Questa intervista è apparsa in esclusiva sul sito web di The Believer, settembre 2014

Il secondo romanzo di Ben Lerner, Nel mondo a venire, è narrato da un autore trentatreenne di Topeka, Kansas, che vive a Brooklyn, New York. Nelle prime dieci pagine veniamo a sapere che di recente ha ricevuto notizie importanti dal suo agente letterario e dal suo medico. Dal primo è venuto a sapere che grazie a un racconto pubblicato sul New Yorker, riceverà un «bell’anticipo a sei cifre» sul suo prossimo libro («Dovevo solo promettere di trasformarlo in un romanzo»). Dal medico scopre invece che a causa di una «dilatazione potenzialmente aneurismatica» della radice aortica, potrebbe morire in qualsiasi momento («Evento a cui associavo, sia pure a torto, l’immagine di un tubo di gomma impazzito che mi spruzza sangue dentro il sangue; prima di accasciarmi, negli occhi mi compare uno sguardo distante, come se ecc. ecc.»). Veniamo anche a sapere che sta valutando la richiesta della sua migliore amica Alex di donarle il suo sperma per concepire un figlio, e che sta collaborando a un libro «sulla confusione scientifica riguardo al brontosauro» con Roberto, un bambino di otto anni che frequenta una scuola bilingue del posto. Sia il racconto pubblicato sul New Yorker, «The Golden Vanity», che il libro sui brontosauri, Verso il futuro, compaiono in Nel mondo a venire.

Ho intervistato Ben per The Believer tre anni fa sul suo primo romanzo, Un uomo di passaggio, e in un certo senso mi sembra che quell’intervista sia una prima parte e questa il seguito. Nell’introduzione alla prima intervista scrissi che, a ogni nuovo libro di Ben, avevo sempre più l’impressione che la sua opera fosse costituita da un singolo lavoro, già completo, che veniva pubblicato in più parti. In seguito all’uscita di Nel mondo a venire, invece, ho iniziato a immaginare l’opera di Ben come una raccolta di risonanze frattali che attraversano realtà diverse, di pattern di interferenza tra vita e finzione, poesia e prosa, romanzi e saggi e storie, sensazione e immaginazione, passato e futuro, immagini da film di finzione e fotografie di realtà concrete, storie fattuali all’interno di racconti immaginari e storie immaginarie all’interno di culture globali, e così via, che danno vita a interazioni sempre più complesse in cui tutto è connesso e influenza tutto il resto, pur non determinandolo. Il tutto organizzato da Ben a generare un effetto, a mio parere, toccante e ogni volta sorprendente. L’ intervista che segue è stata realizzata tramite chat di Gmail e editata per chiarezza tramite email.

— Tao Lin

I. IL CONFINE LABILE

THE BELIEVER: L’ultima volta che ti ho intervistato, prima dell’uscita di Un uomo di passaggio, eri a Marfa, in Texas (una località che compare nel tuo nuovo romanzo). Dove sei ora?

BEN LERNER: A Lawrence, in Kansas, in visita dai miei genitori. Fa più caldo che a Marfa, siamo in pieno deserto. Quasi quaranta gradi. Ma è bello, di notte ci sono tantissime lucciole giù al fiume,  non quelle tre o quattro che vedo a Prospect Heights. Mi sembra che siano sempre le stesse a Brooklyn, che brillano anemiche.

BLVR: Sei solo o con moglie e figlia?

BL: Ci siamo tutti. La piccola sta dormendo qua vicino, ho appena finito di leggerle una storia.

BLVR: Cosa le hai letto?

BL: Come alla maggior parte dei bambini che conosco, le piace Goodnight Moon. È un libro strano, con la pagina bianca che dice «Buonanotte nessuno», quella che dice «Buonanotte aria», salutando quello che non c’è. Ho notato che tutti i libri per bambini più famosi sono abbastanza autoreferenziali. Intendo i classici, non solo i più moderni, come Siamo in un libro, ecc.

BLVR: In che senso autoreferenziali?

