Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer, numero 112, estate 2015

 

«Solo il tuo nome è mio nemico».
William Shakespeare, Romeo e Giulietta

I

Mi chiamo come la figlia che mio padre ha perduto.
Ricordo il giorno in cui seppi di lei per la prima volta. Avevo otto anni. Mio padre era sulla sua poltrona e teneva in mano una scatolina bianca. Mentre mia madre spiegava che aveva avuto una figlia morta di nome Jeanne, pronunciata esattamente come il mio nome, «ma senza la i», lui aprì la scatolina e distolse lo sguardo. Dentro c’era una medaglia che Jeanne aveva ricevuto da una chiesa perché era «una brava persona», disse mia madre. Mio padre non aprì bocca. Io non aprii bocca. Fissavo la medaglia.
Più tardi, quel giorno, nel seminterrato, mia madre mi raccontò che Jeanne era morta in un incidente d’auto a New York quando aveva sedici anni, molto tempo prima che io nascessi. Nell’auto c’erano altre due ragazze. Jeanne era seduta tra quella che guidava e l’altra passeggera sul sedile anteriore. La ragazza alla guida aveva tentato di superare un’altra macchina, aveva esitato e tentato di rientrare nella sua corsia. Aveva perso il controllo e Jeanne era stata sbalzata fuori dall’auto, morendo sul colpo.
«Tuo padre crede che sia colpa sua» disse mia madre. «Non riesce a parlarne».
«Perché?» chiesi.
«Le diede il permesso di uscire, quella sera».
Dopo la morte di Jeanne mio padre acquistò due spazi al cimitero, uno accanto all’altro – uno per Jeanne e uno per sé. Quando divorziò da sua moglie, lei volle che rinunciasse al suo spazio, e lui accettò. Poco dopo il divorzio tornò in tribunale, stavolta per aver pestato un barbone. «Perché dovresti essere vivo?» gli aveva chiesto mio padre. «Non lavori, e invece mia figlia è morta». Il giudice si ricordava di mio padre e lo assolse.
«Conoscevi la sua prima moglie?» chiesi a mia madre.
«No, hanno divorziato parecchio tempo prima che lo incontrassi. È successo tutto quanto a New York».
Io vivevo in Ohio, dove i miei si erano conosciuti. Nella mia mente New York era tutta grattacieli, taxi e incidenti d’auto.
«Che aspetto aveva Jeanne?»
Mia madre mi disse di non aver mai visto una sua fotografia.
Quella primavera cominciai a dipingere ritratti di Jeanne con le tempere. Li intitolavo tutti Jeanne. La mia insegnante d’arte si disse delusa del fatto che una studentessa brava come me riuscisse a sbagliare a scrivere il proprio nome. Da quel momento in poi, presi a inserire la i.

II

Federico García Lorca affermava che una consapevolezza superiore della morte fosse una dote necessaria per un artista. Nel suo saggio del 1933, Teoria e gioco del duende, Lorca tenta di definire l’ispirazione artistica e asserisce che un artista debba riconoscere la mortalità per produrre arte con duende, o «sentimento intenso». «Il duende» scrive «non si palesa se l’artista non riconosce la possibilità della morte, se non è certo di scuotere quei rami che tutti noi abbiamo, che non portano e non porteranno mai consolazione».
La medaglia, l’età e l’incidente d’auto erano tutto ciò che sapevo di Jeannie, ma erano dettagli sufficienti a dare corpo alla mia immaginazione. In una gara di scrittura cui partecipai all’inizio del liceo scrissi una storia su tre ragazze in fila per un film che non avevano alcuna intenzione di vedere. Volevano essere viste. Avevano scelto di mettersi accanto a un poster cinematografico che mostrava un’auto che si schianta contro un albero. Due di loro masticavano la gomma e parlavano di ragazzi. La terza pensava a sua sorella morta in un incidente d’auto. «Anne vuole perdersi in un film» è l’unica frase che ricordo. Il nome di sua sorella era Annie. Intitolai la storia i. Arrivai prima.
Dissi a me stessa che Jeanne aveva vinto.

