IN CUI SI PARLA DI: Mary Rowlandson, Puritani, la spedizione Donner, la colonia della Massachusetts Bay, racconti di propaganda schiavista, Alexis de Tocqueville, il Ministry of Federal Star Registration, la comunità della non fiction, Cicero, Vivian Gornick, Susan Stamberg

Sebbene ammantati di una dorata patina di fattualità, sotto la superficie i memoir sono il regno della nostalgia ansiosa e dei ricordi confusi. Sicura di sé e allo stesso tempo titubante, Didion prende le distanze dai feticisti del fatto.

Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer numero 7, ottobre 2003

Il visconte Alexis de Tocqueville ci definì «una nazione di monumenti commemorativi». Lo disse appena cinquantacinque anni dopo la nascita dell’America, una decina prima che scoppiasse la guerra civile e più di un secolo prima che la Seconda guerra mondiale desse alla nazione, almeno così la giudicarono alcuni, una scusa per commemorare non solo i propri veterani, ma persino coloro che avevano semplicemente vissuto in tempi di guerra. Ciò nonostante de Tocqueville a quel punto aveva già visto abbastanza del nostro Paese da essere in grado di prevederne il futuro, ovvero il nostro presente, epoca in cui il numero dei monumenti ai caduti d’America – secondo uno recente studio dello United States Geological Survey – di fatto eccede quello dei suoi defunti civili di circa quattrocentomila. De Tocqueville aveva previsto le nostre 106.937 miglia quadrate di cimiteri, le nostre 79.893 miglia quadrate di monumenti nazionali e le nostre 75.381 voci sul Registro nazionale dei luoghi storici. Aveva previsto gli oltre due milioni di monumenti commemorativi che avremmo costruito in onore delle nove guerre che l’America avrebbe combattuto. E probabilmente, scrutando l’orizzonte ancora neutro del diciannovesimo secolo e strizzando le palpebre contro l’eventuale sole del mattino, aveva intravisto tutte le targhe di cui abbiamo disseminato le nostre statali, tutti i premi d’onore scolastici, tutte le croci di legno fatte a mano sui cigli delle strade, tutti gli attestati di riconoscimento, di partecipazione, tutte le panchine, gli edifici, le sale conferenza, i campi da football, i tabelloni segnapunti, i marciapiedi, tutti i libri di tutte le biblioteche dedicate ai caduti, tutte le stelle cui pagando abbiamo dato il nome dei nostri cari, dei nostri animali, dei nostri defunti figli e di noi stessi tramite il Ministry of Federal Star Registration, l’International Real Estate Star Corporation, l’Interstellar Sightings, Inc., e l’Universal Star Market, quattro di oltre una decina di compagnie americane online la cui somma delle entrate negli ultimi cinque anni ammonta a più di 225 milioni di dollari, per un totale di tre milioni di stelle nominate, sebbene solo seimila siano visibili nel cielo notturno e sebbene nessuna di queste compagnie abbia di fatto l’autorità di conferire tale diritto, secondo quanto affermato dalla International Astronomical Union, che invece ce l’ha. «Sommiamo tutti ciò che commemora ufficialmente qualcosa sul nostro territorio» mi ha detto di recente Bill Andrews, presidente dell’American Institute of Commemorative Art «e scommetto che scopriremo che negli Stati Uniti esistono già abbastanza oggetti commemorativi da poterne dedicare uno a ogni singolo americano che sia mai vissuto e che sia ancora in vita, e basterebbero anche per circa cinque generazioni di americani che ancora devono nascere».

E poi ci sono i libri.

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Secondo i critici letterari scriviamo memoir da molto più tempo di quanto ne abbiamo dedicato a scrivere qualsiasi altra cosa. Già nel 1639, nella neonata Colonia della Massachusetts Bay, esisteva una casa editrice, a distanza di appena dieci anni dal primo sbarco dei puritani sulle nostre rive. Per quarantatré anni pubblicò principalmente poesia inglese, edizioni economiche degli inni e pamphlet religiosi firmati dal clero puritano. Ma nel 1682, dopo anni di insistenze da parte del suo reverendo, una vedova quarantaquattrenne del Connecticut spedì alla piccola casa editrice un manoscritto di un centinaio di pagine che aveva nel cassetto da cinque anni, una riflessione sul suo rapimento nel 1676 da parte degli indiani Narragansett, che la catturarono dopo aver attaccato il suo villaggio. In quell’occasione sedici dei suoi concittadini rimasero uccisi, compreso suo padre, sua sorella e la figlia di sei anni. Altri venti vennero fatti prigionieri, tredici dei quali furono alla fine giustiziati. L’autrice, Mary Rowlandson, fu costretta a marciare scalza nella neve dal suo villaggio sulla costa, passando per le foreste del New Hampshire del sud fino ai sentieri di pietra delle Berkshire orientali. Undici settimane più tardi fu liberata in prossimità di Providence, al pagamento di un riscatto di quelli che oggi sarebbero circa 13 dollari.

