IN CUI SI PARLA DI: Problemi al motore, quattrocento dollari in pezzi da venti, la proibitiva cima del Monte, i vantaggi del proibizionismo, vicini invidiosi, comunità plasmate secondo il modello dell’Old West, un fucile nascosto, Platinum Bubba Kush, hipneck, scorciatoie non segnalate, una riparazione da novantasette dollari

Nella contea di Humboldt, in California, le coltivazioni illegali di marijuana incrementano l’economia e influenzano la cultura. Chi vince e chi perde, se l’erba diventa legale?

Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer, giugno 2014

Il cuoco, che chiamerò Dan, aveva problemi col motore. La quarta marcia non entrava e la quinta era inutilizzabile. Da tempo guardava con terrore al momento in cui il suo SUV Toyota, ormai cadente e bruciato dal sole, avrebbe cominciato a perdere colpi. Il proprietario precedente l’aveva consumato a furia di lavorarci in un ranch su a nord, in prossimità del Canada, e poi glielo aveva venduto per due soldi, subwoofer di seconda mano compresi. In quel ranch aveva seminato grano e riparato recinzioni e a stagione terminata era approdato lì, nella contea di Humboldt, la capitale nordamericana della marijuana, dove due volte al giorno, per sei giorni la settimana, cucinava pasti per i rimondatori che lavoravano nei campi color smeraldo. Questi uomini che si prendevano cura delle piante l’avevano soprannominato «Dreamboat», e a lui non dispiaceva affatto.

Era una tranquilla domenica di ottobre del 2013, nel bel mezzo del raccolto autunnale. Dan scendeva dal Monte – «come lo chiama tutto il mondo» disse riferendosi al mondo dell’elite dei coltivatori di marijuana e dei loro braccianti – tentando di non forzare il motore sperando che gli rimanesse forza sufficiente per riportarlo su. Era diretto in città per acquistare le provviste settimanali di cibo e bevande per la sua fattoria. Il budget, quattrocento dollari, tutti in pezzi da venti, era posato sul cruscotto, chiuso in una busta con l’etichetta «Cucina». La somma sarebbe stata spartita fra vari negozi: fornitori di ristoranti, un supermercato locale, grossisti e un tabaccaio. Dan era un compratore oculato. Non utilizzava i coupon, ma sapeva che la lombata di maiale costava meno al Cash & Carry che da WinCo, e che nessuno dei due vendeva la marca di burro dolce che tanto piaceva ai suoi operai (per quello doveva andare da Safeway). Il giro si prolungava fino a sera ed era proprio questo il punto. Se fosse rientrato in fattoria prima dell’ora di cena con una nuova scorta di cibo, tutti si sarebbero aspettati che cucinasse qualcosa. E la domenica, per contratto, era il suo giorno libero.

Quando la stradina sterrata cedette il posto all’asfalto Dan disinserì le quattro ruote motrici e gettò il mozzicone di canna fuori dal finestrino. Gli uomini dello sceriffo, quando non erano in vena, si insospettivano anche solo alla vista di un veicolo che percorreva la strada principale del Monte, nota rotta del commercio all’ingrosso della marijuana. Superando un camion che si trascinava dietro un rimorchio per cavalli senza cavalli, Dan disse che da quelle parti sarebbe stato strano se il rimorchio non fosse stato pieno d’erba. Il Monte, che distava cinquanta miglia dal Pacifico e svettava tra cime più basse, è raggiungibile solo tramite una mulattiera. I coltivatori che volevano mantenere i propri carichi alla larga dalle strade pubbliche pagavano i loro colleghi, come Ethan, proprietario e amministratore della fattoria dove lavorava Dan, per assicurarsi il diritto di passare per le vie di campagna ed evitare le strade principali della contea e dello Stato. Il pedaggio, a detta di Dan, andava dai duecento ai quattrocento dollari per viaggio. Lui stesso lo riscuoteva abitualmente.

«Monti su un quad e ti presenti al cancello,» disse «lo apri e il tizio ti consegna un paio di pezzi da cento». Soldi facili, e gli piace il vento che gli soffia sul viso. Dan ha aperto la proprietà di Ethan a pick-up, rimorchi per cavalli e furgoni. I carichi si fanno strada verso nord, fino all’Oregon e allo stato di Washington; procedendo a est attraversano montagne più impervie e alte e raggiungono l’interno; poi virano a sud, verso la California, l’Arizona ecc. La marijuana è la principale merce d’esportazione della contea di Humboldt; un esperto locale ha stimato che all’interno dei suoi confini crescono ogni anno venti milioni di piante. Senza esagerare, Humboldt produce annualmente oltre due milioni e mezzo di chili di marijuana, sei volte più della quantità sequestrata dalla DEA nel 2012 in tutto il Paese.

Solo l’anno precedente l’ufficio dello sceriffo della contea di Humboldt ha individuato 4.100 coltivazioni di marijuana. In una stagione normale, ha dichiarato lo sceriffo, lui e i suoi uomini sono in grado di sradicarne dalle cinquanta alle sessanta. Statisticamente, quindi, il capo di Dan aveva il due per cento della possibilità di essere beccato. Aveva fatto del suo meglio per nascondere la sua piantagione, annidandola sulla proibitiva cima del Monte e coltivando in strette file che correvano lungo una delle pendici. A protezione delle sue terre sorge una serie di cancelli di ferro e la fitta foresta di canapa circostante fornisce un buon riparo.

Ciononostante la minaccia di incursioni delle forze dell’ordine è sempre presente. Qualche settimana prima del mio arrivo, a Ethan era giunta voce dalle pendici del Monte che la DEA gli avrebbe presto fatto visita. Gli aerei sorvolavano già la zona. «Non si può mai stare tranquilli, qui» disse Dan, ma quella volta aveva ragione di essere preoccupato. Ethan gli aveva consigliato di nascondere il fucile, e Dan aveva obbedito: l’aveva riposto nella custodia e chiuso in un sacco della spazzatura, che in un secondo momento aveva infilato in un buco nel tronco di un albero. Era un vecchio fucile regalatogli dal nonno. Sebbene Dan vivesse in una logora tenda a parete, che ben misera protezione gli assicurava dalle aggressioni della natura selvaggia, quel fucile era più che altro un ricordo che un modo per difendersi.

