Beth continuava a togliere il berretto asciugandosi il naso con la manica della camicia e poi se lo rimetteva. Il maschiaccio stava là con le braccia incrociate sui piccoli seni. L’aveva tradita, una, due volte, chi potrebbe mai dire quante? Non il maschiaccio. Beth rientrò da sola con in mano un bastoncino. Si sedette al tavolo e con un coltello da bistecca iniziò a togliere la corteccia dal bastone.

Ecco quando l’ho detto.

Già, aveva risposto Beth al mio consiglio. Già. I suoi occhi blu erano cerchiati di rosso. La lasciai lì non appena girò il bastone e cominciò a pulire l’altra parte. Più tardi la sentii fare marcia indietro sul vialetto. Passarono tre ore e squillò il telefono. Era Beth, dai dormitori.

Non posso, disse. Mi ama.

 

Guido la Land Rover nel parco fino a dove me lo permette la strada sbarrata e mi fermo sulla banchina erbosa prendendo posto in una fila di auto parcheggiate. La guardia forestale aveva segnalato questo punto sulla mappa come il posto migliore per vedere i pony e altra gente ha avuto la nostra stessa idea.

Lasciamo correre i cani senza guinzaglio sul sentiero lastricato che si snoda in una lenta curva attorno al promontorio. Degli uccellini fischiettano in alto saltando di albero in albero. Dei falchi enormi compaiono negli squarci di cielo e poi tornano in alto. Cara indossa scarpe da trekking dai colori vivaci ma Beth, come sempre, ha le Converse basse nere che possiede dalle superiori e io mi preoccupo che qualcosa, qualsiasi cosa, possa rompere la tela e pungerla. Uno scoiattolo volpe della Delmarva, una bizzarra creatura grigia che sembra un cincillà con la coda da volpe, si mette in mostra per noi mentre mangia ghiande su un ramo basso. Per sbaglio afferro il braccio di Cara per frenarla quando passiamo accanto a una creatura che ha più corna di un cervo ma meno di un antilope. Forse è un cervo maschio a cui è caduto il palco e al suo posto rimangono solo queste protuberanze. È quello che stabiliamo io e Cara.

Infine raggiungiamo il pontile di legno e poi la piattaforma di osservazione dei pony. Attraverso il binocolo che Cara ha portato proprio per questo motivo, un gesto di speranza programmata che mi spezza il cuore, riusciamo a vedere macchie di uccelli bianchi con il becco rosa chiaro e altri falchi. Ma nessun pony.

Beth si sporge dalla ringhiera di legno e fa finta di cercare i pony.

Quello là? dice mentre posa un braccio attorno alle spalle di Cara.

Cara si scrolla di dosso il braccio di Beth e si volta verso di me.

Dimmi di più, dice. Cosa ti piace delle arti marziali?

Mi do una pacca sul braccio con la carne lentigginosa, un po’ rilassata ma bella, soda. Non so ancora a cosa serva questo corpo. È per prendere a calci e pugni, credo, per nuotare. Quante volte Beth ha detto, Sei ancora giovane. Prova con qualcun altro, uno qualsiasi che non sia papà. So alcune cose che mi piacciono. Mi piace quando l’acqua della doccia è bollente. Mi piace quando i cani mi camminano sopra mentre dormo, e i punti in cui le loro zampe mi toccano con tutto il loro peso fanno quasi male.

Oh non so, dico. Mi piace la struttura, la routine. Mi piace avere la garanzia di poter essere nel mio corpo per un’ora al giorno.

Sì, dice Cara. Lo capisco. Anche io vorrei ma non ho ancora trovato la mia strada.

E il sesso? dice Beth a voce un po’ alta. Dici sempre che ti senti nel tuo corpo durante il sesso.

Aahh, oh sì! fa Cara, abbassando lo sguardo sui piedi mentre li gira all’infuori. Non volevo mica dirlo a tua madre.