BL: Oh, ad esempio il Gorilla in Buonanotte, gorilla! guarda fuori dal libro, verso il lettore. In Goodnight Moon ci sono due quadri sul muro: uno di una mucca che salta sopra la luna e uno con tre piccoli orsi seduti su delle sedie. Ma il primo appare anche nel secondo, appeso sopra gli orsi (tra l’altro, mi piace molto, in Buonanotte, gorilla!, il modo in cui il palloncino lasciato andare nella prima pagina scompare in lontananza nelle pagine successive. È un bel modo di raffigurare il tempo, e lo stesso oggetto in movimento, il palloncino, è rappresentato in un altro dei libri di Peggy Rathman, Dieci minuti e vai a letto, quindi l’azione nei due libri è simultanea. Sono stati mai scritti due romanzi che si svolgono contemporaneamente? Forse qualcuno dovrebbe provare).

BLVR: C’è qualcosa di simile nel tuo romanzo, o meglio, nel racconto del New Yorker all’interno del tuo romanzo. Non un palloncino, ma una lampada a Brooklyn.

BL: Vero.

BLVR: Citiamolo.

«Era come se la fiammella del lampione a gas davanti al quale si era fermato stesse bruciando contemporaneamente nel presente e in diversi passati, nel 2012 ma anche nel 1912 o nel 1883, come se fosse un’unica fiamma che guizzava simultaneamente in ciascuna di quelle epoche, collegandole. Gli sembrò che tutti coloro che si erano mai fermati davanti al lampione, come stava facendo lui, fossero per un attimo suoi contemporanei, che stessero tutti osservando lo stesso punto tumultuoso dei loro rispettivi presenti. Poi immaginò il suo narratore di fronte a quel lampione, immagino che il lampione attraversasse mondi e non solo anni, che l’autore e il narratore, pur non potendo guardarsi in faccia, potessero intuire la presenza l’uno dell’altro guardando la stessa luce, in una sorta di corrispondenza».

BLVR: Come in questo passaggio, anche in Nel mondo a venire c’è un sovrapporsi di livelli narrativi, un’abbondanza di «metanarrazione». In che modo ti affascina?

BL: Solitamente il termine «metanarrazione» lo considero applicato a opere che smascherano i loro espedienti narrativi, la loro artificialità, con l’intento di sbeffeggiare le convenzioni narrative e mostrare l’impossibilità di catturare una realtà esterna al testo, o qualcosa del genere. A me non interessa questo aspetto. La maggior parte di noi al giorno d’oggi parte da quella posizione di ironia, e quello che volevo fare, quello che sentivo di dover fare per scrivere un altro romanzo, era andare nella direzione della sincerità. Voglio dire che l’autoreferenzialità del mio romanzo è un modo per esplorare i modi in cui le storie funzionano nelle nostre vite, nel bene e nel male, e non un modo per deridere l’incapacità della finzione letteraria di entrare in contatto con qualcosa al di fuori di essa. La mia preoccupazione riguarda il nostro modo di vivere le storie, il modo in cui le storie hanno effetti reali, diventano fattuali, e come la nostra esperienza del mondo cambia a seconda della sua sistemazione in una narrativa o in un’altra.

BLVR: Credi che Un uomo di passaggio sia ironico? Pensavi di doverti discostare da quell’ironia con Nel mondo a venire?

BL: È ironico in un modo che non rinnego, per il modo in cui Adam Gordon arriva alla verità attraverso il suo opposto: è così apertamente onesto riguardo la propria disonestà che sfiora la sincerità. Ma non volevo scrivere un altro libro sulla fraudolenza. I due libri sono chiaramente legati, e questo in parte tiene traccia di come quella storia è diventata un fatto della mia vita, ma fondamentalmente il legame sta nella loro diversità, dal momento che il secondo narra di un allontanamento dal primo.