III

Derivata dall’antico greco, la parola necronimo significa letteralmente «nome morto». Di solito indica un nome che si condivide con un fratello o una sorella deceduti. Fino alla fine del XIX secolo i necronimi non erano insoliti tra gli americani e gli europei. Se un bambino moriva nella prima infanzia, il suo nome veniva spesso dato al figlio successivo, conseguenza naturale degli alti tassi di natalità e di mortalità infantile.
Ludwig van Beethoven, per esempio, aveva un fratello di nome Ludwig Maria, nato nell’aprile del 1769 e vissuto appena sei giorni. Il compositore fu battezzato il 17 dicembre dell’anno successivo e probabilmente nacque il giorno prima, viste le abitudini religiose della contea del Reno cattolico in cui viveva (non esistono documenti ufficiali circa la sua data di nascita). Passato alla storia come prodigio della musica, Beethoven sentiva spesso la necessità di dimostrare quanti anni avesse. In una lettera all’amico Wegeler, datata 1809, chiese il suo certificato di battesimo. «… Prendi nota del fatto che ho avuto un fratello nato prima di me, che si chiamava anch’egli Ludwig, ma con l’ulteriore nome “Maria”, e che è morto. Per determinare la mia vera età, perciò, dovresti prima trovare quel Ludwig. Perché so che altre persone, rivelando che io sono più vecchio di quanto non sia in realtà, sono responsabili di questo errore. Purtroppo ho vissuto per un po’ senza sapere quanti anni avessi».
«Quando tuo padre era un ragazzo,» mi disse mia madre «molto tempo fa – ricordati che ha vissuto nell’epoca della Grande Depressione – non era insolito chiamare un figlio come un parente deceduto, specialmente un bambino deceduto».
Nel loro Dizionario delle superstizioni (1989), le folcloriste Iona Opie e Moira Tatum provano a spiegare il declino del necronimo: molti genitori temevano che facesse ricadere sui figli una maledizione letale.
Un’altra possibile maledizione? Il nome tormenta il bambino per il resto della sua vita.

IV

Ogni domenica, entrando nella chiesa in cui predicava suo padre Theodorus, Vincent van Gogh passava davanti a una lapide su cui era inciso il nome vincent van gogh.
Il fratello dell’artista, Vincent, era nato e morto il 30 marzo 1852. L’artista invece nacque il 30 marzo 1853. Ricordo che sentii raccontare questo aneddoto a una guida quando avevo sedici anni e mi trovavo nel museo d’arte di Toledo, a osservare il suo dipinto Houses at Auvers. Se quella consapevolezza avese influito su van Gogh – il fatto che condividesse nome e data di nascita con un fratello morto – non lo sappiamo, disse la guida.
«Ci sono domande?» chiese.
La mente mi si riempì di pensieri affrettati, scomodi, e altrettanto all’improvviso si svuotò, un piccolo stormo di uccelli che vola via da un campo.
Avevo sedici anni, l’età che Jeannie avrebbe avuto per sempre.
«Nessuno?» disse la guida, e il gruppo lo seguì in un’altra galleria. Io restai a guardare Houses at Auvers.
Al centro della tela c’è una casa bianca con un tetto dalle tegole blu. Un lungo muro di pietra risale il dipinto da sinistra a destra, con pennellate rade. Ricordo di aver pensato che quel cielo grigio-blu mi pareva quasi intorpidito. Continuavo a dirmi che stavo guardando la rappresentazione di una casa bianca. Non potevo certo aprire la porta ed entrare. Ma quando ripensavo al fatto che van Gogh portava il nome del fratello morto, Houses at Auvers mi appariva quasi tridimensionale.
Pensando a Jeanne, abbandonai il dipinto e tornai a casa, guidando con prudenza.

