IN CUI SI PARLA DI: morbo della mucca pazza, epidemie, Eric Schlosser, letteratura della carne, Ezra Taft Benson, sussidi governativi, E. coli, Carroll’s Foods, Nuova Agricoltura, Maiale #NPD 40-602, calamite, Upton Sinclair, mucche di peluche, prezzo del seme bovino, fertilizzanti petrolchimici, estrogeni sintetici, pesci ermafroditi, dieta South Beach, radical chic, Tom Wolfe, eterna Treblinka.

Mangiare senza sapere quasi nulla di ciò che si mangia.

Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer, numero di ottobre 2005

 

 

1. FAME NATURALE

«Questo è il pasto offerto a tutti in parti uguali, questo è il cibo per la fame naturale; è per il giusto come per il malvagio, tutti sono invitati…»
Walt Whitman, Canto di me stesso

 

Nel gennaio 2001 giunse dall’Europa una notizia che sembrava uscita da un film horror di seconda categoria, e con la medesima implausibilità fu ingigantita dai media: cervelli infettati dal morbo di Creutzfeldt-Jacob, la variante umana del morbo della mucca pazza, che si trasformavano in spugne. Letteralmente. E la mucca pazza si era diffusa perché – orrore! – davamo da mangiare mucche alle mucche, e forse anche perché, una volta vietata quella consuetudine, avevamo cominciato a nutrire i polli con le mucche e le mucche con escrementi di pollo. I media ci sbalordirono fornendoci una lista di sottoprodotti segreti dell’industria del manzo: sangue di mucca nella schiuma degli estintori e nei collanti per compensato, sego negli impermeabilizzanti, nelle creme contro l’acne, nei lubrificanti per motori a getto e negli isolanti applicati ai cavi elettrici. All’improvviso il manzo ci terrorizzava, la sua minacciosa ubiquità sottolineata dallo slogan: «È la nostra cena».

Il mese successivo i campi presero fuoco! Per scongiurare una seconda epidemia, infatti, gli allevatori europei radunarono, abbatterono e bruciarono (o seppellirono) oltre dieci milioni di capi di bestiame. In Gran Bretagna il grasso ricavato da quel massacro, aggiunto a quello di migliaia di bestie uccise per sconfiggere la prima epidemia di mucca pazza, diffusasi cinque anni prima, creò nel Paese una sovrabbondanza di quasi duecentoventicinquemila chili di sego. Intere mandrie giacevano ammassate in fosse comuni, eliminate come carichi di merce difettosa. Per dirla con delicatezza, all’improvviso tutto ciò che riguardava l’industria della carne cominciò a suscitare qualche sospetto. Osservavamo quello spettacolo apocalittico, con le sue pire di bestiame, al telegiornale della sera domandandoci come avesse fatto la ciccia di un quadrupede di mezza tonnellata a finire intorno ai cavi dentro la TV.

Poi il 17 gennaio 2001, con una sinergia di marketing totalmente accidentale, Eric Schlosser pubblicò il suo libro Fast Food Nation: il lato oscuro del cheeseburger globale, in cui forniva dati e aneddoti che non fecero altro che intensificare la nostra neonata repulsione per la carne. Anche se nell’opera il morbo della mucca pazza veniva a malapena menzionato, Schlosser metteva a nudo un’industria al contempo negligente e intenzionalmente sfruttatrice dei propri animali, lavoratori e clienti. La sua era un’efficace indagine scandalistica in un periodo in cui tali scandali già aleggiavano nell’aria.

Quella lama di rasoio in forma di libro che riferiva fatti orribili in bello stile divenne entro breve la pietra miliare di un genere letterario già in grande spolvero, quello della cosiddetta «letteratura della carne». Il successo riscosso da Fast Food Nation consolidò un mercato di vivace e incisiva letteratura sul bestiame e sulla produzione della carne, che cominciò così a trovare spazio sugli scaffali e sui giornali di tutto il Paese – opere come The Meat You Eat: How Corporate Farming Has Endangered America’s Food Supply di Ken Midkiff, o il colorito j’accuse di Howard F. Lyman, Mad Cowboy: Plain Truth Form the Cattle Rancher Who Won’t Eat Meat; o ancora il libro di Sheldon Rampton e John Stauber, Mad Cow U.S.A.: Could the Nightmare Happen Here?; quello di Jeremy Rifkin, Ecocidio: ascesa e caduta della cultura della carne o di Gail Eisnitz, Slaughterhouse, che rivelava gli abusi perpetrati in un mattatoio dello stato di Washington. Dalla pubblicazione dell’opera di Schlosser negli Stati Uniti sono stati scoperti due casi di mucca pazza e un caso di morbo di Creutzfeldt-Jacob su un essere umano (a dirla tutta, una delle due mucche veniva dal Canada, e l’uomo infetto aveva vissuto in Inghilterra). Così per un po’ ne abbiamo discusso ai notiziari ma, in generale, abbiamo continuato a mangiare carne. Dopo qualche anno l’usda ha promulgato dei regolamenti volti a proteggere il bestiame dalla mucca pazza. Non abbiamo abbattuto né bruciato nulla. Anzi, abbiamo iniziato a ostentare le parti peggiori della carne di produzione industriale come il massimo della ricercatezza. Oggigiorno leggere quanto sia disgustoso il nostro cibo è diventato un nuovo passatempo americano.

