IN CUI SI PARLA DI: libertà in cambio di protezione, visite ragionevoli, paguri, Electronic Sentencing Alternatives, il concetto di moralità e mutuo benefico di David Hume, il Crown Center Mall di Kansas City, codardia, scelte felici.

Come l’etilometro è diventato un modo per conquistarsi la fiducia del prossimo

 

Un tossicodipendente giura a chiunque, con tutto il cuore: «Non mi farò mai più». Le sue parole finiscono per perdere significato, ma il bisogno di essere creduto non svanisce mai. Ogni volta che promette, il tossicodipendente è convinto di ciò che dice. È sincero. Altrimenti perché sprecarsi a promettere? Non che tu mi abbia ingannato, ma che io non ti creda più: questo mi ha scosso, diceva Nietzsche. E giustamente. Ma che tu non mi creda più scuote anche me, fidati.

Per un ex alcolizzato come me l’ostacolo più grande da superare per ottenere l’affidamento congiunto dei figli – oltre ovviamente a restare sobrio – è riconquistare la credibilità di cui la dipendenza ti ha privato. Così, quando la mia ex moglie ha smesso di credermi se le dicevo che non avrei bevuto davanti ai bambini, ho deciso di affidarmi a una tecnologia impersonale e infallibile.

Prima di raccontarvi la mia storia, devo però rivelarvi che il tribunale, caso n. 1216-FC04987 della Contea di Jackson, Missouri, mi impedisce di «pubblicare libri e articoli, nonché qualsiasi scritto autobiografico in cui vengano menzionati episodi traumatici vissuti dai bambini». Quindi non posso raccontarvi certi atti esemplari di stupidità o incoscienza che potrei aver commesso da ubriaco di fronte ai bambini. Come gran parte dei figli di alcolizzati – io stesso lo sono, peraltro – anche i miei hanno vissuto episodi traumatici per colpa della mia dipendenza (mai a sfondo violento, né fisico, però, mi permetto di aggiungere). Le mie due figlie più piccole avevano sei e quattro anni quando la situazione è drasticamente peggiorata, sia dal punto di vista del matrimonio che della sobrietà che mi ero imposto. Per loro non è stato semplice. Mentre scrivo queste parole è il 2017 e ormai sono sobrio da diversi anni. Le bambine hanno dodici e dieci anni, e per loro facile non è tuttora.

La fiducia è un diritto, se vogliamo: barattiamo la libertà con la protezione perché quella protezione la vogliamo, ed è per simili ragioni che di tanto in tanto diamo seconde possibilità. Una madre si fida dei propri figli perché non vuole essere costretta a controllarli in continuazione, desidera un po’ di tempo per sé. Una ex moglie si fida di un ex marito alcolizzato perché sa che ai figli servono tutti e due i genitori, e perché per occuparsi di loro ha bisogno di aiuto.

Quindi è così che è cominciata. Torniamo indietro di diversi anni, all’inverno del 2011. Ho avuto una relazione extraconiugale, ho ricominciato a bere e, circa un anno e mezzo dopo la separazione da mia moglie, prima del divorzio, ho accettato di cederle la completa custodia, fisica e legale, delle nostre due bambine (mi fu concesso un «ragionevole» diritto di visita le cui modalità sarebbe stata lei a decidere ogni volta). Dovevo smettere di bere, ma la mia futura ex moglie ormai non credeva più che ci sarei riuscito. O forse l’esperienza le aveva insegnato che la mia ritrovata sobrietà era molto precaria. Aveva bisogno di garanzie, se volevo andare a trovare le bambine. Mi propose di sottopormi a esami delle urine non programmati.

Lì su due piedi rifiutai. Non avrebbero dovuto darle il diritto di dirmi come e quando potevo vedere le mie figlie (sebbene fosse proprio quello cui avevo acconsentito al momento del divorzio)! E non avevo tempo di recarmi più volte la settimana al Quest, il laboratorio di analisi, che distava venti minuti di macchina da casa mia. Né potevo permettermi di sborsare trecento dollari al mese. E comunque non erano affari suoi se bevevo o meno. A lei doveva importare soltanto se bevevo quando ero con le bambine.

«Allora non puoi vederle».

«Hanno bisogno del padre. E io di loro».

«Sono d’accordo. Quindi fai gli esami».

