IN CUI SI PARLA DI: asprezza impeccabile, ricorrenza infinita, una nuova lingua, l’ospite d’onore, Stephen Sondheim, alta definizione, l’infinito in una bottiglia, un sapore esistenziale, cammino buddista, pietra calcarea, Sir Walter Wally, un cowboy molto fortunato.

In Ricomincio da capo è contenuta la chiave dell’esistenza? Chiediamolo allo sceneggiatore.

Questo pezzo è apparso originariamente in esclusiva sul sito web di The Believer, febbraio 2015

Nell’aprile 2013 Robert Black, studente della California State University, si trasferì in un piccolo appartamentino nella zona sud di Pasadena. Lui e sua moglie avevano deciso di separarsi dopo dieci anni di matrimonio, e l’uomo si ritrovò a trascorrere quell’estate in quasi totale solitudine. Gli mancavano i figli, Hayley, Kieran e Saer. «Avevo bisogno di una struttura che scandisse il ritmo delle mie giornate» ricorda. Il 2 agosto Black scrisse sul suo blog un post intitolato «Sono pronto, 3… 2… 1…». Era una citazione presa dal film del 1993 Ricomincio da capo, che aveva fatto voto di guardare ogni giorno per un anno intero.

Il film, se in qualche modo siete riusciti a perdervelo, parla di un meteorologo di Pittsburgh di nome Phil Connors, interpretato con asprezza impeccabile da Bill Murray. Mentre si trova a Punxsutawney, in Pennsylvania, per girare un servizio sui festeggiamenti per il Giorno della Marmotta, Phil resta intrappolato in un misterioso circolo temporale che lo costringe a rivivere in continuazione lo stesso giorno. Alla fine del film impara ad apprezzare l’umanità e il fascino della vita di paese, e si conquista l’affetto della produttrice Rita (Andie MacDowell).

«Phil Connors» scrive Black sul suo blog «non solo è uno straordinario protagonista per un film come questo – non che ce ne siano molti, di film come questo – ma vive le emozioni che viviamo tutti noi, ogni giorno della nostra vita. Nel film (come in tanti altri momenti che non compaiono sullo schermo) c’è sempre posto per la gioia, per la tristezza, per l’arroganza e l’umiltà, per la frivolezza e la serietà, la follia e la filosofia».

Guardando e riguardando la pellicola, e riflettendo a suo modo la ripetitività dell’esistenza di Phil, Black formula una serie pressoché infinita di interpretazioni diverse. L’11 agosto, il decimo giorno di quello che Black chiamava «Progetto Giorno della Marmotta», pubblica uno studio sul ruolo dei generi sessuali. Il 10 settembre (il quarantesimo giorno) prende in esame il concetto di eterno ritorno di Nietzsche. Tira in ballo Carl Jung, accosta Phil alla figura di Gesù. Disquisisce sul colore blu. Il 2 dicembre (il cento quarantasettesimo giorno) Black partecipa a un quiz su un sito di appuntamenti e conclude di avere una relazione con Ricomincio da capo.

E non è l’unico. Nei due decenni successivi all’uscita, la pellicola è diventata una pietra miliare del cinema e una metafora filosofica, sviscerata in ogni sua parte da cinefili e accademici. Gli studiosi di religione hanno paragonato la situazione di Phil al purgatorio cristiano, o al concetto buddista di samsara. I teorici militari l’hanno utilizzata invece come analogia della guerra eterna. Un economista del Ludwing von Mises Institute ha affermato che il film «illustra l’importanza del paradigma di Mises-Hayek come alternativa all’equilibrio economico».

Il titolo è diventato un’espressione idiomatica per indicare futilità, e viene utilizzato al telegiornale per descrivere lo stallo nella politica del Medio Oriente o nelle decisioni del Congresso. Nel 1996 rivolgendosi alle truppe americane in Bosnia il presidente Clinton ha detto: «Alcuni di voi paragonano la propria vita qui a quel film con Bill Murray, Ricomincio da capo, in cui lo stesso giorno si ripete all’infinito». Fino al momento della stesura di questo articolo, nel 2015, il titolo è stato usato per descrivere la leadership Democratica (da Salon), gli attacchi terroristici di Parigi (da Bill Maher) e la settimana della moda maschile di Londra (dall’Independent).