V

Mio padre aveva ottant’anni e stava morendo in quello che un tempo era il soggiorno. Il suo letto si trovava sotto il mio dipinto di un albero, una pessima imitazione di un van Gogh – un compito che ci avevano dato al liceo e che i miei avevano insistito per incorniciare.
Avevo diciotto anni e leggevo accanto al suo letto. Avrei dovuto scrivere un saggio sull’Amleto per il mio seminario su Shakespeare all’università.
«Era un uomo, un uomo vero, in tutto,» dice Amleto del suo defunto padre «come non ne vedrò più».
Avrei scritto del dolore del lutto e della questione della follia.
Sapevo che mio padre aveva «perso la bussola» dopo la morte di Jeanne, e già sentivo che stava capitando la stessa cosa anche a me. Di notte facevo dei cappi, mi grattavo la pianta dei piedi. Sentivo voci che mi dicevano che dovevo morire. Non lo dicevo a nessuno, perché mi sembrava tutto molto razionale: mio padre stava morendo e ovviamente insieme a lui sarebbero morte alcune parti della mia mente. Lui e io eravamo molto legati. Poco dopo la mia nascita andò in pensione – faceva l’imbianchino nell’ospedale dove lui e mia madre si erano conosciuti. Da bambina gli dicevo: «Diventerò un pittore come te».
«Ero solo un imbianchino» mi spiegava lui. «Ma tu potrai diventare una grande pittrice».
Da piccola giocavo con lui a un gioco chiamato «Museo d’arte». Dipingevo dozzine di quadri (niente di eccezionale: case alte e rettangolari con tetti a triangolo, alberi, i nostri cani e uccelli e anatre) e li appendevo in tutta la casa. Lui passava di stanza in stanza, li contemplava e alla fine diceva sempre: «Li voglio tutti quanti».
Mentre sedevo lì al suo capezzale, mio padre aprì gli occhi e trasalì per una visione che fluttuava sopra il suo letto. Mi frapposi, cercando di bloccargli la vista di qualsiasi cosa lo stesse spaventando in quel modo, ma lui mi guardava attraverso come se non esistessi.
«Papà?» dissi. «Mi vedi?»
Chiamai l’infermiera dell’ospizio, che comparve sulla soglia insieme a mia madre.
«Ha visto qualcosa» dissi.
L’infermiera disse che a volte succedeva.
«Vedono i morti» spiegò. «Qualcuno del loro passato che torna a fargli visita».
Jeanne.