«E ora dobbiamo seguire queste barbare creature, con i corpi feriti e sanguinanti e i cuori altrettanto» scrive. L’opera della Rowlandson, interamente composta in prima persona, era qualcosa di mai visto per l’epoca, e questo soprattutto per via del tono della narrazione. «Ah, come narrare dei canti, delle danze e delle grida di queste creature oscure che riempiono la notte» scrive,

e trasformano questi luoghi in un inferno. E che crudele sacrificio di cavalli, bestiame, pecore e maiali, vitelli, agnelli, polli, alcuni arrostiti, altri lasciati a marcire, altri ancora bruciati e bolliti per nutrire i nostri spietati nemici che se ne compiacciono mentre noi assistiamo sconsolati… Non possiedo più nulla – ho perso mio marito, i miei figli, i miei conoscenti e amici, la nostra casa, tutte le nostre piccole comodità, dentro e fuori. Non ho nulla, solo la mia vita, e non so per quanto ancora potrò dirlo.

In The New England Annals, una storia delle colonie americane scritta da Edmund Pastor nel 1699, si dice che i brani del libro della Rowlandson venivano letti ad alta voce durante i servizi religiosi provocando lo sdegno delle signore. Cotton Mather lo definì un libro «terribile e necessario». «Una tragica evocazione di Satana stesso» lo etichettò il saggista del XVII secolo Matthew Byles.

All’epoca della sua pubblicazione l’opera fu considerata un testamento puritano, in quanto ciò che vi si narrava mostrava la misericordia di Dio, che aveva risparmiato Mary Rowlandson e la sua volontà che il Nuovo Mondo fosse fondato sulla privazione, sulla fede e sulla totale obbedienza ai dettami religiosi.

Più o meno nello stesso periodo, nel Vecchio Mondo, gli olandesi coltivavano tulipani. René Descartes dichiarava: «Penso quindi sono». E grazie alle nuove colonie stabilite nel Nord Africa, in Europa entrava così tanto zucchero che per la prima volta, in tutto il continente, la gente beveva limonata. Ma qui, nel Nuovo Mondo, sebbene i coloni continuassero a stabilirvisi da due secoli, il premio non sembrava ancora valere gli sforzi. Jamestwon era stata abbandonata. In Florida non c’era oro e l’aspettativa media di vita dei coloni bianchi equivaleva ai due terzi di quella degli europei. Così, quando il libriccino di Mary Rowlandson fece la sua comparsa, il pubblico era pronto per una storia di trionfo personale.

Se si considera, ad esempio, l’impatto che l’AIDS ebbe sulla cultura americana del XX secolo inoltrato (approssimativamente cinquecentomila morti entro la fine degli anni Novanta, ovvero un decimo dell’un per cento della popolazione di allora), o quello della guerra civile sulla cultura americana di metà diciannovesimo secolo (seicentomila morti entro la fine degli anni Sessanta dell’800, ovvero il due per cento della popolazione), o ancora quello della poliomielite sulla cultura americana di metà XVIII secolo (duecentomila morti alla fine degli anni Quaranta del ‘700, ovvero il quattro per cento della popolazione), i trentamila prigionieri fatti dagli indiani al termine del XVII secolo – con una popolazione stimata dall’American Antiquarian Society intorno a ottomila bianchi nel 1680 – non erano certo cose di cui il comune cittadino fosse solo spettatore. Statisticamente parlando, poteva toccare a lui.

L’opera della Rowlandson, The Narrative of the Captivity, riscosse comprensibilmente un successo immediato. E nonostante all’epoca soltanto il cinquanta per cento circa della popolazione maschile bianca sapesse leggere – e il venticinque per cento di quella femminile – dopo un anno aveva già visto tre ristampe, con una quarta in arrivo a Londra, e aveva venduto un totale di 5500 copie soltanto nel 1682. A quei tempi la tiratura media di un libro ammontava a meno di seicento copie.

Questo, dunque, fu il primo vero best-seller americano. A detta di Frank Luther Mott, storico della letteratura popolare americana, non esiste alcuna copia superstite della prima edizione poiché, ipotizza, «furono tutte letteralmente divorate». La Rowlandson stessa pare fosse diventata così nota che al suo rientro dalla prigionia, la città in cui si stabilì, Wethersfield, nel Connecticut, le assegnò un premio di trenta dollari l’anno a vita. E la rilevanza della sua opera fu tale che nelle pagine finali delle ultime edizioni del libro si promuoveva la prima edizione americana delle commedie di Shakespeare. Dal XVII secolo si sono contate cinquantadue ristampe del libro e i critici lo enumerano tra i primi quattro best-seller della storia dell’editoria americana, due dei quali sono a loro volta racconti di prigionia presso accampamenti indiani.

«I nostri antenati non credevano nella finzione, che reputavano inaffidabile,» scrisse R.W.G. Vail in Voices of the Old Frontier «così si limitavano a veri resoconti di orrore sotto forma di confessioni sul letto di morte, storie di naufragi, di pirateria, di piaghe, torture, distruzione, e dell’onnipresente brivido della prigionia indiana».