Alla morte di Harold Ramis, regista del film, deceduto nel febbraio scorso, gli epitaffi hanno indicato Ricomincio da capo come suo più grande conseguimento. Il Jezebel ha pubblicato un post intitolato «Tutto ciò che so nella vita l’ho imparato grazie a Ricomincio da capo». Il Daily Beast l’ha definito «un film perfetto», ponendolo sullo stesso piano di La vita è meravigliosa nella categoria «Grandi Film Basati su Escamotage». Ciò nonostante in pochissimi sanno di chi è stata realmente l’idea.

Il 31 gennaio 2014 – 183° giorno – Robert Black è volato a Woodstock, Illinois, la città in cui era stato girato il film, per prendere parte agli annuali festeggiamenti per i «Giorni della Marmotta». Pur non essendoci mai stato, sostiene di aver provato l’inquietante sensazione di conoscere quel posto come le sue tasche. Insieme ad altri fan di Ricomincio da capo, Black era in pellegrinaggio per incontrare l’ospite d’onore di quella settimana di celebrazioni: Danny Rubin, lo sceneggiatore.

Alle cinque del mattino del giorno successivo, il 1° febbraio, Rubin si svegliò a Woodstock nella stanza di un piccolo bed and breakfast, non dissimile da quella di Phil in Ricomincio da capo. In effetti era proprio la stessa, dal momento che alloggiava al Royal Victorian Manor, l’albergo che compare nel film. Sua moglie Louise era già sveglia e leggeva in un angolo. Rubin guardò fuori dalla finestra e vide che la neve cadeva ancora.

Rubin, timido cinquantasettenne, viveva nei pressi di Cambridge, Massachusetts, dove fino a poco tempo prima aveva insegnato sceneggiatura a Harvard. Aveva trascorso gli anni successivi all’uscita di Ricomincio da capo, stando alla sua biografia, a vivere la vita, farsi una famiglia e scrivere film che il più delle volte non venivano prodotti. La sua ultima sceneggiatura diffusa sul grande schermo era stata S.F.W., uscita nel 1994 con Stephen Dorff come protagonista.

Dopo aver scritto un film su un uomo che viveva costantemente lo stesso giorno, Rubin si ritrovava in una situazione simile. Nel 2012 pubblicò un e-book intitolato Come scrivere Ricomincio da capo, che includeva la stesura originale della sceneggiatura e vendette un migliaio di copie. Nel 2013 aveva partecipato ai Giorni della Marmotta a Punxsutawney, dove era stato festeggiato durante una cena organizzata dal vicegovernatore della Pennsylvania. Al momento stava lavorando al musical di Ricomincio da capo con Tim Minchin, il comico australiano autore della colonna sonora di Matilda 6 mitica (anche Stephen Sondheim aveva espresso interesse, poi però non se n’era più fatto di nulla).

A dispetto della notorietà che il film gli aveva regalato, però, Rubin provava sensazioni ambivalenti nei confronti della pellicola. «Non voglio che resti l’unica cosa per cui verrò ricordato» disse. Quando gli venivano esposte bislacche teorie sul film, di solito si stringeva nelle spalle. La maggior parte delle interpretazioni che sentiva lo confondevano – come quella dello studente di omeopatia che scrisse la tesi sulle «qualità riduttive» del film, o quella del numerologo in erba secondo cui le cifre sulla sveglia di Phil erano un riferimento all’età del Noè biblico. «Ma certo! Era esattamente a questo che pensavo» rispondeva Rubin.

Il primo appuntamento che lo attendeva a Woodstock era alle 10: avrebbe dovuto fornire un’introduzione a una proiezione gratuita del film nel cinema della città. Lì fu accolto da Mitch Olson, membro del comitato organizzativo della festa. Olson, che indossava una vivace felpa gialla con cappuccio, gestiva un programma di dottorato online e viveva a Rockfors, Illinois, a un miglio circa da dove Phil entrava nella cava col furgone.