Era un circolo vizioso.

Trascorsi due settimane senza vedere le bambine. Alla fine mi arresi. Iniziai a recarmi al Quest tre volte la settimana per le analisi delle urine, cinquantacinque dollari a botta. La responsabile e proprietaria del posto entrava in bagno con me e mi guardava pisciare. Osservo e basta, diceva.

«La sorprenderebbe sapere quanti vogliono che li guardi pisciare» mi disse una volta. «Me lo chiedono proprio. Se per lei è lo stesso, me ne sto qui da parte per controllare che non usi un catetere o roba simile. Ne ho viste di tutti i colori, mi creda».

«Non riesco a farla se qualcuno mi guarda» dissi. «Non è per lei, mi capita anche agli orinatoi».

«Sì, succede. Ansia da prestazione».

Si mise a ridere. Io me ne stavo lì ad aspettare con l’uccello in mano e il barattolino di plastica. Forza, piscia!

Dopo l’iniziale resistenza, sottoporsi agli esami a cadenza regolare divenne stranamente liberatorio. Tendevo l’orecchio, felice, quando mi telefonavano un paio di giorni dopo l’esame. «Signor Martin, lei risulta negativo». La mia non ancora ex moglie mi chiamava ogni volta che gradiva una conferma dei risultati. Ottenni di poter vedere le bambine che cominciarono a passare la notte nel mio nuovo appartamento, a un miglio e mezzo dal vecchio. Dormivano su letti a scomparsa e gli sembrava una cosa fichissima. Andavamo da Target a comprare film e giochi da tavolo, andavamo allo Science City e al centro commerciale. Un giorno si comprarono due paguri grandi come palline da golf e li portarono a casa mia. Li sistemarono in due scatole identiche di plastica trasparente, uno accanto all’altro, perché potessero guardarsi. Eravamo un trio, io, Hermi e Goldie: gli inquilini del 4215 di Locust Street.

Dopo qualche mese di esiti negativi, la mia ex decretò che gli esami non erano più necessari. Trascorse un altro mese e un giorno, mentre ero a New York dalla mia nuova ragazza, per aspettarla ordinai un whisky al bar vicino al suo ufficio. Avevo un piano: avrei bevuto soltanto quando non ero a casa, a Kansas City. Dopo qualche settimana, il piano cambiò: potevo bere fuori da Kansas City e scolarmi anche un paio di birre sull’aereo. Poi bere a Kansas City era ok tranne che davanti alle bambine.

Una sera la mia ex mi invitò a cena con lei e le bambine. Ero agitato, spaventato. Non mi sembrava più una cosa naturale stare con lei e le nostre figlie allo stesso tempo. Mi chiese di comprare un pollo e mentre andavo al supermercato mi ripetevo in continuazione: non bere, non bere. Ovviamente, se arrivi a questo punto, significa che hai già deciso. O meglio, sei combattuto: una parte di te dice, Continua a camminare, non guardare quegli scaffali, tira dritto. L’altra invece dice: Ascolta la tua coscienza, ma nel frattempo compra una bottiglia di qualcosa. Ascoltala con l’alcol nelle buste. Ascoltala, poi dai una bella sorsata.

Era il nostro supermercato, quello dove avevo sempre comprato da bere quando eravamo ancora sposati. Presi il pollo. Tra me e le casse adesso c’era il reparto alcolici. Mi guardai intorno furtivo per vedere se c’era qualcuno di mia conoscenza che potesse vedere, assistere al mio passo falso. Nel reparto degli alcolici non avevano bottiglie normali di Jägermeister – ormai ero un esperto, sapevo che l’amaro mi avrebbe calmato i nervi ma senza ubriacarmi – perciò comprai la bottiglia grande, quella da 700 ml. Prima di arrivare a casa della mia ex, la nascosi sotto una siepe vicino al portico. Più tardi mi offrii di portare fuori i cani e mi sparai un paio di sorsate.

Non credo che abbia notato niente, quella sera. Ma il giorno dovevo portare le bambine al ristorante coreano, così fui costretto a portare in macchina la bottiglia per farmi passare i postumi. Mi ripresentai dalla mia ex moglie sicuro di star bene, ma lei mi guardò e sul volto le comparve una smorfia di disgusto e rabbia. «Sei ubriaco» disse. E tanti saluti alle bambine.