Accanto al libro della Rowlandson, infatti, la Newberry Library di Chicago conserva più di duemila titoli che raccontano la prigionia. In California, agli inizi del XVIII secolo, i missionari pubblicarono per cinquant’anni consecutivi una sorta di annuario letterario, The Jesuit Reader, che conteneva nient’altro che storie di prigionieri degli indiani. Il più antico circolo di lettura americano, il Navy Club di Andover, nel Massachusetts, fu fondato nel 1777 e, secondo la sua dichiarazione di intenti, era inizialmente dedicato alla sola lettura di questo genere di storie. Perfino i libri della McGuffey Readers, la collana di testi di grammatica responsabile dell’istruzione di milioni di bambini americani, presentavano queste storie come modelli di stile, e si sta parlando del 1962. Questo genere di narrazione divenne così popolare che i primi racconti di Hawthorne, Poe e Melville si dice fossero modellati su questo esempio, e addirittura celebri opere contemporanee come L’ultimo dei Mohicani, Colomba solitaria e Balla coi lupi possono a buon diritto essere considerate eredi della cosiddetta captivity narrative.

Come ha notato un critico a noi contemporaneo, «in luogo della narrativa, questi libri stabilirono il canone per le storie che divennero il vero tormentone dell’epoca… gettarono le fondamenta di quella tendenza tutta americana a produrre “saggistica confessionale”».

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In inglese il termine «memoir» deriva dal francese mémoir, che a sua volta deriva dal latino memoria. È un termine così antico che perfino a quell’epoca il resoconto delle guerre galliche di Cesare veniva chiamato memoriae. «Sono le migliori memorie dell’accaduto di cui disponiamo» osservò Cicerone a proposito del libro. La presenza di questo termine su un libro, ancora oggi indica il fatto che si tratti di un documento di memoria storica, un ricordo di qualcosa cui si è sopravvissuti, un’esperienza che ormai è stato digerita, elaborata, compresa e che per questo ora può essere condivisa con gli altri. Un’esperienza che non si tenta di far rivivere – come nella tradizione lirica – né ci si limita a osservare – come in quella narrativa – ma che si storicizza, fedeli alla tradizione della favola morale. «Ciò che tramite questo abbiamo appreso» scriveva Cicerone delle memorie del suo contemporaneo «possano i nostri figli a loro volta apprendere». Che l’autore sia Mary Rowlandson, Jean Rousseau, Sant’Agostino o Giulio Cesare, la principale ragione per cui si compone un memoir, se non altro nel senso tradizionale, è informare i lettori delle proprie pene e insegnargli a superare le loro.

Ad ogni modo, ancor più radicata nel significato del termine memoir è una componente assai meno ottimistica. Contenuto nel latino memoria, infatti, è il termine del greco antico mérmeros, che deriva dall’avestico mermara, emerso dalla radice indoeuropea per indicare tutto ciò a cui pensiamo che non sia presente: mer-mer, ossia «preoccuparsi», «essere ansioso per qualcosa», «arrovellarsi». Agli albori della memoria umana il termine in questione mostra un atteggiamento molto meno sicuro di sé in confronto alla spensieratezza con cui i memorialisti dei nostri tempi plasmano i loro resoconti.

Secondo le sue origini, invece, il memoir è un’analisi di idee, immagini e sentimenti. È, nel migliore dei casi, un’esplorazione impulsiva, non la narrazione di una storia. Non fa del moralismo. Non ha a che vedere col sapere, l’imparare e nemmeno col teorizzare. Etimologicamente, alla base di ogni racconto della memoria risiedono angoscia, meraviglia e dubbio.

Ma, con i confini americani che si espandevano sempre più verso ovest e i sempre più frequenti scontri con gli indiani, i resoconti di prigionia del XVIII e XIX secolo iniziarono a insistere sulla rilevanza fattuale delle loro memorie, sottraendo enfasi all’esperienza di redenzione personale dei propri autori e ponendola sugli aspetti politici di maggiore interesse pubblico: quelli legati al Destino Manifesto. Le memorie, in un certo senso, divennero la voce della politica nazionale.

«La prima forma letteraria che gli scrittori americani padroneggiarono» commenta James Richards nel suo studio della forma, Captive Readers «fu anche la prima e migliore espressione della propaganda americana». Come spiega Richards i resoconti della prigionia dopo qualche tempo persero quell’elemento di intima spiritualità che aveva contraddistinto i loro primi esempi, e divennero veicoli attraverso i quali la «selvaggitudine» dei nativi americani poteva essere esagerata e giustificare così la volontà di sterminio dei coloni.

Nonostante la loro popolarità e rilevanza, tuttavia, le memorie del XVIII e XIX secolo mostravano tutt’altro che la verità. Come osservò lo stesso Benjamin Franklin nel 1797, «Sono stati più i prigionieri rimasti con gli indiani di quelli che hanno scelto di tornare». Come illustra nel suo studio Alice Wright dello Smithsonian Institute, quando gli indiani crescono tra i bianchi quasi sempre desiderano tornare; quando sono i bianchi a essere cresciuti tra gli indiani, invece, quasi sempre preferiscono restare. «I racconti brutali, per quanto numerosi,» osserva «probabilmente rappresentano la minoranza dei casi… potrebbero essere stata la prima forma autentica di letteratura americana, anche se di rado vengono considerati tali».

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La presunta autenticità è da sempre l’aspetto forte, in termini di vendita, di questo genere. In altri generi l’autenticità è un’idea che da Aristotele in poi si è evoluta nel più sofisticato concetto di mimesis – forse il concetto più dibattuto nel mondo della critica letteraria moderna. Nella saggistica il termine mimesis, tuttavia, viene quasi esclusivamente utilizzato per definire un aspetto molto meno letterario di quello che riguarda la poesia, la narrativa o la rappresentazione teatrale. In saggistica, mimemis significa veridicità: i fatti riportati nel testo sono verificabili o no?