Presentò Rubin nel teatro gremito. «Credo che vi aspetti una sorpresa» disse Rubin al pubblico con indosso il suo cappellino da baseball. «Il film è in alta definizione, quindi vi risulterà più significativo di quanto non sia mai stato».

Un uomo chiese: «Dove ha preso l’idea per questa storia?».

«Da me» rispose Rubin. E il film cominciò.

La risposta completa è la seguente: verso la metà degli anni Ottanta Rubin aveva una trentina d’anni e viveva a Chicago. Era nato a Gainesville, Florida, e scriveva per una troupe di comici e, per denaro, delle sceneggiature di pellicole aziendali, di quelle utilizzate per istruire gli operai, per compagnie come la Wickes Lumber. Un giorno gli giunse voce di un’iniziativa volta a portare a Hollywood i talenti di Chicago. Si diede da fare e produsse ben cinquanta idee per un film. Restrinse il campo a dieci, tra cui Silencer (omicidio nella comunità dei sordi), We Love Our Idiots (un idiota viene eletto presidente) e Time Machine, in cui «un tizio rimane bloccato in un circolo temporale che lo costringe a rivivere in continuazione lo stesso giorno».

L’iniziativa non ebbe seguito, ma alcuni anni dopo Rubin vendette Silencer (che uscì col titolo Occhi per sentire) e si trasferì a Los Angeles. Fu assunto dai Walt Disney Animation Studios ma venne licenziato prima di cominciare. Il suo agente gli disse che doveva mettersi a scrivere una nuova sceneggiatura, e in fretta. Mentre una sera aspettava che le luci del cinema si abbassassero, sfogliò la sua copia tascabile di Intervista col vampiro, di Anne Rice. «Pensavo all’immortalità e mi chiedevo se una vita intera fosse sufficiente a certe persone per maturare completamente» ricorda. Ma l’eternità era un concetto fin troppo ampio per una sceneggiatura di due ore. E lì arrivò l’illuminazione: combinare l’idea dell’immortalità all’eterna ripetizione di uno stesso giorno. Era come l’infinito in una bottiglia.

A quel punto doveva soltanto capire quale giorno ripetere: Natale? Il compleanno del protagonista? Rubin sfogliò un calendario: la prima festività che vide fu il «Giorno della Marmotta», e gli parve banale ma molto allettante. Nella prima stesura inserì alcune caratteristiche di vecchi film degli Ealing Studios, come Sangue blu, in cui un ereditiere edoardiano si fa largo a suon di omicidi in una dinastia di aristocratici. Rubin iniziò con un difficile esperimento: data la possibilità di rivivere lo stesso giorno, in che modo un uomo poteva sfruttare la propria onniscienza per rimorchiare? Il finale, poi, era in stile Ai confini della realtà: Phil riusciva a sfuggire alla prigione del 2 febbraio, tutto contento e innamorato di Rita, solo per scoprire che lei era intrappolata nel 3 febbraio.

La sceneggiatura ricevette due offerte, da una compagnia indipendente di nome IRS Pictures, che prometteva di non modificare nulla dell’opera originale, e dalla Columbia Pictures, un colosso del mondo del cinema. Il regista proposto dalla Columbia era Harold Ramis, già noto per film quali Caddyshack e National Lampoon’s Vacation, oltre che per il suo ruolo in Ghostbusters. Rubin sapeva che Ramis avrebbe probabilmente riadattato la sceneggiatura, trasformandola in una commediola per il grande pubblico (e infatti finirono per co-firmarla nei titoli di coda), ma la Columbia pagava molto meglio, e le possibilità che il film si facesse davvero erano maggiori.