Barbara Ludlow, il mio primo supervisore, era un’assistente sociale dall’aria gentile. Parlava sempre a bassa voce, era di costituzione robusta, molto Midwest, con un ufficio situato in un alto e solitario edificio marrone. Si occupava per lo più di molestie sessuali e mi diede l’impressione di considerarmi un caso banale. Aveva una predilezione per chi tentava di vincere una dipendenza. «Io stessa dipendo dal cibo,» mi disse «la capisco insomma».

Barbara Ludlow era anche una donna schietta. «Devi loro delle scuse» mi disse, riferendosi alle mie figlie sedute accanto a me nel suo ufficio. Sforzandomi di non piangere, dissi alle bambine che mi dispiaceva tanto. La più piccola mi salì in grembo e mi abbracciò, mentre l’altra, sorridendo, si appoggiò allo schienale della sedia e disse: «Non puoi bere, papi!». Era un ammonimento, ma anche una richiesta. Rise mentre lo diceva, perché aveva paura di dirmelo seriamente.

Promisi alle mie figlie che non l’avrei più fatto.

Al termine di quel colloquio Barbara mi prese da parte. «Non puoi fare promesse del genere» disse con fermezza. Fu l’unica volta in cui la gentile Barbara mi parlò in modo brusco. «Non fare mai più una promessa del genere. Non sai se berrai ancora o no. Puoi promettere soltanto che proverai a non farlo».

Quando andavo da Barbara Ludlow con le bambine, una volta la settimana, disegnavamo insieme e mangiavamo ciambelline al cioccolato acquistate al distributore del terzo piano. Spesso dimenticavamo, almeno per un po’, quanto fosse innaturale la nostra situazione. A guardarci sembravamo una famiglia normale: sicura, felice, sana.

Nel frattempo, a mia insaputa, la resistenza che opponevo alla supervisione di cui avevo bisogno iniziava a logorarsi. Era come se mi stessero addestrando piano. Quando Barbara annunciò che non avevo più bisogno del suo aiuto, mi sentivo pronto per il supervisore successivo: il braccialetto SCRAM.

Dal sito web dell’Electronic Sentencing Alternative di Kansas City:

La cavigliera SCRAM è applicata all’utente mediante un cinturino resistente e a prova di manomissione. Viene indossata 24 ore al giorno per la durata del periodo di astinenza imposto dal tribunale. Ogni mezz’ora il braccialetto rileva le quantità di alcol presenti nell’epidermide analizzando la sudorazione del soggetto. Il braccialetto immagazzina i dati e, a intervalli predefiniti, li trasmette alla centrale tramite frequenze radio.

L’ufficio centrale dell’Electronic Sentencing Alternative per il Missouri orientale è a Blue Springs, trenta minuti di macchina da Kansas City. La prima volta che parcheggiai davanti a quel luogo, lungo una stradina secondaria parallela alla I-70, vidi un cartello piantato nell’erba su cui si leggeva: COMPRIAMO ORO ROTTO.

L’interno ricordava lo studio di un dentista in disgrazia. In sala d’attesa c’era già un altro tizio in jeans e maglietta dei Kansas City Royals. Mi sedetti. La segretaria era al telefono.

«Lo capisco, Spiacente, signore. Sì, possiamo mandare qualcuno al carcere per installare il braccialetto. No, temo che debba pagare in anticipo. No, non possiamo spedirle il dispositivo senza aver ricevuto il pagamento. Mi rendo conto che non la faranno uscire senza braccialetto, sì». Alzò gli occhi al cielo. «Può parlarne con il suo agente di custodia, signore. Se preferisce, le do il numero di un altro. No, temo che non ci sia nulla che possa fare». Riagganciò. «Signor Reynolds?»

L’uomo con la maglietta dei Royals si piegò verso di me. «Puoi fregarlo se ti infili una fetta di mortadella sotto il cinturino» mi disse. Poi si alzò. «Eccomi», ed entrò.

Quando arrivò il mio turno, una donna sulla trentina, magra, dall’aria amichevole ma professionale – mi ricordò una commercialista con cui lavoravo anni addietro, quando mi occupavo di gioielli – mi disse di sedermi e sollevò l’orlo dei jeans sulla caviglia. Aveva un apparecchio speciale, una sorta di cacciavite segreto, con cui mi assicurò il bracciale alla gamba, il tutto mentre mi spiegava cosa fare quando dovevo entrare in doccia o mi allenavo, e come funzionava il monitor.