Molti anni fa i fatti contenuti in Frantumi, best-seller tedesco e vincitore del Prix Memoire de la Shoah in Francia e del National Jewish Book Award in America, furono sottoposti alla suddetta analisi di veridicità quando Schocken Books, l’editore europeo delle memorie, scoprì che l’autore del libro, Binjamin Wilkomirski, non era un orfano ebreo tedesco sopravvissuto a due campi di concentramento nazisti, come l’autore stesso lasciava intendere nel libro, bensì uno svizzero di nome Bruno Doessekker, che non era né orfano né ebreo, ed era di certo troppo giovane per essere vissuto durante la Seconda guerra mondiale. La Schocken cancellò immediatamente gli eventi organizzati per promuovere il libro negli stati Uniti, ritirandolo dagli scaffali delle librerie di tutta la Germania e promettendo di rimborsare i librai che ne avevano fatto ingenti scorte. Dopo essere stato acclamato come «capolavoro» dalla critica europea il libro svanì nel nulla, perché i fatti che riportava semplicemente non erano fatti.

Ma, come chiesero i sostenitori dello scrittore in un comunicato stampa distribuito alla Fiera del Libro di Francoforte di quell’anno, «che cosa ha che vedere questo col valore letterario dell’opera?».

Nel caso specifico di quel libro, i fatti avevano tutto a che vedere con il suo presunto valore letterario, nonostante molte associazioni di ebrei americani continuassero a sostenere Frantumi anche dopo aver scoperto che era una storia inventata. «Racconta la nostra storia, il modo in cui gran parte di noi ricorda quell’esperienza» disse al New York Times una rappresentante dell’Holocaust Child Survivors Group di Los Angeles nel 1996. «Non importa se è stata l’esperienza di Doessekker o meno». Per i lettori i dettagli del libro – i ratti che si nutrivano dei cadaveri, i bambini che morendo di fame si succhiavano le dita fino all’osso – illustravano qualcosa che «dava la sensazione» di essere reale. Ma questo processo per cui una cosa inventata arriva a dare la sensazione di essere autentica solitamente è appannaggio esclusivo degli scrittori di narrativa. Del resto, che cosa differenzierebbe la non fiction dalla fiction se entrambi i generi fossero impegnati nella stessa impresa immaginativa, se entrambi trattassero i fatti come immagini invece che come regole, se entrambi mirassero a una verità che è più sentita che documentata?

Tali riflessioni sullo scopo di un genere non furono mai sollevate durante il caso Doessekker, tuttavia le due parti – quella che voleva vedere il libro come immaginativamente autentico e quella che lo voleva ipoteticamente vero – non sembravano incontrarsi mai. D’altro canto la decisione della Schocken Books di cancellare la pubblicazione di Frantumi non fece che confermare il ruolo della non fiction nella letteratura contemporanea come già era percepito, legando il giudizio di un’opera tale non a un discorso di arte ma di etica.

Un altro episodio, più recente, in cui l’etica ha determinato il valore letterario di un’opera di non fiction risale a quest’estate, durante una conferenza sulla scrittura in Maryland, dove la saggista Vivian Gornick ha affermato che alcuni dei ricordi riportati nel suo acclamato libro, Legami feroci, erano inventati. Inizialmente la notizia si diffuse nel mondo della non fiction sotto forma di diceria. Io stesso ricordo di aver ricevuto in Midwest, meno di ventiquattro ore dopo l’annuncio della Gornick, tre telefonate dalla costa est di tre persone che si sono dette, rispettivamente, scioccate, sconvolte e ancora scioccate dalla notizia. E di lì a tre settimane anche Fresh Air ha detto la sua alla National Public Radio: durante la trasmissione un recensore del libro ha dichiarato che l’atto di «disonestà» della Gornick equivaleva al plagio. «Sono scioccato» ha detto.

Nel frattempo numerosi e indignati scrittori di non fiction hanno sommerso di lettere curatori di siti web, giornali, riviste e programmi radiofonici. Si è spesso utilizzata l’espressione «contratto morale». Molti di coloro che avevano preso parte alla conferenza nel Maryland si sono fatti avanti per descrivere con dovizia di dettagli l’impassibilità con cui la Gornick aveva raccontato di essersi inventata dei ricordi e lo shock che questo aveva provocato in loro. La stragrande maggioranza autori delle lettere citava l’inaccettabile e «offensiva» frase finale del saggio breve composto dalla Gornick in risposta ai suoi detrattori: «il racconto della memoria manca ancora di un pubblico informato».

Se c’è una cosa che ho imparato in questi ultimi tre anni passati a scrivere non fiction è che agli scrittori di non fiction non piace sentirsi dare degli stupidi. Tuttavia quando sono i suddetti scrittori a minacciare la legittimità del genere letterario attaccando un’opera d’arte sulla base dei principi di «etica», «onestà» e «moralità», viene spontaneo mettere in discussione l’intelligenza di tali soggetti e domandarsi che cosa abbiano letto di questo genere, per essere così convinti di doverlo difendere moralmente.