VI

Di recente mi sono imbattuta nelle lettere di van Gogh e sono rimasta sorpresa di scoprire che parla del suo defunto fratello in una nota di condoglianze a un ex datore di lavoro. Nella lettera, datata 3 agosto 1877, van Gogh cerca di confortare Herman Tersteeg, colpito dalla morte della figlia di tre mesi. «Anche mio padre ha provato ciò che senz’altro starete provando voi in questi giorni. Qualche tempo fa, un mattino molto presto, sono andato al cimitero di Zundert e ho visto la piccola tomba su cui c’è scritto, “Lasciate i piccoli fanciulli e non vietate loro di venire a me, perché di tali è il regno de’ cieli”. Sono passati più di venticinque anni da quando ha sepolto il primo bambino in quel luogo, ai tempi in cui fu commosso da un libro di Bungener, che vi ho inviato ieri pensando di farvi cosa gradita».
Si riferisce probabilmente a Keeping Vigil Over the Body of My Child: Three Days in the Life of a Father, di Laurence Louis Félix Bungener. In quel libro Bungener descrive, sotto forma di diario, il modo in cui la religione l’ha aiutato a superare la morte e la sepoltura di sua figlia. Pubblicato inizialmente nel 1863, quando van Gogh aveva dieci anni, è l’unico libro di Bungener dedicato a sua figlia. Il fatto che van Gogh abbia ricordato di averlo visto leggere al padre, e che abbia parlato della sua visita alla tomba del bambino, all’età di ventiquattro anni, evidenzia la straordinaria compassione che provava per il dolore dei suoi genitori. Ho trovato straziante che abbia citato le parole incise sulla lapide, così come il ripetuto uso del termine «piccolo». Conclude la sua lettera con, «Non ritenetemi fuori luogo per avervi scritto, perché sentivo il bisogno di farlo». A quanto ne so, da nessun’altra parte nella corrispondenza di famiglia, scoperta di recente, si fa menzione del figlio morto.
In van Gogh c’era chiaramente consapevolezza del dolore del padre. Tenendo quel fatto in considerazione cercai le date in cui dipinse i suoi autoritratti e scoprii che il più antico tra quelli giunti fino a noi fu dipinto dopo la morte del padre di van Gogh – come se soltanto allora l’artista potesse diventare se stesso. Van Gogh dipinse successivamente più di trenta autoritratti, che rivelano il cambiamento nella tecnica pittorica e il suo declino psicologico. Nel settembre 1889, mentre si trovava ricoverato ad Arles per quella che i medici definivano «smania acuta con delirio generalizzato», dipinse simultaneamente due versioni di se stesso. In una è smunto e pallido contro uno sfondo viola scuro-bluastro. Nell’altra appare in salute su uno sfondo chiaro. Di quei ritratti van Gogh scrisse al fratello Theo: «Dicono, e sono piuttosto incline a crederci, che sia difficile conoscere se stessi. Ma non è neanche facile dipingere se stessi». Quel settembre van Gogh si dipinse un’ultima volta, e regalò il quadro, Autoritratto senza barba, a sua madre per il compleanno.
Poi arrivò un altro Vincent van Gogh.
Nel gennaio del 1890 la moglie di Theo, Jo, diede alla luce un bambino che Theo chiamò Vincent. Scelse van Gogh, lo zio del ragazzo, come padrino. «Desidero fortemente» scrisse Theo al fratello «che diventi determinato e coraggioso come te» (una lettera di Jo alla sua famiglia, datata il giugno precedente, rivela che il nome venne scelto poco dopo la scoperta della gravidanza: «A Theo piacerebbe “Vincent”, ma io non do molta importanza ai nomi»).
In una lunga lettera di congratulazioni van Gogh suggerì al fratello di chiamare il figlio Theo, in memoria del padre Theodorus. «Mi darebbe di certo grande piacere» spiegò van Gogh. Poi scrisse a sua madre: «Preferirei che chiamasse suo figlio come Pa’, cui ho pensato così spesso ultimamente, che come me, ma comunque, visto che ormai è fatta ho cominciato subito a fare un dipinto per lui, da appendere in camera da letto. Grandi rami di un noce bianco fioriti contro un cielo azzurro».
Meno di sei mesi più tardi, a trentasette anni, van Gogh morì per un colpo di pistola al petto. Secondo Theo, che rimase al capezzale del fratello fino alla fine, le ultime parole dell’artista furono «La tristesse durera toujours» («La tristezza durerà per sempre»). Theo soffriva di sifilide e, dopo la morte del fratello, la sua salute peggiorò in fretta. Sei mesi dopo morì anche lui. È sepolto accanto a van Gogh in un cimitero di Auvers-sur-Oise.
Quando penso a Jeanne vedo Houses at Auvers, dipinto nell’ultimo anno di vita di van Gogh.

VII

Mio padre è sepolto sotto un albero che somiglia a quello dipinto da me. Quando ero piccola la sua ex moglie gli aveva offerto l’appezzamento di terreno accanto a quello di Jeanne; lui l’aveva rifiutato.
«Ho una famiglia, qui» aveva detto.
L’ultima volta che sono stata a fargli visita, ho detto alla terra che per quanto pensassi a Jeanne e volessi essere come Jeanne, passavo molto più tempo a non pensare a Jeanne.
Nel 1964 gli psicologi Albert C. Cain e Barbara S. Cain coniarono il termine bambino sostitutivo, in riferimento a un figlio concepito poco dopo la perdita di un bimbo. Il loro articolo «Sostituire un bambino» descrive i bambini sostitutivi come affetti da nevrosi o psicosi. Nato in un’atmosfera di sofferenza, il nuovo figlio è «virtualmente soffocato dall’immagine del bambino perduto,» osservano gli autori. «I problemi di identità di quei bambini [sono tali che] riescono a malapena a respirare, come individui dalle caratteristiche e dall’identità propri». Quindici anni più tardi gli specialisti Robert Krell e Leslie Rabkin identificarono tre tipi di bambino sostitutivo: vincolato, risorto e tormentato. I genitori di un bambino «vincolato» sono magari iperprotettivi a livello fisico, ma restano emotivamente distanti in preparazione a una nuova perdita. Un bambino «risorto» vive in una famiglia sopraffatta dal senso di colpa, che impone «una cospirazione del silenzio». Io non sono una bambina sostitutiva, secondo la precisa definizione del termine. Né mio padre mi ha fatto mai sentire come tale. Non mi ha mai parlato della mia sorellastra. Se non altro, sono cresciuta semi-tormentata.
All’ultimo anno di college, quando venni ricoverata per un «episodio misto» di smania e depressione (pensieri a mille, allucinazioni, overdose), dissi ai medici che mio padre era morto. Dissi loro che mio padre aveva perso una figlia di nome Jeanne.
«Ha aggiunto la i al mio nome» dissi.
Cercai di spiegare che la sua morte a sedici anni l’aveva quasi distrutto, e che la morte di mio padre stava distruggendo me.
«È solo dolore» dissi.
I medici dissero che il dolore agisce in maniera diversa.
Mio padre era morto e io non ero nella stanza con lui. Jeanne sarebbe rimasta? Era lei l’oggetto della sua ultima visione?