BLVR: Nel mondo a venire è esplicito a questo riguardo. Descrive il graduale rifiuto dell’autore a scrivere un altro libro basato sulla menzogna. Il narratore ottiene un anticipo per ampliare il racconto pubblicato sul New Yorker, trasformandolo in un romanzo riguardante la falsificazione della corrispondenza, la creazione di un archivio di lettere di autori defunti. Ma non è quello il libro che scrive.

BL: E accetta l’anticipo (basato sul successo del suo primo romanzo), in modo da poter finanziare i trattamenti per la fertilità della sua migliore amica. Quindi, all’inizio, vende un romanzo riguardo un passato falso per riuscire a finanziare un possibile futuro. Ma alla fine non vuole che la sua arte o la sua amicizia con Alex, o un bambino, siano sponsorizzati da una macabra truffa sul passato. Per questo buona parte del romanzo racconta del modo in cui sostituisce quel libro con questo, con Nel mondo a venire. «Non quello sulla fraudolenza che mi ero impegnato a scrivere, ma quello che ho scritto al suo posto per voi, a voi, al margine estremo della finzione letteraria», dice verso la fine.

BLVR: Mi piace questa frase, va bene sia per il narratore che descrive Nel mondo a venire dall’interno del romanzo, sia per te, Ben Lerner, che descrivi il tuo romanzo dall’esterno.

BL: Già, il confine della finzione è labile.

II. IL MONDO A VENIRE

BLVR: Dove sei?

BL: A Seattle, in visita alla famiglia di mio fratello.

BLVR: Hai visto lucciole?

BL: No. Ci sono lucciole sulla costa occidentale? Non ne ho mai viste quando vivevo in California.

BLVR: Chissà perché.

BL: Ho appena cercato su Google, e secondo firefly.org «non si riscontra quasi alcuna specie di lucciola a ovest del Kansas, nonostante ci siano zone a clima caldo e umido a ovest. Nessuno è sicuro del perché». Mi sono appena ricordato di un sogno ricorrente sulle lucciole.

BLVR: Com’era?

BL: Quando eravamo ragazzini e giocavamo a baseball ci mettevamo sotto gli occhi quella roba nera, quella specie di grasso che si usa per ridurre il riverbero o qualcosa del genere. Ovviamente lo usavamo solo per fare i fighi, non migliorava in alcun modo le nostre prestazioni sportive da preadolescenti. Ma ricordo che facevo questo sogno ricorrente in cui giocavamo una partita in notturna e al posto del nero avevamo schiacciato le lucciole e ci eravamo messi quella poltiglia luminosa sotto gli occhi, per cui le nostre facce brillavano al buio.

BLVR: C’è un verso a riguardo nel tuo primo libro di poesie, The Lichtenberg Figures.

BL: Davvero?

BLVR: «… schiacciamo gli effervescenti addomi delle lucciole / facendone mascara per il cadavere dalle lunghe ciglia».

BL: Wow, strano. Uso persino lo stesso verbo.

BLVR: Ma torniamo al futuro. L’epigrafe di Nel mondo a venire è una storia chassidica sul «mondo a venire», il mondo redento, che sarà proprio come questo, solo un po’ diverso: dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, porteremo addosso anche di là. Quest’idea ricorre su molti livelli nel tuo libro – quando il narratore regge un barattolo di caffè solubile alla vigilia di una tempesta, quando riflette sul tempo in The Clock di Christian Marclay, quando osserva un pezzo di «totaled art». Così facendo evoca l’idea di un mondo che è solo leggermente diverso, ma in qualche modo completamente trasformato. Cosa pensi di questa parabola?