Cicerone, il primo vero maestro della non fiction, illustrò in numerose lettere che vennero poi rese pubbliche come lui e i suoi contemporanei di frequente si inventassero fatti all’interno dei loro discorsi al Senato, discorsi che abbiamo ereditato e che rappresentano le fondamenta della cosiddetta «non fiction letteraria». «Per come la vedo io, è la forza dell’argomento ciò che conta di più,» scriveva Cicerone all’amico Attico e poi a un pubblico più ampio «non l’esattezza con cui lo si può provare». Daniel Defoe aveva cinque anni quando scoppiò la peste di cui scrive nel suo Diario dell’anno della peste. Thomas de Quincey era ancora alterato dai fumi dell’alcol quando le sue memorie di ex alcolista furono pubblicate. I compagni di scuola di George Orwell non si riconobbero affatto nelle descrizioni che di loro e di quegli anni aveva fatto il loro compagno. E Mary McCarthy, che scrisse oltre una ventina di acclamati memoir, si lamentò spesso della fallibilità della memoria durante la sua carriera. «Non esistono fatti» diceva Emerson. «Esiste soltanto l’arte».

Che uno scrittore di non fiction ritenga «offensivo» il desiderio di un altro scrittore di non fiction di avere un pubblico informato è dunque di per sé indice di ignoranza, considerato che lui stesso, che pur si dichiara «scioccato», fa con la sua non fiction ciò che i suoi colleghi fanno da oltre duemila anni.

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«Mi sento presa in giro» dichiarò Stephanie Carter alla Associated Press nel maggio del 2001, quando in seguito al suo reclamo il Dipartimento per gli Affari dei Consumatori dell’Illinois presentò all’Universal Star Market una multa di tremila dollari per «pubblicità ingannevole». La Carter spiegò che dopo aver ricevuto il suo «attestato» dall’Universal Star Market, aveva chiamato l’osservatorio locale per farsi aiutare a individuare la stella cui aveva dato il nome. Quando l’astronomo con cui parlò disse con noncuranza che nessun astronomo professionista si sarebbe mai riferito alla sua stella utilizzando il nome che le aveva dato lei – «Princess Di», una delle ben undici stelle che portano il nome della principessa britannica – la Carter rimase scioccata. «Avrebbero dovuto specificare che non era reale» disse. La mimesis in non fiction è anche uno strumento di marketing.

Si consideri, ad esempio, ciò che l’industria cinematografica chiama «la regola della non fiction», il fenomeno per cui alle attrici che interpretano personaggi realmente esistiti è garantita la vittoria di un Oscar. Tra i casi più recenti si annoverano Nicole Kidman con The Hours, Jennifer Connely con A Beautiful Mind, Marcia Gay Harden con Pollock, Julia Roberts con Erin Brockovich, Hillary Swank con Boys Don’t Cry, Angelina Jolie con Ragazze interrotte e Susan Sarandon con Dead Man Walking. Sette degli ultimi dieci Oscar alla miglior attrice sono stati assegnati ad attrici che interpretavano donne realmente esistite.

«Viene da domandarsi chi effettivamente si voglia premiare con un Oscar,» dichiarò uno dei produttori a Variety nel 2002 «se la singola attrice con la sua performance o la donna che l’attrice interpretava». Più interessanti dal punto di vista letterario, comunque, sono i modi in cui queste performance vengono giudicate. L’interpretazione di Jennifer Connelly di una donna vittima di un turbolento matrimonio e di violenti attacchi di schizofrenia, ad esempio, fu descritta nel 2001 sul New York Times come «coraggiosa». Dell’interpretazione di Julia Roberts, nei panni di una donna che convince gli abitanti di un piccolo paese devastato dal cancro a fare causa alla società elettrica locale, il Chicago Tribune disse nel 2000 che era «fonte di ispirazione». Quella di Hillary Swank di una giovane donna di una piccola città del Nebraska che subisce un brutale stupro e viene uccisa fu definita nel 1999 su Los Angeles Times, indovinate un po’, «brutale» e allo stesso tempo «triste».

E così via.

Prendendo in esame le migliori recensioni uscite di recente sui libri di non fiction, si può parimenti osservare che il successo della non fiction letteraria spesso guarda più ai particolari fatti riportati nell’opera – la malattia, l’incesto, la povertà, la depressione, lo stupro, il mal d’amore, la morte del cane di famiglia – che alle strategie impiegate dall’autore per drammatizzarli; più che a «come» questi fatti vengono raccontati, al lettore interessa solo il «chi», il «cosa», il «dove», «quando», «perché». Al lettore interessano solo i fatti.

Il celebre memoir in cui Dave Eggers narra la condanna di dover crescere il fratello minore dopo la morte dei genitori, ad esempio, nel 2002 veniva descritto sul Toronto Star come «una meravigliosa condanna». Quando Mary Karr narra della sua cruda infanzia nella ruvida Leechfield, nel Texas orientale, insieme alla famiglia e agli amici, The Nation scrive «un libro crudo e ruvido».