VIII

Dopo la laurea mi trasferii a New York. Ricordo che a qui tempi pensavo spesso, Non vivo molto lontano da dove è morta Jeanne. Ma non sapevo esattamente dove fosse morta.
Una domenica pomeriggio, nell’ufficio della rivista letteraria per cui lavoravo, ero intenta a revisionare un saggio sulla storia della dissezione. L’autore scriveva che il medico inglese William Harvey aveva dissezionato i corpi di suo padre e sua sorella. In quel momento ebbi la sensazione che una folata di vento avesse spalancato di colpo una pesante porta. Pensai a mio padre e a Jeanne. Che aspetto aveva il suo corpo nella bara? Che aspetto aveva Jeanne? Andai online e cercai «Jeanne Vanasco». La pagina dei risultati mi chiedeva se non intendessi invece «Jeannie Vanasco». Trovai il link della sua vecchia scuola superiore e lo aprii. Qualcuno aveva messo online la foto di Jeanne. Per la prima volta potevo vederla in faccia. Provai a zoomare, ma così facendo diventava solo più difficile da guardare: capelli scuri e ondulati tagliati sopra le spalle, testa voltata leggermente a sinistra, collana di perle. Fissai la fotografia, come se guardandola abbastanza a lungo mi permettesse di penetrare nella mente e nel corpo della ragazza la cui morte aveva quasi distrutto mio padre. Una settimana più tardi fui nuovamente ricoverata, per un «episodio misto di disforia». Era possibile che accusassi la morte di Jeanne? Ma come si fa a soffrire per qualcuno che non si è mai conosciuto?
«Non voleva neppure che tu sapessi di Jeanne» mi disse mia madre. «Pensava che potessi credere che ti stesse paragonando a lei, e non era affatto così. Ha solo considerato la questione del nome come un segno di rispetto. Ha parlato con un prete della cosa, e lui l’ha incoraggiato a darti il nome di Jeanne, purché non ti mettesse mai a confronto con lei. “Non lo farei mai”, gli rispose tuo padre. Pensavo che dovessi saperlo. Non volevo che scoprissi di lei in un altro modo. Pensavo che dovessi saperlo da noi».
Spero che mio padre non abbia mai capito perché studiavo così duramente, perché facevo ricerche sulla vita dei santi (volevo una medaglia da una chiesa), perché mi mettevo seduta davanti allo specchio della mia stanza con un taccuino e documentavo il mio aspetto, ciò che dovevo sistemare. Dovevo essere una figlia intelligente, gentile, bellissima.
Cercavo di non sentire il nome di lei, quando pronunciava il mio.