Durante la lunga sessione di riscrittura Ramis corresse alcuni ingenui errori di Rubin (addio alla voce fuori campo), ma riuscì anche a non scontentare quelli della produzione mantenendo le parti più insolite del testo. Rubin si era rifiutato di illustrare quale fosse la causa del circolo temporale: un antico artefatto? Un buco nero? «Senza spiegare nulla si dà al film un sapore più esistenziale» diceva. Quando però la Columbia iniziò a pretendere un evento scatenante, Ramis convinse Rubin a inventarsene uno – la maledizione di una zingara – senza però inserirlo nel film.

Rubin si era immaginato Phil come «un giovane Jimmy Stewart», ma Ramis scelse un attore con cui collaborava spesso, ossia Bill Murray. Rubin diede al film la sua impronta e Ramis vi mise il cuore, ma Murray aggiunse il suo peculiare umorismo. Durante le riprese si verificarono dei problemi perché l’attore discuteva spesso con lo sceneggiatore sul tono della pellicola: era una commedia romantica o una banale favoletta filosofica? Quando si arrivò a girare l’ultima scena, in cui Phil si sveglia il 3 febbraio, Murray divenne ossessionato dal dettaglio del costume: Phil doveva apparire in pigiama o con la camicia del completo che indossava la sera precedente? La questione fu messa ai voti (vinse la camicia) e Ramis girò una cosa come trenta scene. Dopo Ricomincio da capo, Ramis e Murray non lavorarono mai più insieme.

Rubin abbandonò le riprese a metà film. La sua famiglia si era appena trasferita a Santa Fe e aveva nostalgia di casa. Lasciare Los Angeles era un rischio, a livello professionale, ma ne aveva le tasche piene. «Dopo quel primo anno ho pensato, Okay, la vacanza è finita» disse. «Il clima non cambia mai, rimane sempre uguale». Un giorno a Los Angeles è come il successivo, e quello dopo, e quello dopo ancora…

A mezzogiorno Rubin si recò al teatro dell’opera di Woodstock per fare da giudice in una gara di chili. Lo raggiunsero alcuni amici che si era fatto al bed and breakfast, tra cui un professore di storia americana del XIX secolo secondo il quale Ricomincio da capo ricordava un po’ «il metodo di conversione dei puritani».

Furono una sessantina le città proposte per «interpretare» Punxsutawney, dopo che la produzione aveva stabilito che la vera città era troppo remota. All’inizio alcuni abitanti di Woodstock reagirono con fastidio a tutte quelle attenzioni, ma ben presto cedettero alle lusinghe. Subito dopo l’uscita del film la città iniziò a festeggiare il Giorno della Marmotta, e oggi la festa dura ben sei giorni e attira centinaia di visitatori.

Gli intervenuti ai festeggiamenti del 2014 si dividevano grossomodo in due categorie: c’erano i locali, molti dei quali erano in città durante le riprese del film. Susan Kazmierski, che distribuiva i cucchiai durante l’assaggio dei chili, aveva fatto da comparsa nella scena della predizione. «Ci avevano avvertiti: se la marmotta si libera, non toccatela» ricorda (pare che abbia morso la mano a Bill Murray). E poi c’erano i super fan. Kyle Sweeney, un trentenne di Chicago che lavorava nel campo immobiliare, sfoggiava un cappello di marmotta e affermava di aver visto il film più di 175 volte. «Mi ha insegnato a vivere» disse.

Dopo la gara di chili Bob Hudgins, il location manager del film, accompagnò un centinaio di persone in un tour guidato della città. Tutti scattavano fotografie: ecco la sala da bowling dove Phil incontra gli ubriaconi della città; ecco l’angolo dove inciampa e finisce in una pozza (sul marciapiede c’è una placca con su scritto BILL MURRAY HA CAMMINATO QUI). Robert Black, giunto in città con un mucchio di mappe dettagliatissime, si presentò a Rubin e gli porse una cartolina pubblicitaria del suo blog. «Simpatico, ma se la tirava un po’» scrisse in seguito dello sceneggiatore.