BL: Penso che la parabola sia un modo per dire che la redenzione è immanente, sia essa imminente o meno, che il mondo a venire in un certo senso è già qui anche se non lo possiamo vivere. Penso che sia un’idea potente per varie ragioni. Primo, è un antidoto contro la disperazione. Molti degli intellettuali di sinistra che ritengo importanti, che hanno contribuito a formare una grande parte del mio pensiero riguardo la politica e l’arte, pongono l’enfasi sulla totalità del capitalismo, sull’impossibilità di una fuga, sull’inesistenza di qualcosa al di fuori di esso. Sappiamo cosa intendono dire: ogni relazione può sembrare saturata dalla logica di mercato o, nel migliore dei casi, comprata al prezzo dell’immiserimento altrui. Ma sono sempre più vicino alle tesi di pensatori come David Graeber, che rispondono a questa nozione di totalità ponendo l’accento sui momenti del nostro quotidiano che rompono – o comunque ne avrebbero il potenziale – la logica del profitto e le modalità di dominazione che comporta. Sono zone di libertà, anche se mai pura. E mi piace pensare a quei momenti come a frammenti di un mondo a venire, un mondo in cui il prezzo non è l’unica misura del valore.

BLVR: Mi piace che il tuo libro eviti il tipo di disperazione a cui hai accennato, l’enfasi di certi intellettuali di sinistra sull’impossibilità di una fuga dal capitalismo.

BL: La disperazione mi sembra estremamente ragionevole e noiosa. Non ho pazienza nei confronti degli artisti la cui occupazione primaria consta nell’articolare l’impossibilità della loro arte, che in un certo senso mercificano la melanconia – proprio come non ho interesse per gli artisti puramente affermativi, che hanno reso della stupidità della cultura un feticcio commercializzato (Balloon dog e via dicendo). Penso che il piacere sessuale e lo strano colore del cielo dopo una tempesta, o la fila di luci posteriori delle auto lungo il fiume o il modo in cui il silenzio può diventare più sottile o più spesso prima dell’attacco della musica, sono tutte cose che devono essere sfruttate, imbrigliate dal politico. Il libidinale deve essere imbrigliato dal politico.

BLVR: Cosa definiresti «letteratura senza speranze»?

BL: Be’, penso che l’anti-intellettualismo di gran parte della narrativa contemporanea porti a perdere le speranze nell’abilità della letteratura di essere qualcosa di più di una serie di articoli di blog o delle sitcom trascritte. Ma questo è ovvio. In ogni caso leggo più poesia contemporanea che prosa, per cui penso in primo luogo a quel tipo di crasso «concettualismo» che ripete i gesti dell’avanguardia del passato, essendo tuttavia privo del relativo contesto storico e politico. Questo tipo di arte perde le speranze sia nella poesia, affermando che non c’è neanche bisogno di leggere le parole, sia nella forza critica della sua stessa mancanza di speranze, dal momento che l’unica sua affermazione sembra essere che tutto è ormai finito, esausto, esaurito. Perché produrre ulteriori esempi di esaustione? Ma mi riferisco anche a una tendenza presente nei miei lavori. Non voglio scrivere poesie che semplicemente illustrano la mia consapevolezza delle trappole presenti nello scrivere poesia. Non voglio scrivere narrativa che tratti dell’irresponsabilità dello scrivere narrativa, e ho scartato molto materiale che pensavo fosse contaminato da questo tipo di coscienza. Le opere di Maggie Nelson, Dana Ward, Ariana Reines e Simone White si sono dimostrate un ottimo antidoto a questo tipo di disperazione, ultimamente.

BLVR: In Nel mondo a venire ho avvertito la presenza di un «altro» alieno e al tempo stesso familiare. Mi riferisco alle varie menzioni di un polpo, «un animale che decora la propria tana», all’inizio del libro, quando anche il narratore, mentre osserva il traffico dalla High Line, avverte «un’intelligenza aliena», e più tardi, quando si trova a Marfa e cita le «Luci di Marfa», che «sono state interpretate come fantasmi, UFO o fuochi fatui». Il narratore dice, «Non vidi sfere, ma mi piaceva moltissimo l’idea: l’idea che la luce del nostro mondo potesse arrivarci riflessa ed essere scambiata per qualcosa di soprannaturale». Questa sensazione di soprannaturale è collegata all’idea di «un mondo a venire», per te?