Quando Frank McCourt narra la sua violenta infanzia a Limerick, in Irlanda, il Detroit Free Press scrive «Un libro violento». A dire il vero quasi tutte le recensioni del libro insistono nel collegare le caratteristiche della sua prosa direttamente alle condizioni della sua infanzia, come accade ad esempio in quella apparsa su The Clarion Ledger – «Frank McCourt è stato all’inferno, ma nel suo cuore ha trovato degli angeli» – o su USA Today – «La memoria di McCourt per i dettagli della sua terribile infanzia è qualcosa di straordinario» – o sul Boston Globe – «Una storia talmente immediata, talmente travolgente nel suo dramma quotidiano e nel suo micidiale umorismo, che vorresti ringraziare dio che Frankie McCourt sia sopravvissuto per scriverla».

Questo è un pericolo in cui incorrono tutti i generi, ma solo la percezione della non fiction come letteratura sembra limitata esclusivamente a giudizi di valore così basati sui fatti. Ad esempio non ci sarebbe nemmeno bisogno di analizzare le recensioni per capire che questo genere di libri viene venduto, letto e giudicato principalmente sulla base delle informazioni che contiene. Bisogna invece osservare come la non fiction viene presentata al pubblico, come si desidera che venga recepita. Quando è stata, in questo senso, l’ultima volta che è comparso un sottotitolo in un romanzo di Philip Roth? O di Don DeLillo? O di Cormac McCarthy? E se è per questo, quando è stata l’ultima volta che sono stati utilizzati dei sottotitoli esplicativi per autori di narrativa considerati più «commerciali»? Perché non si legge Il socio: una storia di redenzione personale nell’ambito di un corrotto studio legale del Sud? O Paura di volare: come diventare una donna sessualmente consapevole frequentando europei e analizzando i loro gabinetti? O Carrie: sul perché essere gentile è tanto importante? E perché non c’è ombra di sottotitolo sulle ventitré copertine delle raccolte di poesie di John Ashbery? O su quelle dei libri di Jewel, Paul McCartney o dell’ex presidente Jimmy Carter? Perché non La terra desolata: una riflessione sul caos della nostra quotidianità? Oppure Odissea: come trovare la via di casa attraverso un viaggio spirituale dentro se stessi? O ancora Beowulf: un manuale di sopravvivenza?

Perché aggiungere per forza Una biografia?

Una storia vera?

Tratto da una storia vera?

Ispirato a fatti realmente accaduti?

O La vera storia della prigionia e della liberazione della moglie di un pastore del New England, in cui si narra dei disumani soprusi da lei patiti per mano di selvaggi crudeli e spietati nell’arco di undici settimane, compreso il momento del rilascio; scritta di suo pugno, per uso privato, e ora resa pubblica per il volere di alcuni amici e a beneficio degli afflitti, questa storia giunge al lettore corredata di un sermone sulla possibilità che Dio salvi chi Gli è sempre stato caro e fedele, scritto da Joseph Rowlandson, marito dell’autrice?

Dopo il titolo del nuovo libro di Joan Didion non compare alcun sottotitolo.

Questo, basandosi sulle regole della non fiction, può significare solo due cose: che non si tratta di non fiction o che si tratta di non fiction di altro genere.

Where I was From è una meditazione sulla California, proprio come Salvador lo è su El Salvador e Miami su Miami. Il libro è più un insieme dei modi con cui la California è inconoscibile come soggetto, piuttosto che un tentativo di estrapolare un significato da un luogo. «Ormai avrete capito, probabilmente,» scrive la Didion verso la fine della prima parte «che questo libro rappresenta un’esplorazione delle mie personali confusioni su quel luogo e sul modo in cui sono cresciuta, confusa sia sull’America sia sulla California. Le incomprensioni e i qui pro quo sono una parte della persona che sono oggi, e lo sono a tal punto che riesco ad affrontarli soltanto in maniera indiretta».

In altre parole, in Where I was From non ci sono risposte. Nessuna lezione, nessuna fiaba moderna, niente morale, nessuna tesi o verità. Il libro elenca un’impressionante serie di fatti, statistiche e citazioni relative alla California, certo, ma l’unico dato che si può considerare davvero utile alla causa dell’opera è che nessuno di questi è affidabile. Come il suo argomento, perciò, il libro in superficie finge di avere uno scopo importante: i dati sono impeccabili come sempre, il tono è rispettoso, le frasi sono messe al servizio della comprensione. Tuttavia la California, di per sé, resta «indiretta».

Quello che risulta evidente, invece, è lo sforzo compiuto dalla Didion per capire quel posto, una motivazione strutturale non certo nuova alla scrittrice e che racchiude un tema da lei affrontato in molti dei suoi libri precedenti.

E quindi perché adesso una scrittrice il cui lavoro esamina da sempre i limiti stessi della narrativa di carattere personale sceglie di scrivere un libro sulla meditazione personale?

