Questo racconto è apparso originariamente su Hobart, 21 agosto 2017

 

Al parco dico Dentro di me c’è il tuo sangue, e mi guardi strano, come se avessi fatto l’ennesima battuta mediocre – e in qualche modo lo è, anche se non so in che modo dovrebbe far ridere. Mentre ti dico queste parole camminiamo. Fa un freddo invernale, ma siamo ancora giovani come sempre, giovani in modo allucinante, quasi blasfemo, tanto giovani che in teoria non dovremmo accusare questi dolori da fisico decadente, non ancora, non qui in questa città, il giorno del tuo compleanno.

Ho detto Dentro di me c’è il tuo sangue perché in questo momento esatto ci credo. Percepisco tutte e centomila le mie vene, ciascuna piena di una parte di te che è reale, cellule staminali ematopoietiche nate dal profondo di te, qualcosa che nostro figlio non è mai stato. Mi rispondi con un lieve mormorio, M e H e M, un borbottio di cui percepisco la vibrazione attraverso la punta delle tue dita. Poi, silenzio: tra noi c’è un decennio, elefantiaco. Tutte le cose che abbiamo condiviso, quelle che mai sono passate inosservate, riempiono le cavità e gli spazi delle nostre parole, ammaccando e comprimendo frasi di pentimento goffe, inadeguate. Alla fine biascichi altre M, altre H, la nuvoletta del tuo fiato scompare tra le dita di alberi scheletrici e mi rendo conto di quanto sia difficile guardarti in faccia, oggi, nel giorno del tuo compleanno; preferirei guardare in faccia le mille altre donne di questa città, di questo parco, in questa mattinata di freddo pungente: nessuno è più facile da amare di un estraneo.

E all’improvviso so che me lo dirai, quando ti deciderai a parlare. Mi dirai, con la tua voce piena di schegge di vetro, che il tuo sangue ha qualcosa che non va. Che non è neanche in grado di far battere un cuore e mezzo. Che starei molto meglio senza.

Ti racconto queste cose perché fino a oggi non le ho mai capite, perché quello che mi hai detto allora, in realtà – te lo ricordo – è stato: Se soffri non è colpa del mio corpo.

*

Mi è tornato tutto in mente oggi, perché ho assaggiato il mio stesso sangue. Mi trovo a tre fusi orari da quella città, da quel parco, riverso nella stazione di smistamento tra bottiglie rotte e mozziconi, con tre denti in meno, che ho sputato sulla terra bruciata, il liquido ramato denso come petrolio che mi si accumula in gola, la testa ancora annebbiata dall’adrenalina. Da qualche parte due vagoni ferroviari si uniscono, il traffico mormora sulla strada di servizio, uomini dalle nocche spellate sghignazzano come iene: c’è asfalto, acciaio e violenza, tutte cose che ci sopravvivranno.

Giaccio supino e annaspo, desidero il tuo sapore dolce – la tua pelle come una pesca salata, il frastuono di quel nostro amore – e provo vergogna per la mia avidità, per la mia fame di insignificante gelosia, la mia voglia di condividere con il nostro quasi-figlio ciò che ci condividevi tu. La mia voglia di essere sangue.

Ti chiedi ancora come sarebbero state le sue mani? Di che forma avrebbe avuto le ginocchia? Di che colore avrebbe potuto avere gli occhi?

Ora credo di sapere cos’avrei dovuto dirti là, in quel parco. Avrei dovuto dirti, Vorrei infilarmi dentro di te e morire. Vorrei soffocare. Avrei dovuto dirti, Come lui. Ma come facevo a sapere che un giorno l’acqua della doccia avrebbe smesso di scorrere, che sarei rimasto a guardarti impotente mentre ti asciugavi i capelli e degli estranei tutto muscoli trasportavano le tue cose su un furgone giallo arrugginito, uno scatolone per volta, un arto per volta, finché non sono rimasto da solo in quella stanza azzurra, con il microfono della doccia penzoloni, l’asciugamano bagnato? E che dopo tutti questi anni una parte di me sta ancora aspettando?

Aspetta ancora, anche se so che ormai siamo persone nuove: un miliardo di cellule morenti, morte e svanite per sempre, sputate fuori e sostituite come se avessimo mutato pelle, lasciando la vecchia al ricordo altrui, a ingombrare gli angoli più bui.

Dovrei essere libero.

Non è così?

Il mio povero corpo, devastato accanto a questi binari sudici, in questa città soffocante e con queste donne che non sono te, non dovrebbe avere la forza di volontà per resistere? Dovrebbe essere ben più che un corpo qualunque, un corpo che non hai mai provato a interpretare. Con sangue qualunque che non hai mai bevuto, ossa che non hai mai mangiato. E non dovremmo essere ben più che due estranei che parlano lingue sconosciute e fanno un sesso sconosciuto nel solstizio d’estate?

Ma non è questo che cerco di dire. Quello che cerco di dire è: il cuore è l’organo del’inevitabilità. Creato per durare soltanto un certo numero di battiti. Cerco di dire che non mi sono mai pentito di nulla, ma che ora sto pensando di farlo. Cerco di dire che è davvero uno scherzo crudele che il sangue sia la base su cui costruire una famiglia.

*

Gli scritti di Gary Joshua Garrison sono stati pubblicati su Southwest Review, Bayou Magazine e World Riot, tra gli altri. Vive in Missouri con la moglie, due gatti estremamente pigri e svariate piante avvizzite.

Titolo originale: A Heart and a Half, @ Gary Joshua Garrison, 2017
Fotografia @ Mariateresa Pazienza