IX

Salvador Dalí morì di gastroenterite all’età di un anno e nove mesi. Nove mesi e dieci giorni più tardi, nacque l’artista Salvador Dalí.
«Vivevo la persistenza della sua presenza sia come un trauma – una sorta di alienazione dell’affetto – sia come una sensazione di essere in qualche modo surclassato» scrive Dalí nella sua biografia Maniac Eyeball: The Unspeakable Confessions of Salvador Dalí.
Dalí era famoso per amplificare gli aneddoti legati alla sua vita, eppure, in quanto persona che portava il nome di un bambino morto, io gli credo quando dice «Ho vissuto la mia morte prima di vivere la mia vita».
Parlava spesso di una visita che da bambino fece alla tomba del fratello maggiore, quando sembra che i genitori gli abbiano detto che lui era la reincarnazione del loro primo figlio. Dalí affermava che tenessero in camera da letto una fotografia ritoccata del figlio morto. Quella «maestosa foto», dice, era appesa accanto a una riproduzione della crocifissione di Cristo di Velázquez. «Il Salvatore, da cui senza alcun dubbio Salvador è andato nella sua ascensione angelica, ha fatto nascere in me un archetipo fatto di quattro Salvador, che mi hanno cadaverizzato». I quattro Salvador: il padre di Dalí, il fratello di Dalí, Dalí e Gesù (in spagnolo Salvador significa «Salvatore», naturalmente). «Sempre di più mi trasformavo in un’immagine allo specchio del mio defunto fratello». Dalí sentiva che il suo nome lo stava trasformando in uno scheletro senza vita.
Nel suo dipinto del 1963, Ritratto di mio fratello morto, Dalí costruisce un ritratto composito di se stesso e suo fratello, con una matrice di colori scuri e macchie chiare, dove queste ultime formano il Salvador vivo e i primi il Salvador morto. La sua decisione di fondere il suo viso con quello del fratello è specchio della sofferenza del padre: «Quando mi guardava vedeva il mio doppio tanto quanto vedeva me. Ero nei suoi occhi, ma solo come metà della mia persona. Una intera era troppo». Dalí ritrae suo fratello a sette anni, un’età che il piccolo non raggiunse mai. Nella sua biografia il pittore scrive: «All’età di sette anni mio fratello morì di meningite, tre anni prima che io nascessi».
Forse all’inizio mentì senza volerlo, ma in seguito si rifiutò sempre di ammettere di essere nato nove mesi dopo la morte del fratello. Perfino dopo la pubblicazione di un libro su Dalí, scritto da Luis Romero con l’aiuto dello stesso Dalí, in cui si rivelano le date di nascita e morte dell’omonimo fratello del pittore, Dalí continuò ad affermare che avesse vissuto sette anni. Posso capire il bisogno piscologico di mantenere tale distanza. E posso capire il bisogno di Dalí di fondere l’immagine del suo viso con quella del fratello. Quando dipingevo me stessa, alle elementari, fingevo di dipingere Jeanne. Volevo rendere me stessa Jeanne. Volevo essere lei per mio padre. È ovvio che Dalí avesse avuto bisogno di dipingere Ritratto di mio fratello morto.
Nell’angolo in basso a sinistra del dipinto ha riprodotto la scena del quadro di Jean-François Millet, L’Angelus, in cui un uomo e una donna recitano una preghiera su una cesta di patate. Intorno a loro un rastrello, sacchi e una carriola. In The Tragic Myth of Millet’s Angelus, il suo libro del 1934 dedicato esclusivamente a quell’opera, Dalí argomenta che la madre contadina ha ucciso suo figlio e attende di essere sodomizzata dal marito prima di cannibalizzarlo.
Quando Millet finì il dipinto, nel 1857, inizialmente aveva ritratto un uomo e una donna in preghiera su un oggetto scuro dalla forma simile a una bara. Nel 1859, dopo il rifiuto di acquistare il dipinto da parte dell’americano che gliel’aveva commissionato, Millet aggiunse una cesta di patate sopra quella che Dalí insisteva fosse una piccola bara (una scansione a raggi X del dipinto, eseguita nel 1963, supporta vagamente quell’argomentazione).
Non tutti gli storici dell’arte concordano circa la presenza della bara, ma sono d’accordo nell’affermare che l’inclusione de L’Angelus nel dipinto di Dalí fosse una metafora dello straziante dolore dei suoi genitori per la perdita del primogenito.
«Il dipinto di Millet» scrisse van Gogh a Theo «è magnifico, è poesia». Van Gogh riprodusse quell’opera nel 1880 e intitolò il suo lavoro L’Angelus (copia da Millet). Che vedesse un legame tra l’incarnazione e la sua stessa nascita? Che vedesse la bara di un bambino?
Né van Gogh né Dalí ebbero figli.