2. DISSONANZA DIGESTIVA

«Non si capacitavano che un comune mortale fosse riuscito a mettere in piedi qualcosa di così straordinario. […] Era immenso come l’universo. Le norme e la regolamentazione delle pratiche di lavoro con cui quell’industria funzionava non si potevano capire, né essere messe in discussione alla stregua dei meccanismi di funzionamento e delle leggi dell’universo. Jurgis riteneva che bisognasse semplicemente limitarsi ad accettare quel tutto, accettare quella cosa che gli pareva stupefacente e che tutti giudicavano tale».
Upton Sinclair, descrivendo un mattatoio industriale ne La giungla (1906)

Il primo libro contemporaneo di Letteratura Popolare della Carne è stato Modern Meat di Orville Schell, pubblicato nel 1984. Schell, giornalista del New Yorker, attraversò il Paese indagando l’utilizzo superficiale degli ormoni sul bestiame, degli additivi nel cibo e di altre nuove «tecnologie» impiegate negli allevamenti americani (nutrire le mucche con il loro stesso letame, ad esempio, è considerata una «tecnologia»). Schell, con un misto di rabbia e cinismo, alterna aneddoti sulle tanto decantate meraviglie agricole a interludi sulle sue deprimenti soste per mangiare lungo la via. Il moderno carnivoro è al sicuro?, si chiede. Difficile a dirsi. Schell, che all’epoca era a sua volta un allevatore, conclude che «metodi utilizzati da secoli e che nel corso della storia umana si sono dimostrati sicuri ed efficaci, vengono abbandonati in fretta e furia per essere sostituiti da nuovi che appaiono più efficienti», senza badare più di tanto agli effetti cumulativi.

Questa ansia da efficienza prese corpo negli anni Cinquanta, quando il Segretario all’Agricoltura Ezra Taft Benson diede ai contadini americani un ultimatum, il famoso slogan «Get big or get out»: ingranditevi o andatevene. Sostenuta dai generosi sussidi governativi, dall’indulgenza nei confronti dei trust e da un modo quantomeno sbrigativo di far rispettare le normative in termini di sicurezza e salute, l’industria agricola si ingrandì in fretta, gonfiandosi e mutando come l’incredibile Hulk e dando vita alle odierne fattorie, imbottite di prodotti farmaceutici e sottomesse alla logica della produzione di massa. La carne divenne economica e abbondante (tanto che il prodotto agricolo più redditizio per unità divenne il maiale), e quell’abbondanza a poco prezzo fu considerata un trionfo dagli addetti ai lavori. Per chi scriveva di carne, invece, incline a scavare alla ricerca delle tante conseguenze nascoste di quel sistema, fu solo un segno: in ciò che stava avvenendo c’era qualcosa di profondamente sbagliato. «Più di qualsiasi altra istituzione,» scrisse Michael Pollan sul New York Times Magazine «gli allevamenti industriali americani offrono un inquietante anteprima di cosa potrebbe diventare il capitalismo in assenza di vincoli regolatori o morali».[1]

Leggendo libri sulla carne si visualizzano intere specie animali congelate in un perpetuo stato di supporto vitale, per cui non devono fare altro che ingrassare e morire. Abbiamo allevato il tacchino in modo tale che sviluppasse un petto più ampio, così ampio che ora il volatile non è neanche in grado di accoppiarsi senza l’aiuto dell’uomo.

Gli allevamenti intensivi di suini della Carroll’s Foods, in North Carolina, sono emblematici della Nuova Agricoltura (la Carroll’s è un marchio della Smithfield Foods, una delle due principali aziende di allevamento di suini degli Stati Uniti). Nel libro Dominion: The Power of Man, the Suffering of Animals, and the Call to Mercy, Matthew Scully visita gli stabilimenti Carroll’s e osserva che l’azienda ha sottratto il fattore alla «fattoria» e l’anima agli «animali». Gli allevatori, infatti, sono «braccia salariate nella loro stessa proprietà», stipendiati dalla Smithfield per allevare (a loro spese, a loro rischio e pericolo, e nel rispetto di linee guida severissime) una parte degli 82.300 capi di bestiame che la compagnia manda al macello ogni giorno. Ne uccide sette milioni l’anno soltanto nel North Carolina, poco meno di uno al secondo.