«Se lo sente bene? Non è troppo stretto?»

«Semmai è un po’ largo» dissi. «Non è che mi si sfila? Ho le caviglie sottili».

Lo strinse un po’ e mi congedò.

A lezione – insegno filosofia alla University of Missouri di Kansas City – mentre spiegavo camminando avanti e indietro, mi preoccupavo che i miei studenti si accorgessero del rigonfiamento sotto i pantaloni. Ogni tanto il braccialetto vibrava e sul malleolo mi stava già venendo una dolorosa galla. La vibrazione io la sentivo, loro? Come avrebbero potuto prendere sul serio un professore di filosofia, uno che parlava di moralità e rettitudine, se si fossero accorti che portava una specie di manetta elettronica? Volevo mostrargliela, raccontargli tutta la storia, ma sapevo che presto si sarebbe diffusa in tutto il campus e ben presto qualche genitore avrebbe sporto un reclamo presso il rettore.

«Il tuo grano è maturo oggi, il mio lo sarà domani» lessi un giorno, citando David Hume. Parlavamo della nozione di Hume di moralità e beneficio reciproco. «È vantaggioso per entrambi» proseguii «che io lavori con te oggi e che tu mi aiuti domani. Ma io non provo nessun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il maltempo sopravviene ed entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di una garanzia».

Finii di citare il brano e guardai i miei studenti. Il bracciale non vibrò.

Ormai portavo l’apparecchio da un mese. Mi facevo la doccia con un piede nella vasca e uno fuori, e mi stavo abituando a insegnare e guidare con quel coso che vibrava di tanto in tanto, e al callo che si era formato al posto della galla. Un giorno mi proposero di andare in Brasile per scrivere una storia. La mia partenza, immaginavo, avrebbe messo non poco in difficoltà la mia ex, ma mi servivano i soldi ed era un’opportunità unica di studiare una pratica buddista che mi affascinava molto. Tuttavia all’aeroporto non potevo attraversare i controlli di sicurezza con quel bracciale alla caviglia, così chiamai l’ESA per farmi dire che cosa dovevo fare.

«Non può uscire dallo Stato» spiegò la tizia al telefono. «Non può prendere e andarsene in vacanza con il bracciale addosso. Non funziona così».

Le dissi che si trattava di un viaggio di lavoro e le ricordai che era stata una mia scelta indossarlo. Lei si comportò come se le stessi mentendo. «Mm-mh. Possiamo toglierlo, certo, ma contatteremo subito il tribunale. Giusto perché lo sappia. Produrranno un mandato il giorno stesso».

«Macché mandato» dissi io. «E non c’è nemmeno da chiamare il tribunale, non mi hanno mai arrestato. Lo faccio solo perché me l’ha chiesto la mia ex moglie».

«Mm-mmh».

Quando mi presentai nell’ufficio dell’ESA raccontai tutto di nuovo, spiegando perché dovevo farmi togliere il braccialetto. Le due impiegate mi guardarono male, convinte che le stessi coprendo di frottole. Eccone uno che vuole fare il furbo, pensavano. Alla fine, con riluttanza, una delle due mi liberò da quell’aggeggio e mi guardò.

«Non si diverta troppo» disse.

Uno dei motivi per cui esagero con l’alcol è che non sono bravo a gestire le responsabilità e lo stress che deriva dall’essere genitore. Quando riporto le bambine alla mia ex, in quel terribile, desolato momento di separazione, la cosa che più desidero al mondo è un goccio d’alcol. Quando lasciavo la mia figlia maggiore «a casa» dopo un fine settimana passato insieme, la prima cosa che facevo era precipitarmi al 7-Eleven e comprare una confezione da sei di Guinness. A volte la fatica di fare il padre, per quanto adori le mie figlie, mi spinge a correre al bar più vicino. Certi giorni il fatto di non avere la responsabilità quotidiana di crescere le bambine è quasi un sollievo, un sollievo che è poi la riprova di una cosa che non oso ammettere nemmeno a me stesso, che cioè concedere la piena custodia delle bambine a mia moglie è stato un atto di codardia. Rinunciando ai miei diritti sulle bambine, mi ero procurato un biglietto «Esci gratis di prigione». Ora le bambine erano una sua responsabilità: se io scazzavo, be’, avevano sempre la loro mamma. Lo dicevano i documenti.