BL: Sì, assolutamente, ma l’altro di cui parli è il collettivo. Sta avendo una specie di momento Feuerbach, ammira le luci come una finzione, nel modo in cui Feuerbach reinterpretò Dio come una proiezione dell’essenza della nostra specie. Per cui l’altro è «alieno» nel senso che è la forma della nostra alienazione collettiva. È il transpersonale scambiato per soprannaturale, per quanto il transpersonale sia più impressionante, più eccitante della cosa per la quale lo scambiamo. Quando il narratore si sente come un polpo, quando afferma che i suoi arti stanno cominciando a moltiplicarsi, intende dire che avverte l’esistenza di livelli di percezione che vanno oltre il suo corpo. Il personale comincia a dissolversi, si svuota. Hai ragione a collegarlo all’epigrafe, perché è un modo per dire: in un certo senso la comunità è già qui. È già qui nelle Luci di Marfa e nei circuiti del capitale globale (che fa viaggiare un polipetto dal mare del Portogallo a un ristorante di Chelsea), e anche se queste sono forme di interconnessione profondamente perverse, portano comunque in sé un briciolo di utopia.

BLVR: «Il debito accumulato, le tracce di antidepressivi nell’acqua del rubinetto, l’enorme reticolo arterioso di traffico, i cambiamenti climatici di violenza sempre maggiore… ogni volta che guardavo la punta di Manhattan dal lato del fiume su cui era cresciuto Walt Whitman mi riproponevano di diventare uno di quegli artisti che per un attimo trasformavano brutte forme della comunità in immagini delle sue possibilità future, un guizzo di propriocezione in anticipo rispetto al corpo collettivo».

BL: Già.

BLVR: Come vedi la parziale/totale differenza tra la parola Marfa (la città del Texas in cui eri durante la nostra prima intervista e dove il narratore di Nel mondo a venire si trova per qualche scena) e la parola Marfan, che si riferisce a «una patologia genetica del tessuto connettivo che dà tipicamente origine ai fisici longilinei e flessibili», introdotta a pagina due e in qualche modo centrale al romanzo?

BL: Mi piace la risposta che implichi: le luci «soprannaturali» di Marfa sono come la sindrome di Marfan (che fa sentire il narratore come se si stesse trasformando in un’altra creatura, con arti iper-flessibili come quelli di un polpo) per il modo in cui sono entrambe forze aliene (marziane?). Inoltre il protagonista teme che la sindrome di Marfan lo ucciderà e Robert Creeley, un poeta che compare nel libro, è morto a Marfa, o ha cominciato a morirci, per cui questo è un primo legame (e il narratore passa del tempo a pensare ai termini «alieno» e «soggiorno» durante la sua permanenza a Marfa, legati alla questione della cittadinanza, quindi il tema dell’alieno si apre anche in questa direzione).

BLVR: Hai scritto la poesia citata in Nel mondo a venire mentre ti trovavi a Marfa, al tempo della nostra prima intervista?

BL: Sì.

BLVR: È successo tre anni e dieci giorni fa. Mi sembra passato meno tempo, un anno e mezzo forse. Che ne pensi?

BL: Sembra meno anche a me. Ma potrebbe essere perché scrivere Nel mondo a venire ha scombussolato il mio senso del tempo: ho continuato a costruire una narrazione basata in parte sulla poesia di Marfa dall’epoca del mio breve soggiorno laggiù, cosa che mi ha impedito di farla scivolare nel passato.

BLVR: Sapevi che avresti scritto questo romanzo, quando hai scritto quella poesia?

BL: No, affatto. E non sapevo che avrei scritto questo romanzo neanche quando ho scritto il racconto per il New Yorker. E la narrazione della loro costruzione in Nel mondo a venire è finzione, per quanto labile.

BLVR: Una finzione che finge di essere fattuale.

BL: Sì, può risultare confusa. E il racconto e la poesia sono stati ovviamente cambiati per il fatto di essere parte del romanzo, per cui in un certo senso non sono più le opere che lo hanno preceduto. Forse è un concetto simile a quello dei ready-made nell’arte figurativa: sono ricontestualizzati, astratti dal romanzo o dal museo e, pur rimanendo materialmente identici dato che le parole sono le stesse, ne risultano completamente trasformati. Come un mondo a venire.