Per raggiungere cifre simili serve la cosiddetta «intensità gestionale». Le scrofe, bestie da duecento chili, vengono tenute praticamente immobili, venti per recinto, in uno spazio che conta venticinque recinti ogni settanta centimetri quadrati. A un primo sguardo non sembrano molto in salute. Che cos’è quell’escrescenza sul maiale #npd 40-602, chiede Scully a una giovane operai che ricopre di attenzioni i tristi, spesso semi-comatosi suini come se fossero animali da compagnia? «È solo una sacca di pus» risponde lei. «Vengono a tutti». La Nuova Agricoltura, però, può ovviare alle sacche di pus. Può ovviare perfino alla morte. «Non solo gli allevatori possono permettersi di perdere parte del bestiame,» scrive Scully «ma ci contano. Il sistema presuppone che l’alto tasso di perdite sia nettamente inferiore al tasso di produzione».

Leggendo libri sulla carne si inizia anche a scorgere l’esistenza di un’intera industria che si basa su un sistema di supporto vitale, che rende tutto sommariamente «efficiente» risolvendo i problemi senza risolverli davvero, tramite cioè espedienti inadeguati e frettolosi. L’industria della carne brulica di idiosincrasie: offre soluzioni sensate a problemi insensati da lei stessa creati.

Molti scrittori osservano che la dieta delle mucche spesso include cartone riciclato e altri «carboidrati» di scarto, per portare le bestie, in poco tempo e a basso costo, al peso giusto per la macellazione. Invece di premurarsi di eliminare le pericolose graffette metalliche sparpagliate in quel «mangime», gli allevatori si limitano a far inghiottire all’animale ancora piccolo una calamita, per poterle raccogliere in sicurezza. Un altro esempio portato alla luce da Scully è il taglio della coda. Dal momento che i maialini vengono separati dalla madre prima dello svezzamento, spesso si riducono a utilizzare come tettarella la coda della scrofa immobilizzata davanti a loro, e a furia di mordicchiarla gliela staccano a morsi. Un maiale depresso non ha motivo di difendersi da un sopruso del genere, che provoca spesso infezioni e perfino la morte. Perciò, invece di ampliare i recinti dei maiali, gli allevatori fanno un taglietto sulla coda di ogni bestia in modo da renderla più sensibile. Quando i piccoli la mordono, l’animale prova talmente tanto dolore che se non altro oppone un po’ di resistenza.

Schlosser, tuttavia, asserisce come sia un’altra la soluzione rapida potenzialmente più dannosa di tutte:

Invece di concentrarsi sulle cause principali di contaminazione della carne – il mangime, l’affollamento nelle mangiatoie, l’igiene pessima nei mattatoi, la velocità eccessiva delle linee produttive, gli operai scarsamente addestrati, la mancanza di una sorveglianza seria da parte del governo – l’industria della carne e l’usda parlano ora di una peculiare soluzione tecnologica al problema dei patogeni di origine alimentare. Vogliono sottoporre la carne a radiazioni.

Tralasciando per un attimo la sicurezza del consumatore, nel suo libro Schlosser intervista un ex ingegnere che progettava mattatoi, il quale si dichiara «parecchio preoccupato per l’introduzione della tecnologia nucleare ed elettromagnetica complessa in questi luoghi, dove la forza lavoro è per lo più incolta e non di lingua inglese».

Tuttavia con l’ampliarsi dell’industria, divenuta sempre più idiosincratica e crudele, la questione è passata in secondo piano. Come nota Wendell Berry nella sua raccolta di saggi The Unsettling of America, secondo un ex vice Segretario dell’Agricoltura il 95% degli americani si era «liberato della fatica di prepararsi da mangiare». Da lontano quel mondo a noi appare un po’ come doveva essere apparso a Jurgis, l’immigrato protagonista del romanzo La giungla di Upton Sinclair, antico progenitore della Letteratura Popolare della Carne. Le origini della nostra carne «non si possono capire, né mettere in discussione alla stregua dei meccanismi di funzionamento e delle leggi dell’universo». Possiamo solo fare come ci viene detto: mangiare molto e a poco prezzo.