All’inizio della carriera Joan Didion accennò al New York Times, in un’intervista, di essere impegnata a lavorare a due opere: un romanzo non meglio precisato sulle Hawaii – “molto rosa e dal profumo di fiori” – e un libro di non fiction sulla California, intitolato Fairytales. Considerato che Salvador è venuto fuori da un viaggio di due settimane in America Centrale con il marito e che Miami è nato da tre saggi scritti nell’arco di tredici mesi per il New York Review of Books, i ventisei anni che sono passati dal primo accenno della Didion a voler pubblicare un libro e l’uscita di Where I was From portano a credere che questa sia un’opera la cui mancanza di risposte sia stata molto difficile da concepire. «Non voglio fare cose che non so fare bene» commentò una volta la scrittrice in un’intervista. «Quello che mi interessa è avere il controllo totale» scrisse altrove a proposito del suo lavoro. Eppure «Non c’è un vero modo per interiorizzare ciò che perdiamo» è la frase che conclude quel suo ultimo libro.

«In California ci sono molte cose che non tornano» scrive. E così, come i protagonisti delle storie della California inventano ed ereditano svariati miti, anche la voce narrante della Didion esamina una storia che, molto probabilmente, non è mai stata tale. «La gravità della svolta decisiva richiede un approfondimento» scrive. «I dettagli in conflitto vanno risolti, rimodellati in un tutt’uno plausibile. I ricordi che sbiadiscono vanno registrati come vangelo. I bambini considerano dati di fatto della loro storia personale e culturale fatti che né loro né i loro genitori potevano conoscere…»

Questo, dunque, è un libro su ciò che non è possibile conoscere.

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«Ho l’impressione che non riceverà mai un Premio Nobel per la letteratura» disse Susan Stamberg alla Didion una sera alla National Public Radio. Quella predizione fu fatta in riferimento a quello che la Stamberg percepiva come un costante «pessimismo» nelle opere della Didion. La scrittrice si dichiarò d’accordo con la predizione, meno con la motivazione: secondo lei il «pessimismo» di cui parlava la Stamberg era più un rifiuto ad accettare, come aveva da poco scritto in The White Album, «la più fattibile tra le scelte multiple… l’imposizione di una linea narrativa… le “idee” con cui impariamo a congelare quella fantasmagoria mutevole che è la nostra esperienza del reale».

«Finora la mia vita adulta è stata una successione di aspettative e percezioni sbagliate» disse la Didion durante quel programma radiofonico. «Ho avuto a che fare soltanto con un’idea che avevo del mondo, non con il mondo di per sé. Ma alla fine la realtà interviene, eccome».

La realtà con cui la Didion si ritrova a fare i conti alla fine di Where I was From ci porta a credere che dovrebbe essere in grado di scrivere della California, come minimo come qualsiasi altro scrittore a lei contemporaneo. Eppure, la Didion la pensa diversamente. Ci dice che la sua bis-bis-bisnonna si spostò a ovest con la spedizione Donner. Che imparò a nuotare nel fiume Sacramento, e a guidare lungo i suoi argini. Ci spiega come il primo vero saggio che abbia mai scritto sia stato il tema all’inizio della terza media, «La nostra eredità californiana». Sappiamo che ha scritto un formidabile saggio sulla San Francisco degli anni Sessanta in Verso Betlemme e un formidabile saggio sulla Los Angeles degli anni Settanta in The White Album. Ha scritto romanzi acclamati come «canzoni d’amore» dedicati a quello Stato, e tornò a finirli tutti, uno dopo l’altro, nella sua casa d’infanzia a Sacramento. Andò a scuola in California, crebbe i figli in California, ci seppellì animali domestici, amici e famigliari. Ciò nonostante, «la California resta in un certo qual modo impenetrabile, per me» scrive. A titolo di esempio, la prima volta che tentò di informarsi davvero su quel posto trovò un lungo studio critico che ne parlava ma, quando scoprì che lei stessa veniva inserita tra le luminari californiane, ci rinunciò immediatamente.

Se Joan Didion non dovesse mai vincere il Premio Nobel per la letteratura, accadrà non perché non si fida del mondo, ma perché al massimo non si fida dei fatti del mondo.

Fatti che, tuttavia, sono positivi in quanto Where I was From è un’esplorazione stilizzata della «storia» e, di conseguenza, un «memoir» – le due categorie sotto le quali il libro viene pubblicizzato. Questo insieme dà vita a un’esplorazione nella quale l’esperienza dei vari significati (e della mancanza di essi) della California viene riproposta tramite la forma, piuttosto che tramite i fatti.

Per esempio, in una discussione sulla fiorente industria aeronautica della California del sud, la Didion include una fabbrica di assemblaggio e tutti i suoi operai nel suo catalogo descrittivo, fornendo informazioni approfondite:

Sono gli ultimi lavoranti medievali, e lo spazio in cui lavorano, le gigantesche strutture dai pavimenti bianchi immacolati, gli enormi macchinari, le telecamere sul soffitto, i poster dei progetti e le bandiere degli acquirenti stranieri, diventano le cattedrali della Guerra Fredda, visitate di tanto in tanto ma mai del tutto aperte ai non iniziati.

Oppure, in una discussione su un buco per una piscina che lei e suo fratello non scavarono mai in giardino, in un’epoca in cui le piscine iniziavano a definire il paesaggio californiano, la Didion ci presenta le informazioni in sequenza, in una frase periodica…

Avevo cinque anni più di Jim ma dubitavo che lui o io potessimo scavare un buco di sei metri per dodici e profondo tre, come dubitavo altresì che nostro padre – avesse dovuto un buco del genere materializzarsi per miracolo – avesse la minima intenzione di dar seguito alla cosa (per come la vedevo io si sarebbe limitato ad aprire il tubo dell’acqua, ma niente cloro, niente filtro, niente piastrelle). Perciò mi rifiutai di scavare.