Domandai a Dan se lui e Ethan, in un momento di estrema difficoltà con la legge, avessero mai compiuto un qualche gesto tragico – raccogliere i frutti del proprio lavoro e usufruirne in modo simbolico, come ultimo grido di libertà di fronte alla fine ormai certa. Risposero di no. Avevano continuato a comportarsi normalmente o si erano dati al rafting, non ricordava più quale delle due cose, tanto erano frequenti quelle minacce. Dan, che aveva una laurea specialistica in scrittura creativa, era alla sua seconda stagione alla fattoria di Ethan e, con un po’ di fortuna, sarebbe stata anche l’ultima. Il piano era racimolare soldi come cuoco e coltivatore, e poi lasciare gli Stati Uniti per qualche tempo, andarsene dove la vita non costava tanto. Darsi alla fotografia, scrivere poesie, terminare il suo libro. Avrebbe potuto farlo anche in prigione, riconobbe Dan, ma coltivare erba si era dimostrata la via più semplice per fare soldi velocemente.

Dopo aver ricevuto la soffiata sulla presenza dell’antidroga era passata un’ora, e un’altra. A quel punto Ethan, membro di un’alleanza informale di coltivatori del Monte che si tenevano aggiornati a vicenda sui movimenti delle merci e delle forze dell’ordine, aveva ricevuto la notizia che la DEA era diretta altrove, più precisamente verso la valle, dove più tardi aveva scovato una coltivazione di oltre trecento piante di marijuana. Per quanto fosse negli standard della contea di Humboldt, una tale concentrazione di piante era considerata rischiosa e difficilmente trascurabile.

Dan aveva atteso qualche giorno prima di andare a recuperare il suo fucile, che apparentemente era già stato trovato da un orso. Pensando che nascondesse del cibo all’interno, l’animale aveva strappato la busta della spazzatura, rotto la custodia, e infine gettato il fucile giù per un pendio di terreno acquitrinoso, compromettendone le funzionalità.
«Funziona ancora» disse Dan «ma è rimasto sotto la pioggia e va bluito di nuovo». Il fucile si trovava nel suo accampamento ora, posato sopra alcuni libri di poesia.

La strada in discesa, che dalla fattoria conduceva fino all’ultimo negozio in cui solitamente Dan si fermava, si snodava per qualche miglio di paesaggio montuoso nella California settentrionale – foreste di sequoie, abeti giganti e madroni trapuntati di colori autunnali – fino alla pianura costiera incorniciata all’orizzonte da un nastro di oceano grigio. «Sembra di stare nella cazzo di Narnia» mi aveva detto Dan prima del mio arrivo. Aveva tentato di indorarmi la pillola, considerato che avrei trascorso a Humboldt una stagione intera. Assomigliava molto a un idilliaco paesaggio di frontiera, un paradiso incontaminato fondato sul commercio della marijuana. Salendo da San Francisco mi resi conto che Dan non aveva esagerato. La Humboldt pubblica già lascia una forte impressione sul visitatore, quella privata ancora di più. Alcune delle viste di cui si godeva dalla fattoria di Ethan sembravano costruite ad hoc, un trionfo di vette allineate a formare il panorama perfetto.
Dan al mio fianco guidava senza dire granché, l’orecchio teso a cogliere rumori sospetti del motore. Aveva appena saldato una delle tante fatture dell’officina di riparazioni, l’ennesima spesa imprevista che andava ad aggiungersi a una serie di sfortune recenti. La sua paga era appena stata tagliata e, cosa peggiore, e la sua piccola coltivazione personale era stata contaminata da polline di piante maschio, che aveva rovinato gran parte delle femmine. La sensimilla – una pianta femmina vergine che produce grossi fiori resinosi per intrappolare meglio il polline – è molto più apprezzata dell’erba con i semi, che comporta l’ovvio fastidio di doverli eliminare e che ha un effetto meno potente: una volta impollinata, infatti, la pianta sposta l’attenzione sulla crescita dei semi e produce meno THC, ovvero la sostanza stupefacente. Dan era riuscito a vendere i fiori compromessi a un discount, che poi però gli aveva chiesto di tornare a riprenderseli.

«Sapeva che cosa stava comprando» disse della sua acquirente, che aveva tenuto la marijuana per quasi una settimana prima di protestare perché non riusciva a venderla. Gli affari sono affari, pensò, ma Ethan, per non perdere una cliente di lunga data, l’aveva costretto a ricomprarsela. La parola di Ethan era legge in fattoria, la sua figura onnipotente. Quando Dan cucinava era il suo supervisore, quando gli servivano soldi era la sua banca e il suo unico distributore nella vendita. «È una specie di feudatario» disse. Come se non bastasse, il raccolto del capo era sempre impeccabile. «Non gli è andata male neanche un anno. I vicini lo odiano».

Ethan è un uomo nerboruto, sulla trentina, alto e magro, che si mantiene in forma coltivando campi di marijuana sul versante della montagna. Ha una barba sottile e ben curata, e non sente freddo come i comuni mortali.

Quest’anno il suo obiettivo era vendere più erba dell’anno precedente, ma non così tanta da attirare l’attenzione dei federali. A metà raccolto aveva stimato di accumulare tra i novanta e i duecento chili di fiori, che sul mercato venivano venduti a cinquecento dollari al chilo. Sottratti i costi – manodopera, proprietà, materiali, attrezzi, benzina, cibo – Ethan si sarebbe tenuto ben al di sopra del milione di dollari di guadagno. Tutto questo lavorando per soli sei mesi, dall’estate all’autunno, ma rischiando ogni volta di farsi beccare e marcire in prigione.