Queste cose le devo dire per forza se voglio riconoscere anche un altro fatto altrettanto vero, ossia che non c’è niente che desideri di più che essere un buon padre a tempo pieno, un padre che dà alle proprie figlie tutto l’amore e l’attenzione che meritano. E anche questo: che per tutto il tempo che ho passato lontano da loro, mi sono mancate da morire e mi sono vergognato di non essere un padre migliore.

La prima volta che vidi il mediatore Ronnie Beach, un cinquantacinquenne rosso di capelli, che veniva da Liberty, Missouri, stava uscendo dalla sua Honda con un sacchetto del McDonald’s in una mano e un milk-shake nell’altra.

Dopo il viaggio in Brasile per un motivo o per un altro non mi ero più fatto rimettere il braccialetto SCRAM. Avrei voluto farlo, ma la mia ex aveva perso interesse.

«Te lo sei già fatto togliere una volta, e te lo farai togliere una seconda».

«Dovevo fare un viaggio!»

«Certo».

Ero sobrio e continuavo a esserlo, ma dal momento che la mia ex – comprensibilmente – non era disposta a fidarsi della mia parola, non stavamo facendo progressi dal punto di vista genitoriale. Ora lei insisteva per un nuovo tipo di supervisione: durante le visite o brevi uscite con le bambine doveva essere accompagnato da uno sconosciuto.

«L’ho già fatto con Barbara. Ha detto che non era necessario».

«Così o niente».

Eravamo a un’impasse, così decisi di chiamare il mio avvocato. «Possiamo opporci» mi disse. «Non è necessario. Nessun giudice te lo imporrebbe. Ma potrebbe volerci un po’».

«Un po’ quanto?»

«Non saprei. Qualche mese? Se vuoi vedere le tue figlie subito, rassegnati a Ronnie Beach».

Ronnie era uno specialista del campo. Costava cento dollari l’ora e avremmo dovuto usufruire dei suoi servigi almeno due volte la settimana. «Lo so che è costoso» mi disse al telefono. «Ma quando mi fanno questa obiezione, io chiedo: “Quanto lo paghi il tuo avvocato?”».

Nel suo ufficio, una stanzetta piuttosto modesta in cui ci si aspetterebbe di trovare uno psicologo, mi rassicurò che non era insolito per una coppia ricorrere alle visite con supervisione, per un certo periodo. Anche senza un ordine del tribunale.

«Che sia coinvolto il giudice o meno, è questione di ristabilire la fiducia» mi disse. In pratica erano le prime parole che pronunciava, e divennero il mio mantra. Non potevo convincere la mia ex a fidarsi di me a parole; non potevo neanche farlo restando sobrio. Dovevo creare le condizioni tali per cui avrebbe deciso di sua spontanea volontà di fidarsi nuovamente di me.

«Quanto pensa che ci vorrà?» chiesi a Ronnie.

«Non c’è modo di saperlo» rispose. «È un processo lungo, ci vuole pazienza. Intanto ricominci a passare del tempo con le bambine, e vediamo come va».

Ronnie, mi resi conto in quel momento, sarebbe stato il nuovo papà delle mie figlie per un anno intero, e io il suo goffo tirapiedi.

La prima volta che tornai delle bambine insieme a Ronnie andammo al centro commerciale Crown Center, in città. La mia ex fermò l’auto davanti all’edificio mentre io aspettavo. Ronnie andò loro incontro e accompagnò le bambine dentro.

«Ronnie starà un po’ con noi, oggi, va bene, bambine?» Loro annuirono, poco convinte. Sapevano che c’era qualcosa che non andava, ma erano disposte a stare al gioco. Non avevo specificato quale sarebbe stato il ruolo di Ronnie nella nostra vita, solo che ci avrebbe tenuto compagnia ogni volta che ci saremmo visti. Andammo allo Sheridan’s Frozen Custard, dove io ordinai la crema al burro d’arachidi, e Ronnie e le bambine il «Dirt & Worms». Passeggiammo per il centro commerciale, facendo un po’ di shopping, e poi giocai con loro nel Crayola Store. Dopo un paio d’ore ci salutammo con un abbraccio e Ronnie le riaccompagnò alla macchina dalla mamma.