BLVR: Quando stai vivendo le esperienze che finiscono col far parte della tua prosa o poesia, sei cosciente del fatto che potrebbero diventare letteratura? Come dire, pensi «Questo lo metto in un libro», o cerchi di opporti a questa tendenza dicendo «No, farò quest’esperienza come se lo “scrivere” per me non esistesse» e poi, se necessario, richiami alla mente l’esperienza a posteriori, mentre scrivi?

BL: Me lo sono sempre chiesto. Henry James afferma che se vuoi fare lo scrittore, dovresti prestare attenzione a tutto. Il problema è che, se sai di essere una persona che presta attenzione a tutto, non finisci per perderti qualcosa, una sorta di presenza? Sei distratto dal tentativo di mandare tutto perfettamente a memoria. Probabilmente quando ho avuto paura, o stavo male o magari ero molto annoiato, ho provato a mantenermi concentrato imponendo all’esperienza in corso un ordine narrativo. Non penso «lo metterò in un romanzo», ma «lo racconterò a un amico», e comincio a raccontarmi la storia mentre la vivo, come un modo per fingere che sia già accaduta. Secondo te lo fanno tutti? Ho sempre pensato che fosse un meccanismo di difesa comune. In ogni caso questo è l’opposto di quello che dice James, no? Perché cerco di essere qualcuno che non ha vissuto l’esperienza, rimpiazzandola con la sua narrazione. Lo faccio sicuramente in contesti medici, anche per piccole cose.

BLVR: Mi fai un esempio?

BL: Ricordo che ero in giro con mio cugino Yarrow prima di andare dal dentista, poi il dentista mi ha detto che doveva estrarre immediatamente un dente perché c’era un’infezione. Prima che mi anestetizzasse, ho immaginato di raccontare a Yarrow cos’era successo. Poi, mentre inalavo il delizioso N2O, ho avuto la sensazione di stare già raccontando a Yarrow l’esperienza, come se fossi fluttuato via dallo studio fino a lui. E quell’esperienza marginale è finita nel romanzo, così come altre esperienze odontoiatriche e mediche più serie. Quello che sto cercando di dire è che sono conscio di narrare certi fatti mentre avvengono, o di cancellarli con la narrativa, e che quelle storie, non le esperienze in sé, potrebbero diventare materiale per l’arte. Questo tipo di trasformazione traspare molto in Nel mondo a venire perché il libro segue la trasposizione dei fatti nella finzione con il racconto del New Yorker. Il problema cardiaco diventa il tumore al cervello, Alex diventa Liza, ecc. E il mio sogno sulle lucciole è arrivato in una poesia.

III. LUCI IN CABINA

BLVR: Dove ti trovi?

BL: Volo Delta 1473. Siamo a novemila metri di altitudine, di ritorno verso New York. Secondo lo schermo che ho davanti, ci troviamo sopra l’Idaho. La piccola dorme in braccio ad Ariana. Evviva Internet in aereo.

BLVR: Mi sento di dover dire qualcosa sulle lucciole.

BL: Anch’io. Con le luci in cabina abbassate adoro l’immagine di una singola lucciola che in qualche in modo si scopre a bordo.

BLVR: Mi piace. Cosa pensi che accada poi?

BL: Magari in qualche modo si accorge del lento lampeggiare delle luci sull’ala. Comincia a illuminarsi in sincrono con loro. Una storia d’amore.

BLVR: Potrebbe essere un libro per bambini.

BL: A proposito di lucciole, volevo dirti che una ricercatrice a Firenze pensa che Caravaggio usasse «polvere fotoluminescente ottenuta dalle lucciole» per rendere le sue opere sensibili alla luce, una specie di fotografia primitiva. Sembra che quella polvere fosse usata nel teatro del XVI secolo per gli effetti speciali.