«Nel giro di una decina d’anni la situazione cambierà completamente» mi aveva detto Ethan. «La bolla sta per scoppiare. Il governo è stufo di non mettersi niente in tasca. Ma fino ad allora continueremo a fare il nostro lavoro». Un recente sondaggio della Commissione di Perequazione Fiscale della California riferiva che lo stato poteva riscuotere fino a un centinaio di milioni di dollari di tasse legate alla vendita di marijuana a scopo terapeutico – una cifra notevole, ma di ben poco conto se paragonata ai quattordici miliardi di dollari di erba prodotti ogni anno in California. Lo stato trattiene il cinque per cento di tasse sulla vendita dell’erba terapeutica. Significa che in ogni caso può aspettarsi di intascare solo due miliardi sui quattordici prodotti annualmente dall’industria della marijuana. Il mercato nero, cui Ethan si dedica esclusivamente, è sei volte più grande di quello regolamentato.

E finché la fortuna gli sorrideva, Ethan avrebbe proseguito per questa strada. Quell’anno si era portato dietro molti più rimondatori del solito perché si prendessero cura del raccolto. Ogni nuovo uomo rappresentava un rischio. Per alcuni il solo fatto di trovarsi sul suolo statunitense rappresentava un crimine, figurarsi lavorare in una piantagione di marijuana. Ethan ne aveva bisogno, però, gli servivano le competenze di questi uomini disposti a rischiare tutto per mettersi a servizio della sua fattoria e del suo prodotto migliore, la «Longshot». Per dirla con le parole di uno dei rimondatori, la Longshot era un’erba «morbida». E affidabile: innalzava immancabilmente lo spirito. La ricetta si perfezionava di raccolto in raccolto e i fiori diventavano sempre più puri. Sicuro di questo, Ethan pareva non darsi pensiero del fatto che le sue piante femmine – «’Giorno, ragazze» le salutava al mattino – potessero essere inseminate o in qualche modo contaminate. Protetta in un ambiente ideale, la Longshot era una specie nobile. La fattoria era per Ethan il suo luogo di lavoro e il suo laboratorio, un luogo in cui le variabili, eccetto i capricci del tempo, erano tenuti a bada con scientifica caparbietà.

A partire dal 1996 i californiani in possesso di ricetta medica hanno potuto coltivare e possedere marijuana. Quello stesso anno la Proposta 215, con cui si voleva garantire l’immunità ai residenti «gravemente malati», le cui condizioni potevano migliorare grazie al consumo di erba, uscì vincitrice da un ballottaggio statale. Nel 2003 il Senato approvò il disegno di legge 420 e introdusse l’utilizzo di tessere identificative (a tutt’oggi ne risultano emesse all’incirca settantadue). Né la Proposta né il disegno di legge, tuttavia, superarono l’esame federale; i blitz delle forze dell’ordine fra agricoltori e dispensari furono frequenti dal 1996 fino al marzo 2009, quando il Procuratore Generale Eric Holder annunciò che il controllo dei coltivatori e dei venditori di marijuana non sarebbe stato una priorità dell’amministrazione Obama.

Sulla scia della Proposta, venti stati e il District of Columbia approvarono la legalizzazione della marijuana per uso medico. Il Colorado e lo stato di Washington ne hanno in seguito approvato anche l’utilizzo a scopo ricreativo. Gli stati conservatori hanno a fatica allentato la presa sui possessori di marijuana (in Kansas se ti trovano con dell’erba, di qualsiasi quantità si tratti, persino un grammo, rischi un anno di prigione), perciò è evidente che l’America si stia dirigendo verso la legalizzazione.

La fattoria di Ethan può contare su molti permessi rilasciati da medici in tutta la California, di cui un paio sono a nome di coltivatori che di fatto vivono e lavorano nella piantagione. Accanto ai campi sono stati piazzati enormi cartelli rivolti verso l’alto con su scritto «MEDICINALE», in modo che eventuali aerei per la ricognizione potessero vederli. Attaccati ai cartelli c’erano le licenze. Secondo Brianna, la co-responsabile del raccolto della fattoria (divide il compito col marito Dario), queste licenze nemmeno valevano più.

«Non importa più a nessuno» mi disse. «Se lo stato o i federali decidono di fare irruzione, è alle piante e ai quantitativi che fanno attenzione, non al numero di possessori di permesso che non vivono alla fattoria».

La polizia potrebbe anche impuntarsi e dire che le piante di Ethan, in base ai criteri stabiliti dalla legge, sono fin troppo floride. Il numero massimo tollerato per uso medico è di novantanove piante. «Novantanove, non ci piove» recita il jingle. Se coltivi il numero massimo, tuttavia, il diametro di ciascuna pianta potrebbe sforare la dimensione prevista. Si può quindi scegliere se coltivare un campo intero di piccole piante o una manciata di giganti, ma in ambo i casi non si possono occupare più di trenta metri quadrati di terreno. Una tipica pianta di Longshot ha delle cole – le corone della pianta di cannabis – che combinate possono raggiungere fino a un metro e venti di lunghezza, con un fusto grande il doppio. Probabilmente bastava anche solo una delle piante coltivate nei terreni di Ethan per superare il limite permesso, secondo Brianna. Se era vero, la fattoria era fuorilegge di 749 piante.

Eppure la California, da sempre Stato pacificatore nelle controversie sulla marijuana e rifugio dei coltivatori più ambiziosi, rischia suo malgrado di perdere dei fuorilegge come Ethan. Se lo Stato dovesse scegliere di seguire l’esempio del Colorado e di Washington, infatti, e legalizzare l’uso ricreativo della cannabis, come ci si aspetta che avvenga, le economie già fragili del Nord – soprattutto quella del «Triangolo di Smeraldo» delle contee di Mendocino, Humboldt e Trinity, dimora di circa un quarto di milioni di persone – ne risulterebbero gravemente menomate. Il «tetto» che mantiene entro un certo livello i prezzi della marijuana crollerebbe in modo talmente brusco che molti coltivatori perderebbero il loro incentivo e (ironia della sorte), partirebbero alla volta di zone dove vige una regolamentazione più rigida. Di recente molti coltivatori hanno lasciato la California per stati quali il Wisconsin e il North Carolina, mercati in cui un chilogrammo di marijuana può fruttare il doppio di quanto non frutti nel Golden State. La legalizzazione evita ai coltivatori la prigione, ma la regolamentazione ne azzoppa i margini di profitto.