«Quel primo giorno,» mi disse in seguito «ti ho dato B+». Sono ancora deluso di non aver ottenuto una A, anche se a essere completamente sincero, perfino nei miei giorni migliori sono al massimo un padre da B+.

Le bambine erano caute quando c’era Ronnie. Stavano zitte e si comportavano bene, sempre sorridenti ed educate –Ronnie gli piaceva – ma una delle sue abilità era proprio essere a portata di mano e, al contempo, invisibile. La sua presenza pacata e quasi nonnesca era costante, sia che controllasse le e-mail, scrivesse su un taccuino o guardassimo un film a casa mia. Giocava con noi a Scarabeo se glielo chiedevamo, mangiava pancake e a volte mi prendeva da parte per farmi qualche osservazione: «Presta più attenzione a X invece che a Y». Era lui stesso un padre, ma le bambine non lo conobbero mai abbastanza da abbassare la guardia, il che fu un sollievo per me. Non ero preoccupato che imparassero ad amare Ronnie più di quanto non amassero me. Temevo solo che iniziassero a vederci come due papà: Ronnie il papà numero uno e io il numero due. Forse temevo che si fidassero più di lui che di me, come la loro madre, che la loro fiducia in me dipendesse da quella che avevano in Ronnie.

Di recente ho chiesto a una mia carissima amica che cosa, secondo lei, rendeva Ronnie tanto speciale. «Nel rapporto con la mia ex ha cambiato tutto» le dissi. «Come ha fatto?»

«Ha riportato la normalità» disse lei. «Ha preso tutto ciò che era degenerato nella vostra situazione e l’ha riportato su un terreno solido e affidabile».

Era quello il dono di Ronnie. Non si era limitato ad assicurare alla mia ex che potevo essere un buon padre. Mi aveva anche ricordato che ero io il loro papà, che avevo il diritto di esserlo. Certo, se me l’aveste chiesto all’epoca, in ogni fase di quel processo avrei affermato con assoluta certezza di avere al contempo un obbligo e dei diritti verso le mie figlie. Ma a un certo punto avevo perso quella sicurezza. Un’altra orrenda verità che non dovrei rivelare: come padre avevo mollato.

Un pomeriggio, quando ormai lavoravamo insieme da mesi, Ronnie mi chiamò e mi suggerì di parlare con la mia ex della nostra situazione genitoriale. «Non credo che abbiate più bisogno di me» disse.

Organizzò un incontro in un bar vicino a casa e dopo un paio d’ore di conversazione ce ne uscimmo con un piano che mi garantiva del tempo con le bambine senza supervisione.

Ero entrato in quel bar che non potevo neanche vedere le mie figlie da solo. Ne uscii come un normale padre divorziato.

«Purché accetti di sottoporsi a un monitoraggio» disse la mia ex. «Devo essere sicura che non beva più».

«Ti sta bene?» chiese Ronnie.

«Se si tratta di quelle macchinette in cui devi soffiare, mi sta bene. Ma non voglio più saperne di pisciare in un barattolo o rimettere il braccialetto».

Ronnie propose un apparecchio chiamato Sobrietor. L’avrei portato con me ogni volta che andavo a trovare le bambine.

Dopo un po’ che ci eravamo salutati, lo richiamai. «Sei uno stregone» gli dissi. «Ero pronto a scommettere diecimila dollari che non avrebbe mai accettato di concedermi del tempo da solo con le bambine. Ma tu ce l’hai fatta».

«Sono arrivato prima apposta, ero sicuro che sarebbe arrivata in anticipo anche lei per parlare con me. Mi ha chiesto se poteva fidarsi. E io le ho detto di sì». Evitò di aggiungere, Non farmi passare per un bugiardo.

Alle 10:46 del giorno di Natale mi vibrò il telefonino. Ero in cucina a incartare i regali. Sobrietor ti ricorda di inviare i tuoi dati delle 11. Si prega di non rispondere a questo messaggio.

La lucina blu lampeggiava: soffiai per quattro secondi, poi con uno scatto la macchinetta registrò i dati e mi scattò una fotografia. Aspettai sessanta secondi e il cellulare vibrò ancora. Dati inviati con successo.