Mamma è cittadina del mondo, dice Beth, sorridendo e mettendomi il braccio attorno alle spalle. Noi ci diciamo tutto.

Le do una pacca sulla coscia. Cara allora ci lancia un’occhiata di sbieco e mi chiedo cosa stia pensando. E penso, bene. Se sta un po’ in guardia con noi va bene.

 

Niente pony, niente pony, niente pony. Dopo un’ora Beth vuole rimanere a cercarli, ha preso il binocolo di Cara e sta scrutando la palude salmastra, ma Cara sembra avvilita e dice, Va bene, guarda i cani che sete che hanno, andiamocene e basta. Camminiamo per il resto della curva e decidiamo come ultima mossa di fare una pausa in fondo a un piccolo sentiero che porta al promontorio.

Non potremo darti i pony ma almeno possiamo darti l’oceano, dice Beth.

Passiamo dal sole all’ombra e poi di nuovo al sole. Attraversiamo una radura nera e bruciata, bruciata di proposito, e poi una pineta. C’è odore di Natale e di deodorante per ambienti, di tutto ciò che è vero e di tutto ciò che è finto.

Il sentiero ci risputa su una spiaggetta fangosa che odora di sale. Neanche questo è l’oceano, è solo una silenziosa insenatura paludosa. Lattine di Natty Bo, un pezzo di materasso in lattice e una striscia di rete metallica grande quanto un vassoio da bar galleggiano e si arenano sulla sabbia, e ancora galleggiano e si arenano.

Il vento soffia più forte e il sole riscalda. Cara e Beth lanciano bastoni di legno ai cani, che sono ben presto sfiniti – sono più belli che sportivi, idea di Mike prendere gli Husky. Beth lancia un lungo ramo nell’acqua sporca ma i cani non vogliono entrare, rimangono sulla sabbia timorosi di infilarci tutto il corpo. Beth continua a indicare l’acqua e a dirgli: Andate, andate!

Hanno paura, dice Cara. Non vogliono.

Allora Beth si toglie le scarpe e va lei stessa a prendere il ramo, scontrandosi con uno sparto salato e acchiappandolo con un lieve inchino. Adesso le spalle e gli avambracci di Beth sono grandi, e la sua maglietta bianca e la felpa nera sono asciutte nonostante stia uscendo dall’acqua. Le ho fatto fare arti marziali da bambina per evitare che sniffasse l’aerosol con quei suoi ragazzi. Poi un giorno ha detto, vieni con me.

Cara inizia a passeggiare lungo la battigia verso quella che in lontananza sembra una cisterna di legno e io trovo un tronco su cui sedermi immaginando di dare a lei e Beth un po’ di tempo per passeggiare da sole e magari parlare. Ma invece Beth si siede accanto a me.

So che muori dalla voglia di chiedermelo, dice Beth, quindi fallo.

La mia bambina, lei mi conosce.

Ok, dico. Come funziona? Chi ami di più? Come fai a trovare abbastanza ore in una giornata? Dove dormi? Dove ti svegli?

Inizia un lungo discorso sul fatto che non deve per forza essere o l’una o l’altra cosa, che ce ne può essere abbastanza per tutti noi. Ma io la interrompo.

Cosa intendevi quando hai detto che glielo dovevi, a Cara?

Ho mentito, risponde. Ha detto a Cara che andava in campeggio con un amico e invece è andata con il maschiaccio. Poi ha mentito di nuovo. Poi un altro paio di volte.

Perché? chiedo. L’idea non era quella di essere completamente oneste, e di lasciare che le cose seguissero il loro corso?

Sì, risponde Beth. Ma so che Cara comunque ci rimane male. Quello che sa e quello che prova a volte non coincidono. A volte c’è un divario tra le due.

Ah, dico. E tu?

Ok, anche io sono umana, risponde. Non sono a prova di bomba.

Ancora una volta si strofina gli occhi con la punta delle dita, che a causa delle patate dolci sono arancioni anche più in giù dei polpastrelli.