Sebbene Ethan faccia affari sottobanco, negando allo Stato la sua quota di tasse, paga comunque ragguardevoli tasse di proprietà, investe pesantemente in costruzioni, strumenti e risorse locali, e impiega migliaia di lavoratori stagionali, ricompensandoli in denaro contante che viene poi nuovamente speso nel territorio. Ogni settimana, inoltre, i produttori allungano a ragazzi come Dan una busta piena di quel denaro contante destinato a fattorie ed esercizi commerciali della zona.

Alla fine, comunque, se la California non dovesse legalizzare completamente, i coltivatori malintenzionati sfrutteranno il sistema, oltre alla già scarsa fornitura d’acqua statale, e lo Stato perderà la propria occasione in questa corsa all’oro. I prezzi calano e continueranno a farlo, disse Graham, che si occupa dell’amministrazione della fattoria di Ethan.

«Fino a qualche anno fa ti beccavi circa mille e cento dollari al chilo per una coltivazione esterna» disse. «Poi sono arrivati Colorado e Washington e ci siamo ridotti a settecento». Il declino è cominciato con la minaccia, più che con l’effettiva esistenza, della sovrabbondanza dell’offerta, dal momento che il Colorado ha permesso di vendere e tassare la marijuana ricreativa solo a partire dal primo gennaio 2014 (nello Stato di Washington si dovrebbe iniziare a breve a vendere a scopo ricreativo).

«Quest’anno sono cinquecento [dollari al chilo]» disse Graham. L’anno prossimo prevede che il prezzo scenderà a duecento.

Nonostante questo spauracchio la maggior parte dei rimondatori e dei coltivatori con cui ho parlato – escluso Ethan, che è pessimista – dubita che Humboldt possa perdere tanto presto il suo primato. Altri stati potranno offrire delle agevolazioni legislative circa il consumo della marijuana, ma Humboldt ne è la produttrice storica, possiede le infrastrutture per continuare a esserlo, e una cultura che pone l’accento sulla figura del coltivatore. Humboldt è stata paragonata spesso alla North Carolina dell’epoca coloniale, che produceva tabacco. Qui la marijuana è un mezzo di sostentamento, non uno stile di vita. Le nuove leggi non hanno ammantato Colorado e Washington della stessa atmosfera dal giorno alla notte, né hanno scalfito la tradizione di Humboldt quale principale produttrice di erba.

A partire dai primi anni Settanta, quando la coltivazione dell’erba ha rimpiazzato a Humboldt l’antica industria del legname, la marijuana è diventata la maggiore fonte di guadagno. Nel 2012 si stimava che l’erba portasse nelle casse della contea un miliardo di dollari sui quattro prodotti dall’intera economia. Durante il mio soggiorno non ricordo di aver visto alcun negozio di abbigliamento, libreria, supermercato, bar, ristorante, merceria, stazione di servizio, farmacia o baracchino di burrito che non avesse legami diretti con la fattoria. C’era l’odore nell’aria, le banconote ne erano intrise. Nei parcheggi ruggivano i furgoni truccati dei coltivatori (per lo più Toyota, uno status symbol a Humboldt). L’esodo era iniziato a San Francisco circa quarant’anni prima, quando gli hippy avevano lasciato la città diretti a nord, verso i boschi, in cerca di una vita più semplice, di un’Arcadia che potesse fornire loro sia il cibo che le sostanze di cui avevano bisogno. Era iniziata così. Ma lungo il tragitto il movimento si era tramutato in una florida industria.

Percorrendo l’arteria principale della contea di ritorno alla sua fattoria, Dan si fermò a fare benzina su territorio indiano. All’interno della stazione di servizio si intravedeva una fila di slot machine dai colori vivaci. Dan entrò, inserì una moneta da cinque in una di queste e vinse cinquanta volte tanto. Finalmente! Ero così preoccupato per la sua situazione finanziaria che mi fece molto piacere che una volta tanto la fortuna gli sorridesse.

Fatte tutte le sue spese, Dan guidò gentilmente il suo fuoristrada su per il Monte, senza avvicinarsi neanche per sbaglio al limite di velocità sui rettilinei. Giunto ai cancelli della proprietà aprì due birre, segno che eravamo finalmente al sicuro. Ethan possedeva vari appezzamenti sul Monte, per un totale che nemmeno lui era capace di calcolare con esattezza. A domande del tipo, Quanta terra possiedi?, A chi e dove vendi tutta la Longshot?, Come facevi a sapere che l’elicottero che passava di qui ieri era dei pompieri e non della polizia?, rispondeva sempre in modo vago. Gli piace parlare con la gente, ma non dei suoi affari. Chi si presenta alla sua fattoria non chiede di essere messo al corrente dei dettagli, a mano che non si tratti di giornalisti d’assalto o poliziotti sotto copertura. Sebbene avessero ormai capito che non rappresentavo una minaccia, i rimondatori continuavano a chiamarmi «Narc», e solo in parte scherzavano. Bastava un niente a insospettirli e a trasformarti in un nemico. Ma per comprendere Humboldt e la sottocultura della cosiddetta «Redwood Curtain» – una sorta di comunità extra americana o, più precisamente, una comunità che, a causa della mancanza di controllo da parte del governo, ha avuto modo di plasmarsi secondo il modello dell’Old West – è necessario porre domande sciocche, domande che ti bollano immediatamente come outsider. Bisogna prestare attenzione alle voci che girano tra gli operai («chisme») e sperare nella bontà di persone come Dan, che si è reso disponibile a spiegarmi le dinamiche della fattoria. Ciononostante su queste terre resta proibito prendere appunti o scattare fotografie. Non si possono registrare le conversazioni. La notte, però, al riparo di una tenda, puoi riscrivere ciò che hai sentito durante il giorno. A volte le nebbie della Longshot impediscono di ricordare lucidamente, confondono la sequenza degli eventi. Altre basta una fotografia fuori fuoco, scattata di nascosto, per aiutarti a riportare a galla i ricordi.

