Questo racconto è apparso originariamente su Hobart il 26 giugno 2017

Quell’anno lo chiamo «anno vagabondo» o «anno delle stazioni», o ancora «anno fortunato del topo». Era il 1996 e aspettavo il mio primo figlio, Boris. Boris dal cuore forte. Con il suo prossimo arrivo che mi martellava in testa come un evento improrogabile, mi svegliavo ogni mattina, preparavo un waffle, mangiavo il waffle, vomitavo il waffle e poi compravo un biglietto della metro che mi portasse da Winthrop Harbor a Union Station.

Sono sempre stata una ragazza di città, o almeno ne ho l’aspetto – o almeno diciamo che mi ci sento, con i miei piercing, i capelli verdi e i pantaloni larghi. Ero incinta di otto mesi e avevo una pancia talmente ingombrante che spesso mi chiedevano se aspettassi dei gemelli. No, rispondevo. Sono solo grassa. E la signora anziana con la permanente, o la ragazza che spingeva un passeggino doppio, mi guardavano come se avessi appena ammesso di essere uno zombie. E comunque mi ci sentivo, uno zombie, da quando il simboletto sul test di gravidanza era diventato azzurro.

Il sole mi dava tregua solo quando salivo sul treno armata di biglietto. Mi sedevo al piano di sotto, vicino al finestrino. Il pensiero di dover restare in un posto, una cosa che non mi ha mai dato fastidio prima, iniziava a turbarmi. Ora so che era colpa di Boris che si agitava dentro di me e mi impediva di mettermi comoda e rilassarmi, perché comodità voleva dire immobilità, immobilità voleva dire sicurezza e la sicurezza genera immobilità. Chiedete a Andy Warhol.

Da quando è nato, Boris non si è dato pace. Ha mosso i suoi primi passi al parco, vicino all’altalena, a nove mesi. Prima di compiere dieci anni si è rotto due volte il braccio sinistro, una cadendo da un albero, l’altra dalla bicicletta. Al liceo si è spaccato il naso durante una partita di calcio e l’indice giocando a lacrosse. È entrato nella squadra di tuffi ed è andato al ballo con un’artista di nome Sandy Walsh, che è rimasta incinta e ha abortito, perché avevano appena diciotto anni ed era stato un errore. Non ha chiesto a Boris se fosse quello che voleva. A ventiquattro anni mio figlio ha cominciato a fare parapendio e a ventisei è stato assunto come guida turistica in Florida. Ha chiesto a Jennifer Blaine – una bella bionda amante dell’interior design – di sposarlo sulla cima di una rupe a Ocala e lei gli ha detto sì. A ventisette una ventata l’ha investito a tre metri e sei secondi da un atterraggio perfetto, gli ha fatto perdere il controllo della vela e l’ha mandato a schiantarsi sull’asfalto. Cinque ore dopo il dottor Monroe del Florida Hospital ha dichiarato il mio Boris morto.

Prima che tutto ciò accadesse, me ne stavo seduta in silenzio sulla metro, dove mi dimenticavo perfino di me stessa. Per nove, lunghi mesi, avrei permesso a Boris di prendere possesso del mio corpo e lui l’avrebbe fatto senza esitare. Un uomo col berretto da controllore saliva a bordo gridando Biglietti! Biglietti!, bucava il mio con la punzonatrice e ogni volta, per le successive tre ore e trentotto minuti, andavo da qualche parte. Mi rilassavo sul sedile, appoggiavo le mani sulla pancia e chiudevo gli occhi, lasciando che il rumore ritmico del treno mi portasse via.

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Emily Pavick ha conseguito la laurea specialistica alla University of New Hampshire. I suoi scritti sono comparsi su Monkeybicycle e sul Boston Literary Magazine. Insegna letteratura all’università e dirige terapie di scrittura di gruppo per adulti affetti da malattia mentale.

Titolo originale: Security Breeds Stagnation @ Emily Pavick, 2016, all rights reserved
Fotografia @ Mariateresa Pazienza