Quando ero a casa di solito tenevo il Sobrietor in questi tre posti: la dispensa accanto al microonde, il comodino accanto al letto o il cassetto della scrivania nel mio studio. Da lì potevo collegarlo alla corrente, ma fuori dalla portata delle bambine. Il Sobrietor era un affare nero, grande all’incirca quanto un grosso portafoglio, con un tubo di plastica sostituibile che sbucava da un lato. Senza quel tubicino non funzionava, perché se provavi a soffiarci direttamente dentro, poi eri troppo vicino per la fotografia. Era una buona idea, imparai subito, fare una buona scorta di tubi di ricambio, perché era facilissimo perderli. Ne tenevo un paio in macchina e tre o quattro sulla scrivania.

Anche se non bevevo da un anno intero, provavo sempre un’ondata di piacere quando arrivavano i risultati ». Era come ricevere un bel voto in pagella o un sostanzioso bonifico sul conto. Spesso soffiavo due volte solo per avere ulteriore conferma della mia bravura.

Ho inviato i miei dati dal Four Seasons di St. Louis, durante un viaggio per il compleanno di una delle bambine; da Worlds of Fun, Oceans of Fun e Schlitterbahn; dalle stazioni di servizio e dai McDonald’s di Texas, Kansas e Iowa City; dai cinema di tutta Kansas City; dalle piste di pattinaggio, dalle sale da bowling, dalle piscine comunali e dalla Deanna Rose Children’s Farmstead; dallo zoo, dai parchi pubblici, dall’Home Depot, Target, Costco, dai ristoranti e dalle gelaterie; dalla scuola elementare delle mie figlie. Il Sobrietor mi scattava più fotografie di quante ne avessi mai postate sui miei profili Instagram o Facebook messi insieme.

Normalmente, quando lo usavo, mi nascondevo nel bagno degli uomini. Mi sentivo sporco, un criminale. Non provavo alcun piacere come quando bevevo di nascosto – cosa che avveniva a sua volta nei bagni. Provavo solo vergogna. Spesso i dati non arrivavano e dovevo uscire dal bagno per rifare il test, in pubblico, con più discrezione possibile. La gente mi guardava strano quando mi vedeva soffiare in un oggetto che somigliava a un phaser di Star Trek.

Una volta, nella piscina della YMCA in Troost Avenue, stavo inviando i dati dallo spogliatoio quando mi sentii afferrare la spalla da dietro. Mi voltai con il Sobrietor in mano: il tubicino di plastica puntava dritto verso il tizio, perciò lo staccai e provai a mettermelo in tasca. Al che mi resi conto di non avercela, una tasca: ero in costume da bagno. Quindi me ne rimasi lì impalato.

Il tizio portava una polo blu della YMCA e pantaloncini cachi. Aveva i capelli castani e corti. Io ero mezzo nudo con un asciugamano sulle spalle, il corpo flaccido e pallido del quarantenne.

Mi guardava storto. Avrà avuto una ventina d’anni. «Mi scusi, signore, cosa crede di fare?» Si sforzava di non tremare.

«È un apparecchio portatile per il monitoraggio dell’alcol. Basta soffiare in questo tubo» – glielo mostrai, e mi accorsi che visto da fuori aveva un’aria oscena – «poi ti viene scattata una foto e…» Non terminai la frase.

«Non è permesso portare macchine fotografiche in spogliatoio, signore» disse, indicando un cartello. «Devo chiederle di andarsene. Non mi faccia chiamare la polizia».

E lì pensai: non solo nessuno crede che sia sobrio; ora rischio pure di passare per un molestatore. Mi comportai come se la cosa mi desse solo fastidio, ma in verità ero terrorizzato.

Poi, all’improvviso e inaspettatamente, forse per via del mio palese terrore, il giovanotto sembrò comprendere la situazione. Il suo sguardo cambiò: ora era preoccupato, comprensivo. Era come se gli fosse venuto in mente il viso di un conoscente. Mi lasciò mettere il Sobrietor nell’armadietto e uscii in piscina, con l’asciugamano stretto addosso.

Ricordo, diversi anni fa, la prima volta che smisi di bere, di aver parlato con un mio amico del padre alcolizzato. Eravamo in un bar di New York – ero sobrio da un annetto circa – e lui mi esortava a bere una birra insieme a lui.