Il Toyota di Dan si inerpicava sulla salita, carico di cibo: casse di confezioni di latte di canapa, una lombata da dieci chili, aglio sbucciato e bistecche di tempè per i vegetariani. La strada era tutta dossi e buche. I terrapieni scavati per incanalare le acque dei temporali ostacolavano il tragitto. Ethan aveva creato quelle strade da solo, con l’aiuto del suo braccio destro, Rob. Rob ed Ethan si erano conosciuti in una rinomata scuola della costa orientale. Ethan era uno studente brillante che preferiva sfruttare le sue abilità nel commercio di cannabis piuttosto che nelle attività accademiche. Era riuscito a mettere da parte dei soldi e a vent’anni aveva acquistato un piccolo lotto di terra a Humboldt – «i Primi Quaranta», così chiamava quegli acri. A ogni buon raccolto comprava dell’altra terra finché non si era ritrovato proprietario di buona parte del Monte, dove oggi produce marijuana di prima qualità e guadagna somme che gli permetterebbero di lastricare con mazzette di dollari cinque isolati cittadini.

L’espansione al contempo gli ha assicurato una maggiore area coltivabile e minore esposizione. Invece di stipare un gran numero di piante in soli quaranta acri, ne ha sparpagliate qualche centinaio in molte miglia. In tal mondo ha raggiunto l’obiettivo primario del coltivatore di marijuana: non destare sospetti. In effetti, dall’alto, la sua proprietà sembrava costellata di piccole e rade coltivazioni che agli occhi delle autorità apparivano insignificanti (un altro coltivatore della zona aveva concentrato in un solo punto lo stesso numero di piante che Ethan aveva disseminato in sei campi).

Gettate le fondamenta e irrigata la fattoria di denaro non tassato, Ethan aveva spostato il proprio centro di comando in un bacino idrico dalle acque poco profonde, sul Monte, dove Rob aveva eretto una iurta – una tenda piatta e ampia sorretta da palafitte. Più terra significava più piante, e di conseguenza più manodopera. La iurta poteva ospitare una ventina di operai. Lì mangiavano, lavoravano, danzavano e fumavano tutti insieme. Il tetto era di plastica ed era talmente incrostato di polvere di marijuana che a malapena si vedeva il cielo fuori. Per mantenere tutti all’asciutto Rob costruì delle piattaforme di legno su cui montare le tende. Creò nuovi corsi d’acqua, livellò le strade collegando la vecchia proprietà alla nuova, eresse un gabinetto esterno e montò dei pannelli solari per non dover contare solo ed esclusivamente sul generatore elettrico. Piantò la verdura: cavoli, carote, insalata, senape indiana. I rifiuti che non potevano essere riciclati venivano bruciati o raccolti e portati in una discarica altrove.

A tutt’oggi non si è ancora smesso di costruire. Poco dopo essere tornato con Dan alla fattoria, vidi un uomo di Rob ferirsi per sbagliò con una sparachiodi mentre erigeva un secondo gabinetto esterno. Il chiodo gli penetrò sopra il ginocchio rischiando di fuoriuscirgli dal polpaccio. Lo portarono portato in ospedale, anche se con riluttanza.

«Non ha l’assicurazione sanitaria» mi disse Rob. «Ha solo Ethan».

L’uomo ricomparve dopo pochi giorni, zoppicante, e si rimise al lavoro.

Seduti su sedie da giardino gli operai erano allineati lungo il perimetro interno della iurta. In grembo reggevano coperchi di bidoni di plastica rovesciati su cui giacevano mucchi di fiori di marijuana. Nell’aria c’era il rumore ritmico delle forbicine al lavoro e l’umidità intrisa di un odore inconfondibile.

Gran parte dei lavoratori sono individui istruiti, che parlano più lingue e in passato hanno ricoperto ruoli in ambiti più professionali. Colui che si occupa di raccogliere le foglie e la polvere, le parti della pianta di marijuana insomma che non si possono fumare, e di trasformarle tramite un particolare prodotto in hashish per uso medico, si è laureato in una delle scuole più prestigiose d’America, come Dan. Un potatore, chitarrista consumato, si era preso una pausa ed era volato in Cina per registrare con un’orchestra di lì. Si potrebbe continuare con l’elenco, ma il punto è che si trattava di un gruppo di persone interessanti, sedute in una tenda nel bel mezzo della foresta a preparare marijuana, ascoltando musica e chiacchierando di ogni argomento possibile e immaginabile. Lo facevano notte e giorno, raccolto dopo raccolto.

A fine maggio Ethan prepara il terreno per la semina. Il suo fertilizzante fatto in casa contiene farina di ossa, gusci di ostrica frantumati, Azomite, calcio fosfato e letame. I germogli di marijuana, cresciuti in serra, vengono trasferiti all’aperto in campi dai nomi enigmatici: Luna di Miele, Africa, Serpente a Sonagli, Tom. Qui le piante vengono nutrite, innaffiate e tenute sotto controllo per evitare che da femmine diventino maschi. Le piante maschio sono le peggiori: producono marijuana inutilizzabile e, se un seme sboccia, come accadeva spesso nella micro-coltivazione personale di Dan, le femmine intorno possono venire impollinate. Per mandare a monte tutto il commercio di erba, mi disse un potatore, al governo federale basterebbe inondare la zona di polline, spararlo dall’alto come fanno per spegnere gli incendi.