Uno «scrittore della carne» è attento al controsenso insito nella consuetudine di mangiare senza sapere quasi nulla di ciò che si mangia – una sorta di dissonanza digestiva, se vogliamo. E un bravo «scrittore della carne» vuole esplorare quella deriva, intento spesso evidente nella struttura stessa del suo libro. Eric Schlosser rivela «il Lato Oscuro della carne americana» ripercorrendo a ritroso il percorso compiuto da quest’ultima, dall’hamburger ai recinti da ingrasso, dalla friggitoria all’allevamento. Il memoir di Peter Lovenheim, Portrait of a Burger as a Young Calf (2002), nel quale l’autore alleva due vitelli per poi macellarli, inizia con un’epifania di dissonanza digestiva: in un McDonald’s Lovenheim scopre che i bambini che comprano un hamburger ricevono in regalo due piccole mucche di peluche, di nome «Snort» e «Daisy». Subito si rende conto della «profonda dissonanza tra ciò che mangiamo e la provenienza del cibo in questione» e decide di «collegare i puntini» dalla «nascita dell’animale all’hamburger» – dal «concepimento al consumo» – per sondare la zona grigia tra uno stadio e l’altro.[2]

Nel marzo 2002 Michael Pollan utilizza lo stesso sistema in un articolo pubblicato sul New York Times Magazine, «Power Steer»: decide di comprare e allevare di persona un vitello «per scoprire come viene prodotta oggi in America una bistecca industriale, dall’inseminazione al mattatoio».[3]

È interessante notare che Lovenheim e Pollan sono entrambi uomini di famiglia di mezza età, professionisti residenti in una periferia urbana. Lovenheim è laureato in giurisprudenza, e vive con la moglie e i due figli appena fuori Rochester. Pollan appartiene alla classe medio-alta e all’epoca in cui scrisse l’articolo abitava in una florida città del Connecticut. In breve, entrambi sono l’epitome dell’americano che si è liberato «della fatica di prepararsi il cibo da solo», ed è perfettamente in grado di smascherare su carta le macchinazioni dell’industria della carne che, per usare le parole di Upton Sinclair, «non si potevano capire, né essere messe in discussione». Tuttavia sono «scrittori della carne», e uno «scrittore della carne» non arretra stupito dinanzi all’ignoranza. Uno «scrittore della carne» brama informazioni, svela sistematicamente la verità grottesca che si cela dietro ogni morso. Meno siamo a conoscenza delle tante perversioni dell’industria, maggiori sono i dettagli con cui sono in grado di allietarci. O disgustarci. O entrambe le cose.

3. GLI STREPITI DI TUTTI I MAIALI DELL’UNIVERSO

«Era la produzione meccanizzata della carne di maiale, la produzione organizzata su base matematica della carne di maiale. Ma, anche la mente più affaristica e apatica non poteva non pensare, perlomeno per un solo istante, a quei poveri maiali. […] Non si poteva evitare, riflettendo sulla questione, di precipitare in uno stato d’animo filosofico o sentimentale, finendo con l’interpellare e chiamare in causa simboli e metafore, mentre su udivano gli strepiti di tutti i maiali dell’universo».
La giungla

Upton Sinclair non aveva certo intenzione di essere il progenitore di tutti gli «scrittori della carne». Aveva soltanto ritenuto che gli allevamenti di Chicago fossero uno sfondo sufficientemente inquietante per il suo romanzo sui lavoratori immigrati. Ma il dramma narrato ne La giungla è sovrastato dal tanfo umidiccio della sua ambientazione, tanto che lo scalpore suscitato dal romanzo scatenò la riforma federale dell’industria della carne. «Ho puntato al cuore della gente» scrisse in seguito Sinclair «e per sbaglio l’ho colpita allo stomaco».

Al contrario, chi scrive di carne oggi mira precisamente lì, allo stomaco. Ma per far rimescolare uno stomaco, di questi tempi, serve ben altro che uno scenario cruento. Ingigantendo e sfidando la nostra dissonanza digestiva, lo scrittore deve stabilire legami e trattare con occhio critico ciò che vede. Deve narrarlo con meticolosità e incisività, ma anche indulgere in simboli e segni, sentire gli strepiti di tutti i maiali dell’universo attraverso il sistema che l’industria ha costruito per soffocarli. In breve, lo scrittore deve avere presente il quadro generale, quello dettagliato, e le tracce lasciate dall’uno nell’altro.

In «Power Steer» Pollan si rivela un maestro di questa tecnica mentre osserva il suo vitello n. 534 crescere al solo scopo di essere macellato. Lovenheim invece, in Portrait of a Burger, sorvola sul processo, più interessato alla trasformazione di se stesso da dandy di periferia ad allevatore che alla trasformazione dei suoi adorati animali in cibo.

Lovenheim visita un idilliaco allevamento a gestione familiare in cui si producono prodotti caseari, novecento capi nel nord dello stato di New York (gli hamburger dei fast food, scopre, vengono assemblati per lo più con la carne di mucche la cui produzione di latte si è dimostrata insoddisfacente). È un «luogo pacifico», talmente idilliaco che i proprietari, gli Smith, sono stati scelti per comparire sui poster pubblicitari della Monsanto – azienda che diffonde il bst (un controverso ormone della crescita), proprietaria di diverse colture e fertilizzanti, e criticata aspramente da molti piccoli contadini e commercianti alimentari di tutto il mondo. Il ritratto della famiglia Smith occupa un’intera pagina della brochure Monsanto per il bst, ciò nonostante Lovenheim si sofferma a malapena degli effetti che quegli ormoni producono. Pollan, invece, porta il suo n. 534 in un tipico recinto da ingrasso industriale su vasta scala, in Kansas, dove un sistema computerizzato si occupa di nutrire 37.000 capi. Lo paragona a una città pre-moderna – «affollata, sporca e puzzolente, con fogne a cielo aperto, strade non asfaltate e un’aria soffocante».