Se Rubin esitava ad assumersi un ruolo da profeta, era perché la sua mente volava altrove. Suo padre, in Florida, stava molto male (morì tre settimane più tardi, lo stesso giorno di Ramis). Chiuso il contratto con Harvard, Rubin si sentiva libero da vincoli. Aveva trascorso un anno «senza sapere dove concentrare l’attenzione», diceva. «Non è stato duro come il primo anno di college, che comunque non ha scherzato, ma allora non avevo né una vita amorosa, né capacità particolari né esperienza, tutte cose che invece adesso ho». Ciò nonostante si sentiva fuori posto, incapace di provare lo stesso fervore degli aficionados di Ricomincio da capo. Di recente si era ritrovato a provare nostalgia della routine quotidiana di Harvard. «Mi piacerebbe avere giornate più organizzate».

Il gruppo entrò in un bar sulla Main Street, dove Rubin doveva aprire l’annuale simposio su Ricomincio da capo. Mitch Olson, che doveva moderare, aveva stampato una lista di tredici domande, che andavano dall’influenza della commedia La classe dirigente di Peter Barnes alla teoria popolare secondo cui Phil mostrava le cinque fasi di Kübler-Ross dell’elaborazione del lutto (negazione, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione). Rubin ammise di aver pensato a quella teoria: scrivendo la sceneggiatura, infatti, immaginò che Phil passasse attraverso sette fasi, tra cui edonismo, seduzione e suicidio. «Non le stesse di Kübler-Ross,» spiegò «ma il meccanismo è simile».

Un uomo con gli occhiali da sole alzò la mano. «L’altra idea che scaturisce dal film è la redenzione» disse. «Credo che tutti cerchino la redenzione, nella vita, che tu ce l’abbia davanti agli occhi o che sia sepolta dentro di te».

Rubin rispose in modo neutro: «Non volevo scrivere un film sulla redenzione. Io vengo dal mondo della scienza. Mi sono laureato in biologia e sono abituato alla chiarezza dei processi scientifici. Dentro di me ho dato avvio a un processo, dicendo Okay, questo tizio ripete sempre lo stesso giorno. E poi che succede? È successo che è arrivata la redenzione».

Rubin non è religioso, ma tra i suoi seguaci c’è anche chi abbraccia la fede. Una delle prime lettere che abbia mai ricevuto proveniva da un monaco tedesco. Un’altra era di un rabbino che aveva citato Ricomincio da capo in un sermone per lo Yom Kippur. Nel 2003 il Museum of Modern Art organizzò una mostra intitolata Il dio nascosto: film e fede, scatenando un putiferio. «Volevano tutti impadronirsi di Ricomincio da capo» disse Rubin al simposio. «Credo che abbiano vinto i buddisti».

Nel 2009 Rubin apparve al Barker Center di Harvard insieme ad Angela Zito, che insegna studi religiosi alla New York University. La Zito aveva mostrato il film per molti anni nella sua introduzione al corso sul Buddismo. «Illustra appieno l’idea del bodhisattva» mi ha spiegato. Nel Buddismo Mahayana, i bodhisattva sono «ex esseri umani che tornano per aiutare noialtri, ancora intrappolati sulla terra in attesa dell’illuminazione». Il più famoso di essi è il Dalai Lama.

«Per intraprendere il cammino del Buddismo, la prima cosa che occorre sapere è che esiste un cammino» spiegò la Zito. «Occorre essere consapevoli che si stanno ripetendo delle azioni». Perché la ripetizione è endemica all’esistenza terrena. «La soluzione arriva quando Phil accetta il quadro generale: abbraccia la ripetizione, si rende conto che sarà infinita, a meno che non capisca come gestirla. Non può semplicemente smettere. E per imparare a gestire la natura ripetitiva delle nostre sofferenze, be’, c’è il Buddismo».

Quanto tempo ci vuole? Questa domanda conduce a un’altra, di particolare interesse per gli studiosi di Ricomincio da capo: per quanto tempo, esattamente, Phil resta intrappolato nel 2 febbraio? «È diventato un giochetto da salotto» disse Rubin. Analizzando una serie di dati, tra cui il tempo che occorre per imparare a suonare il piano e a fare sculture di ghiaccio, il sito What Culture ha calcolato che il tempo totale per raggiungere l’illuminazione è di 12.395 giorni, poco meno di trentaquattro anni. Rubin immagina che sia parecchio più lungo di una vita umana, all’incirca centomila anni. Ramis ne stimava dieci. I produttori del film, due settimane: l’illuminazione ai tempi di Hollywood.