Ethan non utilizza né pesticidi né fungicidi, e l’irrigazione segue un programma preciso, non si basa sulla necessità: coltiva marijuana biologica, che potrebbe assicurargli un potenziale vantaggio in futuro. Essendo la produzione di marijuana ormai così diffusa, e considerando che in Colorado e Washington la coltivazione all’aperto non è consigliabile, per ragioni climatiche, presto i consumatori pretenderanno maggiori informazioni su ciò che consumano (perché la marijuana, come l’eroina, è classificata come droga pesante dal governo federale, l’FDA, e l’USDA non può nulla). In molti, si pensa, inizieranno a preferire erba biologica (gli stessi che ora acquistano cibo solo da Whole Foods). Il mercato potrebbe invertire rotta. Oggigiorno la marijuana prodotta in serra costa più di quella coltivata all’aperto, dato che un maggiore controllo sull’ambiente solitamente si traduce in fiori più potenti e gran parte degli appassionati cerca proprio questo. Maggiore libertà di consumo porta nuovi clienti, però, e Ethan scommette che in tanti preferiranno piante «cresciute al sole», «naturalmente verdi» come, diciamo, la Platinum Bubba Kush.

Arriva l’autunno e le piante mature vengono raccolte e appese a essiccare, private di foglioline e rametti, e infine potate. Risultato finale: pepite verdi striate di viola, resinose e piene, pronte per il consumatore. Il risultato è la Longshot. Le migliori vengono frantumate nel cosiddetto «zucchero», piccoli fiori bianchi – tricomi – che contengono THC, la sostanza psicotropa responsabile dell’effetto di elevazione spirituale della Longshot. Il suo odore richiama quello della menta, della torba, del legno di cedro e degli aghi di abete: è l’odore di una marijuana di prima scelta.

Qualche tempo prima, durante la stagione, una tempesta si era abbattuta su Humboldt riversando pesanti piogge sulla piantagione di Ethan e costringendo gli operai a un raccolto anticipato. Le piogge distruggono almeno il cinque per cento di ogni raccolto, mi disse Dario, l’altro responsabile della fattoria (il marito di Brianna). Quella tempesta avrebbe potuto comprometterne il doppio. «Non facevamo che scuotere le piante» disse. «Sotto la pioggia. Se non lo fai, la pianta fa la muffa e marcisce».

Dario è un omaccione italiano che nel corso di quell’estate era stato sul punto di farsi cacciare a causa della sua indolenza, ma poi era riuscito a riabilitarsi agli occhi dei datori di lavoro e si era rivelato un ottimo elemento per il raccolto. Seicentocinquanta chili prodotti sono un discreto risultato qui a Humboldt, e un’impresa monumentale in qualsiasi altro posto (a difesa della propria etica di lavoro, Dario puntualizzò: «Se mi danno nove ore per abbattere un albero, io ne passo otto ad affilare l’ascia»). Tuttavia girava voce che Ethan non avesse intenzione di richiamarlo l’anno seguente. I due si erano scontrati apertamente. Dario preferiva parlare chiaro più che insinuare e Ethan, che aveva adottato l’abitudine californiana di trasformare le affermazioni in domande, esercitava la propria autorità in maniera più sottile. Suggeriva, «Forse bisognerebbe accendere il fuoco più spesso in quel barile?» – si trattava del barile dove venivano incenerite quelle parti della pianta che non potevano essere fumate o trasformate in hashish – per esortare i rimondatori a radunare una maggiore quantità di steli.

Una mattina Dario mi invitò a uscire nei campi con la squadra. Dan era d’accordo. Disse: «Coraggio, commetti un reato». Mi ritrovai seduto sul retro di un altro furgone Toyota cigolante insieme a un gruppo di rimondatori che quel giorno erano incaricati del raccolto, e con loro raggiunsi la coltivazione più ampia della fattoria, Luna di Miele. La piantagione ospitava originariamente novantanove piante e ne rimanevano ancora trenta, alte e rigogliose come alberi di Natale. La parte deforestata era stata ripulita, file di steli mozzi spuntavano dal terreno come barba incolta.

Luna di Miele era stata ricavata sul fianco della montagna e poco o nulla la divideva dalla foresta. Il sole appena spuntato dissipava lentamente il gelo mattutino. Gli operai scambiavano giacche e sciarpe con attrezzi di varia natura: guanti da giardinaggio, forbici, cesoie e bidoni neri della spazzatura.

Sarah, una novellina e mistica convinta, preferiva lavorare scalza. Il contatto diretto col terreno rafforzava il suo legame con le piante, sosteneva, aiutandola ad apprezzare il ciclo di vita dei fiori, il loro passato, presente e futuro, perché anche loro avevano una storia da raccontare, non tanto a parole ma in apparenza (colore, trama, dimensione, forma) e più tardi in essenza, quando il loro viaggio si concludeva nella mente di un uomo fortunato.

Sarah donava con generosità il proprio tempo ed era una fiera sostenitrice di una spiritualità anagogica: incarnava lo stereotipo della raccoglitrice di marijuana di Hollywood. Brianna e Dario non la sopportavano, ma rimaneva un caposaldo della squadra, al lavoro sei giorni alla settimana sui campi.

Essendo l’ultimo giorno di raccolto in quella piantagione, la squadra fece piazza pulita. Raccolse tutto ciò che poté, senza badare al livello di maturazione. Quando si fermarono per pranzo – muesli, arance, una pipa di Longshot – c’erano diciotto gradi. Le piante dei piedi di Sarah erano marrone di resina, e anche il collo del piede ne era ricoperto. «C’è chi pagherebbe oro per fumarsi anche quella» disse qualcuno.

Il fuoristrada di Dan era parcheggiato in una conca non distante dalla iurta. Un meccanico capellone che stava lavorando a una station wagon, un tizio convinto che le auto di oggi fossero più belle che funzionali, disse a Dan che il motore del suo furgone era andato e che avrebbe fatto meglio a salvare le parti ancora buone prima dell’arrivo dell’inverno. Impianto stereo e subwoofer, stimò, valevano più dell’intero veicolo.