Lovenheim nel frattempo incontra Bonanza, il manzo che diventerà il padre artificiale dei suoi vitelli. Ben noto nell’industria per la bellezza dei suoi piccoli, Bonanza fornisce un seme venduto a circa venti dollari la dose. L’inseminazione artificiale è diventata ormai la norma, spiega Lovenheim, per mantenere il prodotto finale a un livello di qualità uniforme. Ciò implica parecchio lavoro per manzi di valore come Bonanza. «Per i nove milioni circa di mucche presenti oggi negli Stati Uniti,» scrive Lovenheim «in un qualsiasi momento ci sono, probabilmente, meno di un migliaio di tori che forniscono il loro seme» (si stima che, da qualche parte nel mondo, ogni due minuti nasca un vitello grazie al seme di Sonny Boy, un leggendario manzo Holstein). Ma analizzando al microscopio il seme di Bonanza, Lovenheim sceglie di non speculare sugli aspetti nocivi o perfino discutibili della pratica di ridurre il pool genetico di una specie in nome dei capi di bestiame pasciuti, né su cosa potrebbe significare per la specie che mangia quelle migliaia di fratellastri e sorellastre. Lo considera, piuttosto, «il vero punto di partenza» del suo viaggio.

Entrambi gli scrittori prevedono per i loro vitelli una solida dieta a base di mais, di gran lunga il modo più rapido ed economico per portare un animale al peso da macello, circa 500 kg.[4] Pollan coglie l’occasione per illustrare che cosa nello specifico abbia reso il mais tanto economico – i massicci sussidi governativi e i fertilizzanti ricavati dai prodotti petrolchimici (derivati dal petrolio) – e parlare della sbalorditiva quantità di grassi saturi in eccesso che si trova nella carne dei manzi nutriti con mais rispetto a quelli nutriti con erba.

Neppure Lovenheim ama la dieta a base di mais e chiede al suo allevatore di smettere di somministrarlo ai suoi vitelli – non perché abbia cominciato a comprendere il sistema, ma perché è convinto che faccia male agli animali. Dopo un esame di coscienza approfondito e molti infruttuosi colloqui con il guru Sua Santità Jagannatha Dasa Puripadast – che un tempo si guadagnava da vivere indossando il costume di Ronald McDonald e aveva avvertito Lovenheim dicendogli, «Se li uccidi, il karma ti farà vedere i sorci verdi!» – Lovenheim abbandona l’allevamento e vende le sue bellezze a un posto chiamato «Farm Sanctuary».

Tuttavia, affermando di allontanarsi «dalla “moltitudine” per osservarne soltanto uno» per comprendere meglio «come si nutre una nazione», dimostra di sbagliare ancora. Si concentra sui suoi vitelli, rifiutandosi di considerare il quadro generale. Così facendo ignora il fondamento della moderna produzione della carne, ovvero che si tratta di un’economia di scala. Lovenheim sfrutta i suoi due vitelli per apprendere soltanto una cosa, che è difficile uccidere un vitellino.

Pollan, invece, lo fa per tratteggiare il quadro generale, arrivando a definire cosa ci sia nello specifico di assurdo e distruttivo – a livello ecologico, medico e perfino politico – nell’industria. «Si può andare ancora oltre e ricondurre il fertilizzante necessario a far crescere quel mais alle aree petrolifere del Golfo Persico» scrive su «Power Steer», un articolo uscito nel periodo in cui si parlava con insistenza di un’imminente guerra in Iraq. Si rende conto che saranno necessari 284 galloni di petrolio per dar da mangiare al suo manzo. «Siamo riusciti a industrializzare il vitello, trasformando quello che un tempo era un ruminante a energia solare nell’ultima cosa di cui abbiamo bisogno: un’altra macchina a combustibile fossile».

È precisamente questo il tipo di conclusione a rendere tanto affascinanti le opere dei migliori scrittori di questo ambito. Sebbene il caso faccia spesso la sua parte. Scully, ad esempio, mette sotto pressione un portavoce della Smithfield, che finisce per balbettare questa patetica giustificazione in difesa delle strutture di allevamento di massa dell’azienda: «Gli animali all’esterno sono esposti alle punture di zanzare e cose così… I nostri animali sono al sicuro». In Modern Meat Orville Schell osserva: «In un’occasione, ad esempio, ho visto un cowboy texano impugnare una siringa come se fosse una pistola ad acqua e spruzzare sul viso di un collega dell’estradiolo cipionato, un estrogeno iniettabile […] utilizzato per sopprimere gli animali o indurli a espellere feti mummificati».