BLVR: Wow. Come l’hai scoperto?

BL: Ho cercato su Google «lucciole schiacciate».

BLVR: Tornando al tema del trasporre la vita nella finzione, hai la sindrome di Marfan?

BL: Sembra di no.

BLVR: E il narratore?

BL: Il libro non lo chiarisce mai del tutto.

BLVR: Ti danno fastidio queste domande sulla tua vita? Domande personali.

BL: No, nient’affatto. Ma non credo abbiano rilevanza per il libro. O meglio: non sono certo che rispondere a queste domande non sottragga qualcosa al libro.

BLVR: Ne abbiamo parlato un po’ anche quando è uscito il tuo primo romanzo, riguardo al fatto che le tue opere includono la tua vita in un modo che porta la gente a farsi domande su di essa, e riguardo al fatto che, a molte persone con le quali ho parlato, dai l’idea di essere abbastanza riservato.

BL: Sono riservato? Magari oggigiorno se non sei un esibizionista dai l’idea di essere riservato. O magari è solo che per molte persone, a volte in modi interessanti, a volte in modi stupidi, non c’è separazione tra l’opera d’arte e ciò che la circonda. Così le interviste, o i post sui blog o qualsiasi altra cosa, non sono tanto integrazioni del romanzo, quanto parte di esso. Non sono riservato, ma credo nella forma letteraria. Uso la mia vita come materiale per la mia arte, non so fare altrimenti, e uso l’arte come un mezzo per esplorare il passaggio della vita nell’arte e viceversa. Questo non  autorizza a ritenere di per sé interessanti o rilevanti tutti i dettagli della mia vita.

BLVR: Si parla del rifiuto della finzione letteraria, del suo essere imbarazzante o escapista, ecc. In questo contesto la tua prosa viene menzionata come «anti-finzione», perché ha in sé elementi che esulano dalla narrativa. Ma da quello che hai affermato in questa intervista, sul potere della narrativa e la sua inevitabilità e forza politica, sembra che tu difenda la sua importanza.

BL: Sì, ma sto difendendo la narrativa più come potenziale umano che come genere letterario. La sperimentazione con gli «e se» della narrativa è spesso più comune nella poesia, nella critica e in altri mezzi di scrittura, che in blandi racconti o romanzi.

BLVR: C’è una reazione dalle persone della tua vita quando notano di essere parte, o sembrano essere parte, dei tuoi romanzi (per quanto cambiati)?

BL: Ben poche persone reali compaiono nei miei due romanzi, a dire il vero. «Ari» appare al margine di questo libro in un paio di occasioni, ma sul margine, non è mai all’interno, nonostante sia una forza esterna determinante. Praticamente tutti i personaggi del primo libro sono inventati, anche se non da zero. In Nel mondo a venire il progetto artistico di Alena non è inventato, è l’opera dell’artista Elka Krajewska, ma Alena ed Elka non hanno alcuna relazione oltre a questa. E il libro del dinosauro è basato su un libro che ho scritto a quattro mani con un fantastico ragazzino a cui ho fatto da tutor, ma il personaggio di Roberto non gli somiglia molto. Il progetto di Krajewska, il libro sui dinosauri, sono delle specie di ready-made, come la mia poesia o la storia del New Yorker. La relazione principale nel libro, il centro emozionale, è quella tra il narratore e Alex. Alex non è basata su una persona realmente esistente, o almeno, non su una sola persona.

BLVR: Mi piace il fatto che Alex sia una presenza forte, apparentemente molto «viva» nel tuo libro, ma che non ti concentri sulla sua descrizione. Mi piace l’idea che tu nasconda delle informazioni sui personaggi che un lettore potrebbe aspettarsi: descrizioni fisiche, proiezioni dei loro pensieri, ecc. Che ne pensi?