Ethan non era convinto. «Ha fumato?» commentò. Ma prima aveva detto a Dan qualcosa del tipo, «Oh che disdetta! Sarà una bella spesa, quest’anno te ne vai a mani vuote». Talvolta sembrava dimenticarsi di essere proprietario e direttore di una piccola attività, nonché un milionario. O forse gli piaceva semplicemente mantenere quell’aria svanita. Era il suo stile. In ogni caso quel suo commento era rivelatore del fatto che, per quanto la fattoria fosse in apparenza la terra promessa, l’utopia di una comunità di anime pacifiche, quella terra e ciò che gli operai vi facevano erano una manifestazione del capitalismo. I salari erano paragonabili a quelli di una multinazionale. Ethan portava a casa duecento volte tanto quello che prendeva un rimondatore. Il personale amministrativo – Rob, Brianna e Dario, il supervisore degli operai e per certi aspetti anche Dan – riceveva, oltre alla paga mensile, dei premi di produzione, come forma di riconoscenza. I rimondatori lavoravano serenamente senza rivendicare alcun diritto sul prodotto né avere alcuna responsabilità riguardo a esso.

Alla sua prima stagione Dan non ebbe niente da ridire sul sistema. Più lavoravi, più guadagnavi, disse, e «Mi piaceva che mi chiamassero Dreamboat, che andassero pazzi per quello che cucinavo, che ogni sera ci fosse una festa e fosse pieno di ragazze sole».

Era il tipo giusto nel posto giusto. Quella era decisamente la piantagione più «figa» dei dintorni, dicevano i lavoratori, e dopo averne visitate altre dovetti dar loro ragione. Gli operai di quella fattoria ascoltavano il telegiornale e discutevano senza problemi di politica estera, di François Hollande, di agroecologia. Facevano battute intelligenti. Nel gabinetto si trovavano copie recenti del New Yorker e di Utne Reader accanto a riviste specializzate che ritraevano uomini a torso nudo alle prese con la natura. La domenica era la giornata dedicata alle escursioni, talvolta guidate da Ethan stesso. E collegata alla iurta c’era addirittura una doccia funzionante, un lusso che solo Humboldt vantava.

Altrove, in un’altra piantagione del Monte, avevo visto un gruppo di zingari drogarsi seriamente per restare svegli e continuare a lavorare senza sosta.

«Per questo Ethan riesce a pagare come paga» disse Dan. «I rimondatori qui fanno ottantacinque dollari al chilo. La media nel Triangolo è di cento al chilo. Nell’arco di una stagione può fare la differenza, ma da queste parti si vive meglio e la gente si mette in fila».

Come in altre coltivazioni di Humboldt, neanche gli impiegati di Ethan hanno spese extra. Vivono sulla terra che lavorano, nelle tende o, se anziani, in mini iurte. Da mangiare, da bere e da fumare (tutta la marijuana che vogliono e tabacco in quantità) sono inclusi. Sono gli operai a decidere i propri turni. Mangiano bene, perché Dan spende il proprio budget (2 dollari e venti a testa per pasto) per cucinare cene di tutto rispetto.

«Da altre parti è una tristezza» disse Melanie, che ha lavorato per vari coltivatori. «Qui è come stare in campeggio».

L’anno prima Dan sarebbe stato d’accordo. Ma adesso non era più tanto d’accordo. Il capo si era comprato una casa, un gatto delle nevi e una pala meccanica «e quando gli ho detto che avevo il furgone rotto» borbottò «mi ha risposto “Che palle, eh?”».

Ai piedi del Monte i festeggiamenti erano in pieno svolgimento. Si celebravano compleanni e si rendeva grazie agli dei del raccolto, che ogni stagione benedicevano quelle terre con ricchezze e anonimato. Il villaggio consisteva di un incrocio, un ufficio postale, un negozio di alimentari, una ferramenta e il bar in cui Ethan e compagnia stavano facendo baldoria. Poco prima una band di sei mariachi era giunta dalla costa per allietare la cena e tentare gli operai con un giro di danze. L’umore era alto. Dal momento che l’indomani doveva studiare, Ethan si ritirò a un’ora decente, lasciando al suo posto sul tavolo qualche banconota da venti. La notte era fredda e immobile; le giacche pendevano dagli schienali delle sedie; la squadra se ne stava seduta in cerchio all’aperto, a fumare, le mani libere infilate in tasca.

L’unico che non partecipava ai festeggiamenti era Greg, un vicino coltivatore. Seduto malfermo sul suo sgabello, un ceppo d’albero laccato, vestigia dell’epoca d’oro del legname nella zona, Greg ammoniva Ethan sul destino cui sarebbe andato incontro se non si fosse dato una regolata. «È troppo grande» diceva. «Vedo cinque, sei macchine che ogni giorno fanno su e giù dal Monte. E se le vedo io, le vedono pure gli sbirri». La sua attività rischiava di attirare l’occhio della legge, Greg se lo sentiva. Il messaggio per Ethan era, O mantieni un profilo più basso, oppure ci penserà qualcun altro a fartelo fare.

Nel Triangolo esiste un termine, hipneck, per indicare una combinazione tra l’hippy e il redneck – una strana unione, considerando che il primo si caratterizza per una generosa indolenza e il secondo per un bigottismo da colletto blu. L’hipneck, nella sua forma migliore, è un guardiano appassionato e cocciuto della filosofia liberale della California del nord. È indipendente, un custode della terra ma non dei suoi colleghi coltivatori.

«Greg non è mica preoccupato di una retata» disse Dan. Greg era invidioso di Ethan, che guadagnava dieci volte più di lui nell’arco di una sola stagione. Ciò nondimeno, quello non era un buon motivo per rovinare la festa. Dan non aveva dovuto cucinare, gli uomini si stavano sbronzando. C’erano una cosa come trentacinque proprietari di piantagione nel bar, trenta dei quali avrebbero dormito sul terreno di Ethan, quella notte. I presenti e la festa erano gli stessi che ci sarebbero stati alla iurta, ma qui, con un pubblico tanto ristretto, le cose si amplificavano, come la prima licenza a terra di cui mi parlava sempre mio nonno, uno squadrone sfinito dal mare che si riabituava alla civiltà.