Un ormone su cui si concentra Schell è il dietilstilbestrolo (des), un estrogeno sintetico che veniva impiegato senza restrizioni di sorta per stimolare la crescita del bestiame. L’FDA lo ha vietato solo quando si è resa conto che molti bambini presentavano cisti e uno sviluppo sessuale prematuro (neonati di entrambi i sessi sfoggiavano pelo pubico e seni), disturbi che potevano essere provocati dalla presenza di quel composto nella carne. Nel romanzo Carne di Ruth Ozeki un giovane regista di documentari scopre che in un ranch del Colorado il des era stato impiegato illegalmente con tragiche conseguenze per la figlia del proprietario, una bambina di cinque anni:

Indossava mutandine di cotone bianco, tirate fin sullo stomaco. Bunny le si avvicinò, le sollevò i piccoli fianchi e le abbassò le mutande. La delicata pelle della piccola era ininterrottamente liscia fino sotto la curva del ventre e sull’osso pubico, dove all’improvviso, come in un grottesco graffito, spuntava un intrico di peli.[5]

La verità assume le sembianze della satira. Taglio della coda, sacche di pus, pesci ermafroditi: a una cultura fondamentalmente moralista ancora non del tutto a proprio agio con i propri istinti capitalistici come la nostra, tutto questo, accompagnato dalla nostra complicità, risulta macabro e al contempo affascinante.

Una volta resi edotti sullo spietato, bizzarro mondo della produzione della carne, possiamo ridere dell’ingenuo che trangugia cucchiaiate di chili cancerogeno, devastante per l’ambiente, aberrante a livello morale – perfino se quell’ingenuo siamo noi. Più siamo ignoranti, e carichi di dissonanza digestiva, maggiore è l’ironia cui lo scrittore deve ricorrere. E considerata la posta in ballo (vita, morte, etica), quell’ironia raggiunge spesso e volentieri vette shakespeariane. Noi carnivori e capitalisti siamo i nostri personali Re Lear.

4. MA È DELIZIOSO

«Chi va là? Bramoso, inquietante, mistico, nudo;
Come posso ricavare forza dal manzo di cui mi nutro?»
Walt Whitman, Canto di me stesso

In uno dei passaggi più sconvolgenti de La giungla, Sinclair rivela la verità sulla produzione di salsicce. Dopo aver ripulito le cisterne dei prodotti di scarto dello stabilimento – un lavoro eseguito solo una volta l’anno, per risparmiare – ciò che ne viene estratto (pezzi di carne, sporcizia, grasso, ruggine, zoccoli eccetera) viene definito senza tante cerimonie «ingredienti». E c’è di peggio:

Se dall’Europa venivano respinte vecchie salsicce che ormai erano ammuffite e sbiancate, le si riciclava trattandole con borace e glicerina, e le si gettava di nuovo nei recipienti. […] La carne veniva caricata sui carrelli, e anche se ci finiva in mezzo un topo l’uomo che se ne occupava non si preoccupava certo di buttarlo via… E poi c’erano tante altre cose che finivano dentro le salsicce, che al confronto un topo morto poteva essere considerato un bocconcino prelibato.

Questo brano segue quello in cui si descrive la morte del piccolo Kristoforas, il cuginetto in fasce del protagonista. Come muore Kristoforas? «Forse fu la salsiccia affumicata che aveva mangiato quella mattina, che poteva contenere un po’ di maiale tubercolotico raccolto sul fondo della cisterna» scrive Sinclair. «Comunque, un’ora dopo averla mangiata, il bambino aveva iniziato a piangere di dolore e dopo un’altra ora aveva preso a rotolarsi sul pavimento in preda alle convulsioni».

Perché quegli insaccatori, immersi fino alle ginocchia negli scarti cosparsi di topi, nutrono i loro figli con le salsicce? Schlosser mangiò una straordinaria quantità di cibo da fast food mentre scriveva il suo libro, e Orville Schell mangia sempre il tipo di carne di cui scrive, divorando bistecche «malgrado il rischio di contaminazione da des». Verso il finale di «Power Steer» leggiamo che Pollan aspetta per posta una scatola piena di tagli di carne ricavati dal suo n. 534. Guardando la madre del vitello mentre veniva smembrata nel mattatoio, Lovenheim, che comunque mangia raramente carne, sente di aver fame. «A dire il vero» scrive «ho l’acquolina in bocca».