X

Intorno al decimo anniversario della morte di mio padre, smisi di fare ricerche sui necronimi e iniziai a cercare dettagli sulla vita di Jeanne.
Trovai l’indirizzo della sua casa d’infanzia e ci feci un giro. Feci qualche domanda ad alcune compagne di classe, ai vicini. Incontrai una delle sue amiche del liceo.
«Somigli così tanto a Jeanne che mi manca il fiato» mi disse.
Scoprii che era morta il 2 marzo 1961, ventitré anni e sette giorni prima che nascessi.
Più scoprivo su Jeanne, più mi ritrovavo a scivolare in uno stato mentale bizzarro. Persi il controllo del collo e delle braccia e della voce. Mi ripetevo, «Jeannie morirà. Jeanne è morta».
Contattai il cimitero dove era sepolta. Feci domande circa il terreno accanto alla sua tomba, chiesi se appartenesse ancora a mio padre.
«L’ha comprato lui, perciò sì, gli appartiene» disse il custode.
«Se è morto…» cominciai.
Poi dissi che mio padre aveva deciso di farsi seppellire in Ohio.
«L’ha lasciato a qualcuno, nel suo testamento?»
«Non nello specifico» dissi. «Ha voluto che tutto ciò che possedeva passasse a me».
«Allora appartiene a lei».
Dopo feci visita alla tomba di Jeanne. Lì, sulla lapide di granito grigio, c’era incisa un’immagine della Vergine Maria. Gli occhi della Vergine guardavano in basso, verso il nome di Jeanne, che era quasi oscurato dalle foglie. L’ombra di due aceri spogli tagliava in due il terreno sgombro accanto alla tomba – terreno che adesso era mio.
Chiamai mia madre. Senza accennare al viaggetto nella città natale di Jeanne, chiesi se mio padre avesse mai detto qualcos’altro su di lei.
«Quando eri piccola, stavi imparando a camminare,» disse « mi chiamò la nostra vicina Sheila. Lavoravo ancora in ospedale, all’archivio sanitario. Tuo padre era a casa con te. “Barbara,” mi disse Sheila “faresti meglio ad andare a casa. Terry cammina senza sosta in giardino, piange e tiene stretta Jeannie. Non la lascia andare”. Perciò venni a casa e gentilmente chiesi a tuo padre cosa fosse successo. “È solo una brutta giornata” mi disse. Era aprile, o maggio. Capii che era il compleanno di Jeanne. Continuavi a piangere, ma tuo padre non voleva lasciarti andare. Era terrorizzato che potessi farti male».
La mattina successiva a quella telefonata venni ricoverata per un «episodio misto di disforia con sintomi psicotici».
«Riposa sottoterra, Jeanne». Era la frase che udivo.
«Basta» dicevo alle voci.
Ma per le persone che mi circondavano, parlavo all’aria.
«Mio padre è morto» spiegai ai medici in ospedale.
E loro, come i medici dei ricoveri precedenti, chiesero: «Quando?»
«Dieci anni fa» dissi. «E sono andata a far visita alla tomba di Jeanne nel decimo anniversario della sua morte».
«Jeanne?» domandarono.
Cercai di spiegare che portavo il nome di una sorellastra morta. Cercai di spiegare la lettera i nel mio nome. Sentivo lacrime calde scorrermi lungo le guance. Fui tenuta in osservazione per un mese.
Prima delle dimissioni i miei medici insistettero perché smettessi di fare ricerche su Jeanne, ma mi sembrava una cosa impossibile. Tornai in ospedale altre tre volte.
Per ora, con Jeanne ho chiuso.
Kristina Schellinski, analista junghiana e dichiarata «bambina sostitutiva», in «Life After Death: The Replacement Child’s Search for Self», un suo articolo del 2009, scrive che il senso di colpa può nascere dal fatto «che l’“io” non è veramente “io”, che il bambino sostitutivo non è libero di vivere la sua vita e, perciò, prova senso di colpa se riesce finalmente a raggiungere la realizzazione di sé».
È per questo che mio padre ha aggiunto una i al mio nome? Per ricordarmi che io ero la mia me stessa?

***

Jeannie Vanasco sta scrivendo un memoir che parla di un necronimo, psicosi e un occhio artificiale. I suoi scritti sono comparsi, tra gli altri, su Little Star Journal, Times Literary Supplement e Tin House.

Titolo originale What’s In a Necronym? @ Jeannie Vanasco, all rights reserved
Fotografia © Mariateresa Pazienza