«Tanto voialtri alcolizzati veri ricominciate a bere, prima o poi» disse. «È solo questione di tempo. Almeno ricomincia con me». Il suo cinismo mi feriva, ma capii da dove arrivava: aveva visto fin troppe volte il padre arrampicarsi fuori dalla bottiglia e poi ricaderci dentro. Non si fidava più.

Una volta che il mio amico si fu arreso, capii anche se non glielo dissi, suo padre non ebbe più motivo di credere in se stesso. Non fraintendetemi, non era certo colpa del mio amico, ma di suo padre, ovviamente. Chi soffre di una qualche dipendenza, specialmente se ha figli, porta sulle spalle tutta la responsabilità della morte della fiducia. Ma se ti rendi conto di non poter più riconquistare la fiducia di qualcuno, allora smetti di provarci. Alla fine ti arrendi, e smetti di fidarti anche di te stesso (è proprio questo uno dei motivi per cui gli Alcolisti Anonimi funzionano, perché il gruppo continua a credere in te, a prescindere da quante volte ci ricadi. Ti insegna, lentamente, a fidarti di nuovo di te stesso).

Quando assunsi Ronnie Beach, avevo perso le speranze che la mia ex potesse tornare a fidarsi di me. Non si fidava a lasciarmi solo con le bambine e io credevo che non volesse farmele vedere. Da questo mi liberò il Sobrietor, e non, come si potrebbe pensare, dalle parti più oscure e distruttive della mia personalità. Nessun elemento esterno, che sia un Sobrietor, una pillola di Antabuse o un supervisore, può assicurarti di restare sobrio. Quando tutto ciò che ti separa dalla tua dipendenza è una persona, o un oggetto, il tuo desiderio non fa che aumentare. E inevitabilmente trovi un modo per aggirare l’ostacolo.

Ciò da cui ti libera il Sobrietor, o il braccialetto SCAM, è il vincolo estenuante del dubbio altrui. Nessuno deve più fidarsi della tua parola, quando gli dici che sei sobrio: puoi dimostrarlo. È un fatto. Sei libero di aspettarti la fiducia altrui come le persone normali, e questo non fa che generare altra fiducia. La gente percepisce che tu sai di meritare la loro fiducia. Più te ne danno, più ti fa bene. Presto ti ritrovi a estendere la tua fiducia a persone che avevi imparato a guardare con sospetto. «Il modo migliore per scoprire se puoi fidarti di qualcuno è fidarti» scriveva Hemingway. Di te stesso, soprattutto. Siccome la mia ex si fidava di me, io iniziavo a fidarmi di lei.

Ormai sono passati quasi quattro anni da quando ho rispedito il mio Sobrietor a John Wells a Topeka, Kansas. È stato davvero emozionante infilare quel bastardino nero in una busta gialla, di quelle con le bolle, e sperdilo con corriere in direzione sud. Non è stato un gesto liberatorio, perché dopotutto ero sempre stato libero di fare quello che volevo. Ero libero di vedere le mie figlie o non vederle, di bere o non bere, di provare a riaggiustare le cose con la mia ex o patire le orribili conseguenze della separazione. Ma gli esami delle urine, Barbara Ludlow, il braccialetto SCRAM, Ronnie Beach e il Sobrietor mi hanno insegnato che io non sono l’uomo sotterraneo che esige libertà pur sapendo che questa potrebbe danneggiarlo. Per me la libertà è positiva nella misura in cui lo sono le scelte, potenzialmente felici, che permette di compiere. E tutte le mie scelte felici coinvolgono altre persone.

Sono stato un codardo? Può darsi. Ma ora sono un codardo che può passare con le figlie tutto il tempo che vuole.

«Non puoi bere, papi!» aveva detto la mia figlia maggiore. Si sbagliava. Posso bere, ma mi fido di me, e so che non lo farò.

*

Clancy Martin è un filosofo, saggista e romanziere canadese. È autore del romanzo How to Sell, e i suoi scritti sono apparsi su The New Yorker, Harper’s Magazine, The New Republic, The New York Times e The Wall Street Journal. Insegna filosofia alla University of Missouri di Kansas City.

Titolo originale, The Big Mother @ Clancy Martin, 2017, all rights reserved
Fotografia @ Mariateresa Pazienza