Al termine del simposio si formò una lunga fila, e Rubin dovette firmare DVD e poster. Un uomo, che si presentò come ebreo messianico, gli porse una busta di carta contenente un trattato di nove pagine su Ricomincio da capo e la reincarnazione («Spero che non abbia il mio indirizzo» disse Rubin più tardi). Mentre salutava i fan, Olson faceva su e giù lungo la fila, distribuendo schegge di pietra calcarea da un sacchettino. «Vengono dalla cava dove Bill Murray si è ucciso!» diceva.

Il mattino successivo, prima dell’alba, Rubin si svegliò nello stesso bed and breakfast, nella stessa cittadina. Era il 2 febbraio, il Giorno della Marmotta. A dispetto dei tredici gradi sotto zero, centinaia di persone si erano radunate nella piazza principale di Woodstock, intorno al gazebo dove Bill Murray aveva ballato un lento con Andie MacDowell.

La festività aveva avuto origine nella comunità dei contadini tedeschi della Pennsylvania, che l’avevano presa dalla tradizione teutonica della Candelora. A Punxsutawney la prima cerimonia di cui si abbia notizia risale al 1886. Oggi sono decine di migliaia le persone che accorrono per questa festività, e il Phil di Punxsutawney ha perfino dei cugini: Chuck, di Staten Island, Sir Walter Wally di Raleigh, North Carolina, e, qui in Illinois, c’è Woodstock Willie, trasportato sul palco su un finto ceppo d’albero.

Robert Black registrava tutto con il cellulare. Aveva fotografato ogni location del film da svariate angolazioni, come un teorico della cospirazione contro JFK in Dealey Plaza. «Devo rifare il tour della città, perché devo correggere la posizione della battaglia di palle di neve» disse, indicando l’angolo nord-est della piazza. «La fanno su quel lato». Il viaggio aveva infuso ulteriore forza alla sua missione. Alcuni giorni più tardi scrisse sul suo blog: «La storia rivela un legame con i miti religiosi ma anche con qualcosa di molto più universale. È per questo che è un classico. È per questo che Woodstock dovrebbe andarne fiera. Ed è per questo che Danny Rubin dovrebbe essere ricordato a lungo per il suo grande contributo».

Rubin sedeva nel gazebo, avvolto in una sciarpa e un giaccone North Face. «È un’esperienza extra-corporea» disse osservando la folla. «Non riesco a credere che la gente sia interessata a me». Il giorno successivo sarebbe tornato a Boston per proseguire il lavoro sul musical di Ricomincio da capo e su una nuova sceneggiatura, Lucky Star, che descrisse come «un western che parla di un cowboy molto fortunato».

Una band attaccò una polka e Craig Krandel, vicepresidente del comitato organizzativo dell’evento, portò Rubin sul palco per «qualche parola su Ricomincio da capo».

Rubin guardò i volti fra il pubblico. «Mi hanno appena detto che, se non fosse stato per la mia sceneggiatura, stamani sareste tutti a letto» disse scatenando molte risate. «Mi dispiace molto, ma la cosa mi rende anche orgoglioso. Sono molto grato a questa città. Guardate cosa avete fatto, siete riusciti a tenere vivo il sogno. Se volete sapere davvero cosa mi renda felice in questo momento, ecco, vedervi reagire così mi rende felice. È una benedizione per ogni sceneggiatore. Non ci succede mai. Mai. Perciò grazie a tutti. Buon Giorno della Marmotta. Grazie».

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Michael Schulman collabora con il New Yorker, e si occupa di teatro, cinema e altri argomenti per la rubrica The Talk of the Town.

Titolo originale: The Accidental Swami @ Michael Schulman, 2015, all rights reserved