Più tardi Dario e Brianna si misero a litigare nel parcheggio, circondati da maestosi furgoni Toyota con le maniglie delle portiere appiccicose di resina. La luna calò con eleganza dietro qualche cresta lontana. Dietro al bar c’era un bosco buio, dove si aveva la sensazione che un sentiero ancora non tracciato conducesse a un altro bar, uguale a questo ma su un’altra montagna, dove un’altra squadra di rimondatori faceva le stesse cose.

La mia ultima sera sul Monte si presentò senza preavviso un tozzo pick-up governativo con su scritto GUARDIA FORESTALE. L’autista parcheggiò davanti alla iurta ostruendo l’uscita, e lui e il suo passeggero rimasero a bordo, immobili, come in attesa di rinforzi. Sul cassone avevano un equipaggiamento da vigili del fuoco, il tettuccio era corredato da lampeggianti in stile polizia. Per il momento erano spenti, un segnale che, qualunque fosse il motivo della loro presenza lì, non era un raid.

I due non potevano vedere granché della coltivazione lì vicino, perché scendeva in picchiata verso il torrente, ma la iurta era ben visibile, strapiena di rimondatori che rimondavano e gente che dava loro supporto morale: un gruppo chiassoso, diciamo. Il raccolto era quasi concluso, un motivo valido sia per festeggiare sia per continuare a lavorare anche dopo cena. Anche Ethan era indaffarato con gli altri, il che era una rarità. Si era portato dietro un fusto nuovo e, invece di tornare in laboratorio – il piano superiore, quello inferiore e il suo loft erano infestati dalle piantine di marijuana appese a essiccare – si versò una birra. Se ne stava in mezzo alla iurta a tenere banco tra lo staff. Raccontava aneddoti, toccava la gente sulla spalla con atteggiamento fraterno. In momenti del genere, quando Ethan faceva l’amicone, riuscivi a scorgere il liceale che vendeva erba per fare soldi ma anche per avvicinarsi all’élite dell’istituto. Quella sua infanzia incerta traspariva dai suoi modi: Ethan faceva una battuta e poi si guardava intorno, inquieto, aspettando una reazione che gli avrebbe indicato come comportarsi.

Dario interruppe il lavoro – «È arrivato qualcuno che non conosco» – e portò fuori il suo capo. Ethan si ripulì dalla polvere di marijuana, delle cimette che gli erano rimaste tra i lacci delle scarpe, dalle foglie che si attaccavano ai vestiti. Da quando aveva avviato la coltivazione, giunta ormai al secondo decennio di vita, nessun veicolo che non fosse stato invitato aveva mai superato la serie di cancelli di ferro che proteggevano la sua proprietà. «Niente traffico, in nessuna circostanza» diceva Graham, uno dei veterani. Per arrivare alla iurta la Forestale aveva dovuto probabilmente tagliare le catene con le tronchesi e orientarsi in un labirinto di sentieri sterrati, nessuno dei quali compariva su nessuna mappa e neppure nei navigatori satellitari.

La profezia di Greg, ormai vecchia di settimane, sembrava sul punto di avverarsi. Era possibile addirittura che quel coglione li avesse denunciati. Ethan in effetti l’aveva umiliato: non solo non gli aveva dato retta, ma aveva perfino reclutato altri uomini. La sua fattoria era talmente affollata che non c’erano sedie per tutti, a cena. Mangiavano in piedi come i cavalli.

Mentre Ethan parlava con quelli della Forestale, i rimondatori si scambiavano perle di saggezza:

«Forse sono sotto copertura» (questo commento fu seguito da qualche battuta su di me, il «Narc»).

«Non sono sotto copertura, sono due idioti. Da queste parti in parecchi li accoglierebbero a fucilate».

«Ethan sta facendo la cosa giusta. L’aggressività non porta a niente».

«Hanno paura a scendere dal furgone, siamo quindici volte più numerosi di loro».

«Ho visto uno dei messicani correre nel bosco. Si sarà nascosto. Fa freddino là fuori».

Poi arrivarono le notizie vere, riferite da Ethan: erano una coppia di pompieri che si era persa. Cercavano di raggiungere un incendio lontano, avevano trovato aperto uno dei cancelli, erano entrati nella sua terra e avevano seguito un sentiero fino a lì, sperando di trovare una scorciatoia non segnata sulle mappe. Ethan disse che li avrebbe accompagnati fuori. Poi, con un gesto premuroso, telefonò a un coltivatore che viveva più in la sul fianco del Monte e gli disse che presto si sarebbe ritrovato in cortile un problemino federale.

Quando quei pompieri se ne furono andati, per prima cosa i rimondatori accesero un bel falò. Bruciarono alberi interi, botte dopo botte di steli di marijuana, un patio marcescente che Ethan si era stancato di vedere. Le fiamme crebbero alte come una casa di due piani, costringendo tutti ad allontanarsi.

I rimondatori parlavano di cosa avrebbero fatto alla fine della stagione, del raccolto successivo, delle vacanze a Bali, in Messico, Stoccolma, Normandia, nell’Oregon settentrionale. Alcuni valutavano di svernare in Colorado, per vedere come se la cavavano dove la marijuana era legale. Alcuni siti web pro-erba parlavano di tante opportunità di lavoro per rimondatori, tecnici, giardinieri.

Dan non aveva ancora deciso, ma sapeva che l’anno successivo non sarebbe tornato. Appena l’avessero pagato, lui e il suo furgone avrebbero abbandonato per sempre la fattoria. Si scoprì che il 4Runner aveva ancora tanti anni di vita davanti: Dan lo portò da un bravo meccanico che glielo riparò per novantasette dollari. Non c’era nulla che non andasse nel motore, a dispetto di quello che aveva detto il meccanico capellone. Il problema erano i connettori. Dan recuperò il furgone dopo ventiquattro ore.

Quando seppe la notizia Ethan, tornato dalla sua passeggiatina con quelli della Forestale, esclamò: «Visto? Te l’ho detto che non ci si può fidare dei fattoni!»

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Lee Ellis collabora con newyorker.com. Ha vinto l’Henfield Prize e, per il momento, vive a Parigi.

Titolo originale: Heart of the Emerald Triangle @ Lee Ellis, 2014, all rights reserved