Questo racconto è apparso originariamente su Hobart il 27 novembre 2017

 

Per arrivare in Alabama impiegammo tredici ore. Ci fermammo in un Country Inn vicino ad Athens. Avevo prenotato per la settimana sbagliata. Era gennaio, una giornata bigia. Avevano ancora delle stanze libere.

Il cane dormì sul letto, in mezzo a noi.

Al mattino andammo a fare colazione in un IHOP. Dall’Inn ci si arrivava a piedi e lasciammo il cane da solo in camera per un’oretta. Non avremo voluto, ma avevamo fame.

«Passato mezzogiorno» dissi ad Annie «non ci rivedrà mai più».

Mangiammo i pancake e mi portai via la salsiccia avvolta in un tovagliolo. In auto la feci a pezzetti e imboccai il cane. Dopo, mentre guidavo, mi guardava le dita, impaziente.

*

Il rifugio puzzava di antisettici. A ogni ingresso Karen, la proprietaria, riempiva dei secchi con una soluzione di varechina. I visitatori dovevano pulirsi le scarpe prima di entrare e rifarlo una volta usciti. Quello di Karen era l’unico rifugio nell’arco di mille miglia dove i cani non li ammazzavano, e c’era posto per il nostro. Seguimmo tutte le istruzioni.

C’erano quarantanove cani, ventiquattro dei quali alloggiati in cucce all’aperto e venticinque distribuiti in ambienti separati all’interno del rifugio, che era due volte tanto la casa di Karen. Gli spazi erano assegnati in base al tipo di cane: vecchio, timido, chiassoso, malaticcio, arrapato.

«Aggressivo» dissi, porgendo a Karen il guinzaglio.

«È solo che ha tanti denti» ribatté Karen, tamponandosi il dorso della mano con una garza. «Starà per conto suo».

Riempii i moduli mentre Annie – solo più tardi scoprii che aveva smesso di amarmi, che si preparava a lasciarmi, calcolando quanto avrebbe dovuto aspettare dopo l’addio al cane per chiudere la questione senza passare per una stronza senza cuore – teneva il guinzaglio e aspettava. Firmai e Karen condusse il cane in una gabbia temporanea, gli tolse il collare, chiuse la gabbia. Il cane mi abbaiò dietro, ma io non mi voltai.

Immersi i piedi nell’antisettico, uscii nella luce grigiastra del giorno, percorsi il vialetto di ghiaia verso la strada finché il latrato del cane non si confuse con gli altri. Sapevo che il pianto di quelle bestie mi avrebbe accompagnato per tutto il viaggio fino in Iowa. Avrei continuato a sentirlo nei rumori dell’autostrada, nelle interferenze della radio, nel vento che soffiava sui campi di mais. Me lo sarei portato dietro per tutta la vita.

Quello, e nient’altro.

*

Brian Phillip Whalen ha pubblicato su The Southern Review, Spillway, Mid-American Review, Cherry Tree, Fiction International, Poets.org. Ha conseguito il dottorato alla SUNY Albany e vive nell’Upstate New York con la moglie e la figlia.

Titolo originale: Dog, @ Brian Phillip Whalen, all rights reserved