Ma, per qualche ragione, dice, ho trovato un modo per non soffrire quanto gli altri. Semplicemente mi dico, questo non fa male.

Funziona? chiedo.

Abbastanza, dice. Ma quando vede che la sto ancora guardando mi sorride. Sto bene mamma, dice. Davvero.

E per un attimo Beth ha otto anni e io ventotto e mi domando se è il caso di andarmene, e se lo facessi, dove.

Eravamo qui a Chincoteague, o se non proprio qui comunque da queste parti. Era una giornata nebbiosa, un fallimento. Chiesi, Beth, è il caso di andarmene, e se lo facessi, dove?

Alzò lo sguardo dal disegno che stava facendo sulla sabbia e valutò la cosa. Era accovacciata con un costume maschile a pantaloncino, senza il pezzo sopra. E perché no? I suoi seni erano gli stessi di adesso, inesistenti.

Mamma, disse. Sei ancora giovane. Potresti andare ovunque. Prendi l’auto di papà.

Ma dove?

Philadelphia.

Una volta, mangiando ghiaccioli all’ananas, avevamo guardato insieme un documentario sulla città, il nostro vicino a nord, luogo di libertà e fratellanza e documenti firmati. Poi lei ci era andata in gita con la scuola senza di me. Bellissima, disse al ritorno. I bordi dei jeans erano sporchi di fango ed era talmente esausta per le camminate che collassò con la luce accesa. La spensi io.

 

Cara sta urlando mentre inciampa per raggiungerci. Un pony! dice. Un pony! Laggiù. Sta bevendo.

Beth e io ci alziamo di scatto e la seguiamo attorno al litorale che si incurva, e quando si raddrizza Cara ha ragione. C’è proprio un pony. Rossiccio, scuro. Dimena la coda. Sgranocchia lo sparto.

Che occhio, che occhio, dico.

Le guance paffute di Cara si infiammano animate dal sole e dall’adrenalina. Beth strofina le mani su e giù sulla schiena di Cara che le tira a sé mettendosele attorno alla vita.

Avvicinati, dice Cara, chiamandolo. Avvicinati, cavallino. Avvicinati a me.

Il pony non si muove.

Andiamo, dico a Cara. Se andiamo piano e in silenzio riusciamo a toccarlo. Ti va?

Cara annuisce. Stringe le mani di Beth e poi se le porta alla bocca per baciarle, come se ogni parte del corpo di mia figlia fosse preziosa. Poi lascia andare Beth e mi segue.

Avanziamo molto lentamente sulla sabbia. Il pony ancora non si muove. Gira la coda verso di noi, gira gli occhi verso di noi. Tiene la testa perfettamente dritta, in ascolto.

Va tutto bene, dico. Non ti faremo del male.

Ohhh, dice Cara, quando è vicina quasi abbastanza da toccare il pony. Ohhh.

Poi sta toccando il pony, sempre con leggerezza. Scorre la mano sul suo manto rigido.

Mi volto verso Beth che è rimasta dove eravamo, con i piedi nella sabbia bagnata, la tela delle scarpe ormai sicuramente fradicia. Ha gli occhi chiusi come se stesse pregando o fosse in pace, senza preoccupazioni. È la sua calma, la sua pace, la sua assenza di paura, che mi rilassa e mi riempie di qualche altra sensazione. Mia figlia è magica, dolore infedele, immersa nell’amore in un modo estraneo e inaccessibile al resto del mondo.

Mamma, disse Beth quel giorno a Cape Henlopen.

Disse, Sei bellissima. Ma non lo disse come una figlia – con noncuranza piuttosto, come se la bellezza fosse una cosa che entrambe avevamo o volevamo avere. Lo disse a petto nudo e strizzando gli occhi, con la sacralità e la serietà di un figlio.

Non disse mai, Portami con te.

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Titolo originale, Mama, copyright @ Emma Copley Eisenberg, all rights reserved.
Traduzione di Valentina Fortunato