Questo racconto è apparso originariamente su Hobart, 6 settembre 2017

All’inizio Margaret raccontava in giro dello stupro. Che stupro? Il suo stupro? Era suo, lo possedeva, forse? Doveva pure tenerselo, magari, o condividerlo? Oppure poteva lasciarlo lì, sul ciglio della strada, o gettarlo nel bidone della raccolta differenziata? Margaret parlava sottovoce dell’incidente, di quando Marcus le aveva detto che la sua fica era un open bar. Disponibile gratuitamente, non era richiesto nessun pagamento. Ed era buona da morire, aveva detto.

Dopo quell’episodio aveva visto spesso Marcus in giro per il campus, con le braccia sulle spalle degli amici, delle ragazze. Grossi denti bianchi da cavallo che gli invidiavano tutti. Erano stati quei denti a masticarla, sgranocchiarla, trasformarla in una poltiglia umida e gelatinosa, e poi a sputarla via.

A lezione Margaret si becca le occhiatacce dei moralisti perché borbotta durante le spiegazioni dei professori, che parlano di Hemingway o della legge di Ohm. Quando aveva visto Marcus la prima volta, a settembre, di lui aveva notato per prima cosa la postura. Un mese dopo lo stupro eccolo lì, a lezione di economia, seduto accanto a Laura Dykstra, spalla contro spalla, vicini. Margaret sussurra tra sé che Marcus è un animale, un codardo. Ma nessuno la ascolta, si limitano a farsi più in là di un paio di posti. Margaret smette di andare a lezione. Boccia in tutti i test. Non lo dice ai suoi.

Vacanze estive. Margaret, ormai Maggie, decide di vedere l’America. Di viaggiare a bordo della sua Jetta vecchia di dieci anni lungo le interstatali e fermarsi in antiche case trasformate in musei. Ecco una foto del vecchio stabilimento chimico. Ecco la prima scarpa Oxford della storia. Un busto di bronzo del sindaco Bladwell, e la fascia dell’unica abitante di Winston a vincere Miss America. La più grande palla da golf del mondo. O del Paese, almeno. Di sicuro dello stato. Si trova nel soggiorno di lady Rhetta. La signora dice che ci intrattiene gli ospiti, lì dentro. Maggie si chiede cosa significhi «intrattenere gli ospiti». Glielo domanda. Quella donna dai capelli grigi, autodefinitasi la decana di Sampson Lake, apre la bocca descrivendo una perfetta O fucsia e chiude gli occhi. No, signorina, qui a Sampson Lake non siamo in quel modo.

A Dubuque, in una stanza di motel gelida e puzzolente, sotto una stampa sbiadita di una spiaggia con un ombrellone a strisce, sfogliando distrattamente la Bibbia – la vicenda di Gedeone – Maggie dice: Sono sola. E in quella solitudine Maggie sa che nessuno la sta ascoltando, perciò decide di smettere di parlare – dello stupro così come di qualsiasi altra cosa, pronuncia soltanto qualche parola ogni tanto.

Per compensare, Maggie inizia a collezionare cartoline.

«Hai intenzione di spedirle?» le chiede una cameriera ficcanaso mentre passa l’aspirapolvere sulla moquette di cachemire.

«Pensavo di no» dice Maggie, seduta sul letto a gambe incrociate.

«Non aspetterai mica che diventino di valore, o cose così?» dice la cameriera.

«Che importanza ha?» chiede Maggie.

«Be’, perché mai vuoi ricordarti dove sei stata, se non hai intenzione di dirlo a nessuno?»

E dunque, quando Maggie si ritrova con una pila considerevole di cartoline, decide di cominciare a spedirle. Vorrei che fossi qui! Il Grand Canyon è… ignora sempre i suggerimenti prestampati e scrive quello che le è successo, quello che le ha detto Marcus allungandole un altro cocktail, tirandole giù le mutande. Cerca l’indirizzo di Marcus su Internet. Il suo indirizzo di casa, di casa dei suoi. E ovviamente sa che qualsiasi cosa spedita per posta finisce nelle mani dalle unghie perfette di sua madre, e viene letta.

Su Internet si trova tutto, e scopre in un baleno l’indirizzo di New York. Lo scrive con grafia curata, per essere sicura che arrivi laddove vuole che arrivi. Scottsdale. Taos. Park City. Venticinque, trentacinque centesimi, un dollaro. Compra cartoline patinate, quelle con i canyon, i tramonti e i giochi di parole. Indirizzo. Francobollo. Firma. E spedire.

Alla fine si ritrova a Skokie, dove sua madre le dice Hai perso peso! Stai benissimo! Maggie sorride senza mostrare i denti, che tiene sempre al sicuro nel caso abbia bisogno di mordere.

«C’è posta per te» dice sua madre e le mostra una pila sul tavolo luccicante in sala da pranzo. Ci sono tredici Maggie che la guardano dalla mensola del caminetto. Dall’asilo fino al giorno del diploma. A parte la foto al primo anno di liceo (apparecchio), mostra i denti in tutte quante. La pila di posta consiste per lo più in buste da lettera formato standard. La grafia è approssimativa, ma le sono arrivate comunque. Ne apre una. La legge. C’è scritto Che cazzo dici?. Apre le altre e legge molti altri Che cazzo dici?, e alla fine svariate minacce di un’azione legale. Fallo, pensa Maggie.

Ma poi si rende conto che in quel caso dovrebbe parlare, alzare la voce.

Sua madre rientra, tiene in mano un bicchiere d’acqua con una fetta di limone sul bordo. «Di chi sono tutte quelle lettere?» chiede. Maggie prende l’acqua, mordicchia la buccia, aspra sulla lingua.

Non risponde, ma assembla nella mente la sua storia. È sicura che presto, molto presto, finirà per raccontarla.

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Jennifer Fliss è scrittrice di narrativa e non-fiction, vive a Seattle. Ha pubblicato tra gli altri su PANK, The Rumpus, Necessary Fiction e Hippocampus. Potete contattarla su Twitter (@writesforlife) o tramite il suo sito web, www.jenniferflisscreative.com.

Titolo originale: Letters From the Person You Ate, @ Jennifer Fliss, all rights reserved
Fotografia @ Mariateresa Pazienza