Quando si tratta di riconciliarsi con la dissonanza digestiva, sembra che non si sopravaluti mai abbastanza l’autorità morale dello stomaco. A sottolinearlo resta il fatto che la carne, perfino quella prodotta industrialmente, ha un buon sapore per gran parte di noi. È deliziosa. Anche se il consumo di carne oggigiorno è lievemente calato negli Stati Uniti, il crescente successo della letteratura della carne è coinciso virtualmente con l’esplosione delle diete Atkins e South Beach, due famigerate diete-truffa ad alto contenuto di carne. Inoltre anche frattaglie come cuore, fegato e intestini, sono sempre più diffuse anche nella haute cuisine.[6] Di conseguenza è legittimo presumere che molte, se non la maggior parte delle persone che leggono libri sulla carne, oltre alla legione di critici che vi riversa sopra elogi come se fossero salsa gravy, sono carnivore, si nutrono sbrigativamente di manzo. Punto.

Perciò ci troviamo dinanzi a una nuova branca di dissonanza digestiva: la discrepanza tra ciò che mangiamo e quanto ne sappiamo.

In parte non è colpa nostra. Come osservano molti scrittori, l’industria della carne ha fatto del suo meglio per far restare il popolo nell’ignoranza – o se non altro per distrarlo. Ha rafforzato la nostra dissonanza digestiva perfezionando la trasformazione di milioni di animali diversi fra loro in una massa indistinta di prodotti. «Quale altra merce di supermercato tace le proprie origini più di un pezzo di carne coperto dalla pellicola trasparente?» si chiede Pollan, soprattutto dopo che il pezzo di carne in questione è stato tagliato, privato della cartilagine, e disposto nel modo che più lo rende appetibile.

Ma se non abbiamo intenzione di soddisfare i nostri appetiti con bestiame allevato in modo più umano, o di smettere del tutto di mangiare carne, perché allora continuiamo a leggere libri sugli orrori dell’allevamento industrializzato? Il cinico che c’è in me pensa subito a Radical chic, il libro in cui Tom Wolfe racconta di certi esponenti dell’alta società di Park Avenue a fine anni Sessanta e della loro infatuazione per il movimento delle Black Panthers. Wolfe ci descrive l’evento benefico per sostenere la causa delle Panther organizzato nell’attico di tredici stanze di Felicia e Leonard Bernstein. Qui Wolfe respira la medesima ironia drammatica che lo scrittore di carne trova in un allevamento industrializzato. Per esempio, di che colore dovrebbe essere la pelle dei domestici a un evento simile?

A questo punto qualche benpensante potrà obiettare: ma se la faccenda crea simili tensioni e se uno crede veramente nell’uguaglianza, perché allora non fare del tutto a meno dei domestici? Be’, il solo chiederselo è sintomo che si ignora un elemento basilare della vita nei grandi appartamenti e nelle residenze dell’East Side nell’Era Radical Chic. Perché, Dio mio, i domestici non sono solo una comodità, sono un assoluto bisogno psicologico. […] Dio, a questi eventi Radical Chic passa per la testa un tale diluvio di tabù… Ma è delizioso. È come se le terminazioni nervose fossero in allarme rosso per quel che riguarda le sfumature più personali di status.[7]

E tutto questo è delizioso davvero. È delizioso come lo è che individui del tutto ordinari come Pollan e Lovenheim – gente come noi, preda della dissonanza digestiva – possano mettersi camicie di jeans e stivali ed essere redenti. Potrebbe sembrare una visione superficiale, ma la letteratura della carne ci offre questa opportunità di catarsi indiretta. Ciò nonostante sospetto ancora, e spero, che ci sia di più.

Ecco una delle frasi con cui Walt Whitman cominciò quello che divenne il suo capolavoro, Canto di me stesso: «La vacca ruminante a capo chino è più bella di qualsiasi statua». La nobiltà della mucca che pascola, che trasforma l’erba in proteine, stimola nel poeta un’appassionata affermazione della propria identità, un’istintiva consapevolezza di se stesso intrappolato nella ragnatela del mondo. Ecco perché Whitman, in un certo senso, può essere definito il primo «scrittore della carne» d’America. Il riconoscimento e l’immediata riconciliazione della dissonanza digestiva – il legame che riconosce tra sé e il cibo che mangia, e non solo – sono momenti catalizzanti nella sua celebrazione estatica della vita. A trarre la medesima conclusione fu nientemeno che Mohandas Gandhi, il Mahatma, il quale disse: «Per me la vacca è l’epitome di tutto il mondo infra-umano; permette al credente di comprendere la sua comunione con tutto ciò che vive… La vacca è una poesia di compassione».