Oppure, in una discussione sugli «Spur Boys» di Lakewood, una gang della California del sud accusata di aver stuprato diverse dozzine di liceali nei primi anni Novanta, la Didion ci presenta una serie di informazioni ridondanti senza risparmiarsi accuse evidenti…

“Credo che la gente stia gonfiando questa cosa al di là di ogni ragionevolezza” disse uno degli Spur a David Ferrell del Los Angeles Times. “Per quanto mi riguarda l’avete gonfiata anche troppo” disse un altro. “Certo, ci sono stati diversi scandali sessuali all’epoca, perciò è una storia assolutamente normale che è stata gonfiata all’inverosimile” mi disse un genitore di uno degli Spur. “Sa com’è, la gente ha gonfiato la cosa” disse uno degli Spur ai telespettatori del Jane Whitney. “L’hanno gonfiata all’inverosimile” disse un altro nello stesso show. Una delle loro fidanzate, “Jodi”, chiamò in trasmissione per offrire la sua opinione: “Credo che l’abbiano gonfiata all’inverosimile. Ma proprio all’inverosimile, davvero”.

E poi ci sono le liste della spesa:

C’era un tavolo Vittoriano ovale con il ripiano di marmo che era arrivato a mia madre da qualche ramo della famiglia, non ricordo più quale. C’era un baule di teak intagliato che riposa in camera dei miei sin da quando ero piccola. C’era un piccolo tavolino rotondo che era appartenuto a mia nonna. C’era, tra i vestiti di mia madre, un mantello italiano d’angora che portava sin da quando gliel’aveva regalato mio padre, un Natale di fine anni Quaranta.

Liste che sembrano più utili al tono delle frasi che all’argomento in questione. Sono più un tentativo di rivivere qualcosa che di dimostrarlo, una ricerca dei termini con i quali, forse, arrivare a dare un senso all’esperienza. Nel passaggio sopracitato, ad esempio, la madre della Didion è morta da poco, e l’autrice si trova inevitabilmente a catalogare tutto in una serie di liste che alla fine danno vita a un’elegia che sorprende per la sua pateticità.

È un impulso che pervade l’intero libro. C’è una certa disperazione stilistica in tutte queste liste, come se l’utilizzo, ad esempio, di una frase periodica, potesse garantire che il lettore non abbandonerà la scrittrice finché non avrà detto quello che ha da dire, finché non si sarà schiarita le idee, finché non avrà capito che il significato dei suoi ricordi non è il punto centrale di questa biografia. Questo è un memoir ansioso, confuso, che si preoccupa di dettagli insignificanti. È una biografia che, al posto della sicurezza in se stessi, fa provare un’esperienza formale di confusione – la messa in atto del ricordo stesso.

«Oh don’t you wish that you could hear them ring» ricorda la Didion. Cantava questa strofa insieme alle sue compagne scout in visita a un manicomio californiano, il ricordo del quale scatena, nella penultima sezione del libro, l’ultima e più delirante lista di tutte, una serie di riferimenti disperati ad alcuni dei fatti più documentati di tutto il libro, messi però al servizio dell’emozione pura:

Incerti, uno dopo l’altro, solo i più forti o ignari tra noi riuscivano ad andare avanti in presenza dei disagiati, degli irrimediabilmente perduti, degli abbandonati. O noi o loro. E chi di noi in quella veranda non sarebbe regredito, per usare le parole di Royce, a quel “nuovo grado di noncuranza”, quella “cecità al dovere sociale precedentemente sconosciuto”? Chi di noi in quella veranda non avrebbe abbandonato miss Gilmore e suo fratello a Little Sandy? Chi di noi in quella veranda non avrebbe condiviso, a un certo punto, la vergognosa ma radicata convinzione secondo cui essere deboli o scomodi significava l’abbandono? Chi di noi in quella veranda avrebbe visto il serpente a sonagli, ma senza ucciderlo? Non erano proprio abbandoni di quel genere il cuore e l’anima delle storie di viaggio? Scarica la zavorra. Continua a muoverti. Seppellisci i morti lungo la via e passaci sopra col carro. Mai rimuginare su quello che ti sei lasciato alle spalle, mai voltarsi indietro. Ricordate, aveva detto Virginia Reed a noi attenti bambini californiani – noi che ci eravamo allenati sin dalla prima infanzia a sopportare gli orrori che lei aveva subito – mai prendere scorciatoie, e correte più che potete. Una volta a Lake Tahoe mi sono sentita in dovere di istruire i figli piccoli di mio fratello sulla terribile lezione della spedizione Donner, in caso lui avesse pensato di risparmiargliela. “Non te ne preoccupare” si era detta Patricia Hearst, un’altra attenta bambina californiana mentre se ne stava chiusa in uno sgabuzzino, prigioniera dei suoi rapitori. “Non rimuginare su quello che provi. Non farlo mai, non è per nulla d’aiuto”.

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John D’Agata è autore di Halls of Fame.

Titolo originale Joan Didion’s Formal Experience of Confusion @ John D’Agata, all rights reserved
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