BL: La narrativa non mi attrae per la possibilità di descrivere nel dettaglio l’aspetto fisico dei personaggi, o per l’accesso che offre alla loro psiche. Né quella specie di «realismo» dei corpi o delle psicologie individuali mi sembrano particolarmente realistici. Nell’arte e nella vita leggiamo costantemente di corpi e comportamenti (e di cieli e orizzonti ecc.), costruendo coerenze mutevoli ed effimere, e suppongo di preferire il tentativo di catturare quel processo di caratterizzazione e ri-caratterizzazione, piuttosto che offrire qualche personaggio stabile e facilmente riassumibile.

BLVR: «Le facce della gente erano racconti che lui era sempre meno in grado di leggere, un modo riduttivo per affastellare tratti nel ricordo, anche se quel ricordo veniva poi proiettato nel presente, sull’area compresa tra la fronte e il mento».

BL: Sì. E penso che i momenti più intimi tra il narratore e Alex, la caratteristica esemplare della loro amicizia, siano i momenti in cui stanno entrambi osservando qualcosa, un quadro o un’immagine su uno schermo, piuttosto che guardarsi l’un l’altro. Guardare insieme, leggere insieme. E chiaramente sia l’incapacità di leggere i volti che la tendenza a proiettare facce su stimoli casuali, sono temi presenti nel libro. Inoltre vale la pena fare presente che, nonostante il narratore non abbia accesso ai pensieri più reconditi di un personaggio, non significa che quel personaggio non abbia tali pensieri.

BLVR: Ho conosciuto molti lettori convinti che i personaggi dei miei libri non avessero pensieri o sentimenti propri, a meno che io non li descrivessi.

BL: È triste. Solo perché, per esempio, il suo amico «Josh» appare solo brevemente ma non acquisisce un ruolo importante nel libro, non significa che «Josh» sia irrealistico o piatto, o che non interessi al narratore. Significa solo che soltanto una piccola frazione della persona «Josh» è nel libro, in questo angolo di mondo. Il resto non viene esplicitato. Non credo che sia sempre un segno di rispetto per le persone (siano vere o inventate) il fingere di avere accesso alla loro multidimensionalità in qualsiasi momento. Il che non significa che queste persone non siano dotate di multidimensionalità. Forse è da questo punto di vista che sono riservato? Perché rispetto la privacy dei «miei» personaggi?

BLVR: Consideri Whitman un «personaggio» del tuo libro? In Nel mondo a venire è ovunque. Il narratore dice di voler essere un «Whitman della vulnerabile rete».

BL: Il Whitman reso famoso da Leaves of Grass è un’invenzione. Voglio dire che il personaggio storico Whitman fece di tutto per rendersi un personaggio poetico, non si scopre praticamente niente del vero Whitman dalle sue poesie o dalla sua prosa «autobiografica». Questo comportò, come detto dal narratore nel libro, il fatto che Whitman si svuotasse di qualsiasi particolarità in modo da permettere a tutti di identificarsi con lui e permettere a lui di identificarsi con tutti, «ogni atomo che mi appartiene è come appartenesse anche a te». Possiamo tutti rientrare nel suo «io» e tutti possiamo essere identificati dal suo «tu», quello è il sogno, il sogno di un personale collettivo. Whitman non ha mai realizzato il suo sogno, ovviamente. C’è tutta una serie di problemi legati al suo tentativo di universalità. Ma questa fantasia (non solo) Whitmaniana della possibilità di dissolversi attraverso l’arte in una potenzialità collettiva, questo sogno rimane vivo per me, sia che possa difenderlo o meno. Whitman e il polpo sono probabilmente figure legate, nel mio libro.

BLVR: Non abbiamo parlato della procreazione, o di molte altre problematiche centrali nel tuo libro. Ho citato di sfuggita Ritorno al futuro, ma non ne abbiamo parlato. Ma abbiamo finito lo spazio.

BL: E il tempo. Perché la bambina si sta svegliando. E tocca a me cambiarla.

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Tao Lin è l’autore di Taipei e di altri sei libri.

Titolo originale Ben lerner @ Tao Lin, Ben Lerner, 2014, all rights reserved
Traduzione di Umberto Manuini