La letteratura della carne si basa sullo stabilire delle connessioni, legare l’ordinario al sensazionale, ridare un luogo e un volto a ciò che è sradicato, indistinto. Riconduce il prosciutto dei supermercati a un allevamento affollato della Smithfield e ci serve un bel vassoio di guerra in Iraq. Per orribile che sia, è anche rassicurante. Perché i dettagli potrebbero risvegliare, come nel caso di Whitman, la nostra autoconsapevolezza, provocare in noi una maggiore sensibilità nei confronti delle nostre responsabilità e aiutarci a capire se siamo in grado di farvi fronte o meno. In ultima analisi la letteratura della carne ci permette di stabilire un contatto con qualcosa, e in fondo, a chi piace mangiare da solo?


  1. Sarebbe impossibile illustrare tutte le conseguenze in un unico saggio. Due che meritano di essere menzionate, tuttavia, sono la contaminazione dei corsi d’acqua e delle terre intorno agli allevamenti con massicce quantità di feci e sottoprodotti di ormoni (spesso evidenziata dalle mutazioni sessuali che si verificano nei pesci); e la possibilità che l’utilizzo diffuso degli antibiotici per le mandrie crei ultraresistenti malattie umane e animali come la salmonella e l’E. coli. Per non parlare di ciò cui vanno incontro i lavoratori dei mattatoi.
  2. Le frasi «da… a…» sono un caratteristica saliente di gran parte della letteratura della carne. Midkiff, per esempio, dice «da neonato a surgelato» e «dal seme al cellophane». Schell, invece, predilige «dalla mandria alla morte» e Gail Eisnitz «dal recinto alla forchetta».
  3. Pollan ebbe la sua epifania sulla dissonanza digestiva mentre si preparava a scrivere un secondo pezzo per il New York Times Magazine, «An Animal’s Place». In quell’occasione si sedette a leggere Animal Liberation di Peter Singer – libro che, a detta di tutti, ha ispirato i movimenti in difesa dei diritti degli animali – davanti a una bella bistecca, cosa che paragona a «leggere La capanna dello zio Tom in una piantagione del profondo sud del 1852».
  4. La dieta di mais prevede di somministrare ai vitelli continue dosi di antibiotici, per prevenire le cisti e impedire che gli stomaci, ruminanti e dal pH neutro, si gonfino e inacidiscano. È l’ennesimo caso del modus operandi demenziale dell’industria della carne: anche accompagnata all’impiego di antibiotici, infatti, la dieta di solo mais spesso provoca ascessi nel fegato e può causare un’ampia varietà di disordini e malattie metabolici. Ma gli allevatori badano ai numeri, perché sanno che una percentuale soddisfacente di bestie malnutrite sopravviverà per approdare nel mattatoio. In sostanza abbiamo cercato un cibo che facesse ingrassare a poco prezzo e in fretta le mucche, poi abbiamo trasformato chimicamente queste ultime in modo tale che fossero in grado di sopravvivere nutrendosene.
  5. Pur trattandosi di romanzo, la descrizione della Ozeki rispecchia gli aneddoti riferiti in Modern Meat, dove Schell descrive le fotografie dei bambini contaminati con il des mostrategli da un pediatra di Porto Rico.
  6. Dal sito Slate.com: «Quando i clienti del Babbo, l’elegante ristorante italiano aperto da Mario Batali a New York, ordinano un piatto chiamato “Testa”, spendono dieci dollari per mangiare un insaccato ottenuto bollendo una testa di maiale, cui vengono aggiunti pezzetti di cervello, cartilagine e altri scarti. Non è divertente?»
  7. Non è assolutamente mia intenzione paragonare le mucche agli afroamericani, ma Marjorie Spiegel a quanto pare lo fa nel suo The Dreaded Comparison: Human and Animal Slavery (prefazione di Alice Walker). Si veda anche Eternal Treblinka: Our Treatment of Animals and the Holocaust di Charles Patterson, che a sua volta prende il titolo dalle parole di Isaac Bashevis Singer: «Con loro tutti sono nazisti; per gli animali è un’eterna Treblinka».

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Jon Mooallem è un ex macellaio kosher e collaboratore di Harper’s, Nation e Salon.com. Dopo aver scritto questo saggio per The Believer è entrato alla UC Berkeley Graduate School of Journalism, dove insegnano sia Michael Pollan sia Orville Schell. Oggi collabora con il New York Times Magazine ed è autore del saggio Wild Ones: A Sometimes Dismaying, Weirdly Reassuring Story About Looking at People Looking at Animals in America.

Titolo originale: Carnivors, Capitalists, and the Meat We Read, © Jon Mooallem, 2005, all rights reserved
Fotografia © Michele Nenna
I passi de La giungla di Upton Sinclair citati in questo saggio sono tratti dall’edizione Gingko del 2011 (traduzione di R. G. Orri); quelli di Canto di me stesso di Walt Whitman dall’edizione Demetra del 1997 (traduzione di A. Quattrone) e quelli di Radical chic di Tom Wolfe dall’edizione Castelvecchi del 2014 (traduzione di T. Lo Porto).